Premio OzieriPremio Ozieri di Letteratura Sarda 

di Gian Gabriele Cau

 

 

 

Estratto da: «Theologica & Historica Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna», n. XXIII (2013) , pp. 265-308.

 

 

Poco distante dallo svincolo di Ghilarza della ss. 131, presso il villaggio di Zuri (frazione di Ghilarza), la chiesa di San Pietro domina il lago Omodeo, al cui invaso fu sottratta con ricostruzione anastilotica più a monte, nel triennio 1923-25. Raro esempio di architettura tardoromanico lombarda, fu edificata sul volgere del xiii secolo in una Sardegna dominata dal romanico pisano, per il patronato di una committenza giudicale di alte pretese, che nelle mani esperte di un maestro di Como aveva posto uno dei progetti più significativi di un ampio piano di riqualificazione architettonica del Giudicato di Arborea. Sono gli anni in cui era stato appena portato a compimento il San Francesco di Stampace di Cagliari, la prima chiesa sarda nella quale si riscontra l’eco diretta di aule fortemente allungate come questa di Zuri e come quelle che andavano diffondendosi nella stessa epoca nel Continente. Tuttavia, nonostante le grandi monofore che pure danno all’interno una luminosità tra le più alte di tutto l’intero sviluppo dell’architettura medioevale isolana[1] e l’innovativa pianta, la chiesa – scrive Raffaello Delogu – appare ancora come un «compromesso tra sensibilità gotica e un modo di sentire lo spazio romanico», poiché l’impianto mononavale è caratterizzato da proporzioni modulate tra i due stili: alla misura gotica (lunghezza 4: larghezza 1) si accompagna una cubatura ancora romanica (larghezza 1: altezza 1), che soffoca l’aula.

Gli aspetti architettonici della parrocchiale, edificata in una bella vulcanite rosso-bruno delle cave di Ghiarzu nell’agro di Bidonì, sono stati ampiamente indagati da numerosi studiosi. Alcuni si sono soffermati con qualche attenzione, talvolta non senza fraintendimenti, sull’analisi dei decori esterni[2]; tutti hanno dimenticato quelli delle mensole del tamburo absidale[3]. Da questi ultimi, in questa sede, si avvierà lo studio iconografico e iconologico di taluni ritratti litici di giudici sovrani, committenti di un certo numero di chiese romaniche nei Giudicati di Arborea e di Torres tra XII e XIV secolo, per una proposta identificativa delle figure rappresentate, alla luce delle fonti documentali rilevate in situ, delle fonti letterarie e delle vicende storiche giudicali, nel momento in cui dette fabbriche giungevano a compimento[4].

Una prima illuminante traccia per l’avvio dell’indagine è nell’epigrafe consacratoria sul prospetto principale della chiesa, che in una eterogeneità di caratteri onciali e capitali, introdotti da una canonica croce a raggi patenti, con una breve, significativa, attestazione dal sapore notarile, in un latino tardo certifica:

«+ Anno d(omi)ni MCCXCI / fabricata e(st) h(aec) eccl(es)ia et co(n)se/crata in hono(r)e beati petri / ap(osto)li de roma sub (tem)p(o)r(e) iu/dici(s) mar(iani) iudi(cis) arboree et / fra(tr)e ioha(nne)s e(pisco)p(u)s s(an)c(ta)e iust(a)e eo/de(m) t(em)p(o)r(e) er(a)t op(er)aria abadissa dom(in)a sardigna d(e) laco(n) / mag(iste)r a(n)selem(us) d(e) cumis fab(r)icavit»[5].

Si apprende così che la fabbrica, opera dell’architetto e scultore mastro Anselmo di Como[6], è stata ultimata e consacrata nell’anno 1291, all’epoca di Mariano ii de Bas-Serra giudice di Arborea e della terza parte del Cagliaritano[7], quando era vescovo di Santa Giusta il frate Giovanni[8] e badessa Sardinia, seconda moglie del giudice Pietro II[9] e madre di Mariano II[10]. Ad un esame più attento, il testo rivela anche il casato, sin qui  non colto dagli storiografi[11], della committente «sardigna d(e) laco(n)», dell’antica famiglia giudicale documentata sin dall’xi secolo ai vertici dell’Arborea. Il santo titolare della chiesa è omonimo di Pietro II, padre di Mariano e marito di Sardinia, la quale per un affetto coniugale sempre vivo e nutrito, assume il ruolo di «op(er)aria», cioè di persona impegnata nella raccolta delle offerte per l’edificazione della chiesa[12].

Autore dell’epigrafe è un inedito scrivano lapicida, che lascia la sua firma in uno spazio in basso a sinistra, esterno allo specchio epigrafico. Per ragioni di economia grafica la sigla, stretta da più abbreviature, ha uno sviluppo su quattro-cinque righe. Nella prima è una ‘g’; nella seconda, legate da un doppio nesso, sono in sequenza da destra a sinistra: una ‘v’ (con valore di ‘u’), una ‘r’ e una ‘n’ inversa come quella del ‘d(omi)ni’dell’incipit del corpus epigrafico; in una terza riga, guadagnata sulla destra tra la prima e la seconda, è una ‘s’ di un corpo minore; nella quarta è un ‘sc’ e nella quinta un ‘rns’. Decodificati tutti i nessi e le abbreviature, la scritta «g/vrn/s / sc/rns» è così sciolta: «g/u(a)rn(eriu)/s / sc/r(i)n(iariu)s (vel)  sc/r(iba)n(u)s»[13].

L’incontrastata prevalenza, seppure odierna, del cognome ‘Guarnerio’ nel centro-ovest della Lombardia depone per una più che probabile origine lombarda, forse proprio comasca, dello scrivano scalpellino, facilmente uno dei più stretti collaboratori di mastro Anselmo, in virtù dell’autorizzazione a siglare, per quanto marginalmente, il lapideo atto di consacrazione. Pur in assenza delle consuete formule «anno ab incarnatione Domini, Dominicae incarnationis, trabeationis ecc.»[14], l’epigrafe è datata secondo lo stile dell’Incarnazione, nella variante pisana, in quell’epoca in uso nel Giudicato di Arborea[15]. La data della consacrazione corrisponde, quindi, al periodo compreso tra il 25 marzo 1290 e il 24 marzo 1291 dello stile moderno, tra la quarta (25 marzo – 23 settembre) e la quinta indizione bedana (24 settembre – 24 marzo).

Non si ha notizia di ulteriori opere del magister Anselemus, tuttavia Renata Serra pone in evidenza, nella nicchia interna all’abside, «un pilastrino polistilo ofitico, che indurrebbe a riferire ad Anselmo anche l’edicola e la facciata gotica di S. Pietro a Bosa, dove pure si vedono identici archetti a semicerchio intrecciati»[16], che rimandano direttamente al romanico lombardo di San Pietro in Ciel d’oro di Pavia (XII sec.) e della cattedrale dell’Assunta di Parma (XII sec.). La sua incidenza sulla storia dell’arte isolana non va oltre questo esempio e talune riprese da parte di tardi seguaci locali, quali l’artefice del Fonte battesimale di Sorradile (1697), forse certo Gioacchino Pau o Francesco Pi[17], e l’anonimo lapicida che operò sull’Architrave di Boroneddu (1634)[18], che in piena epoca gotico-aragonese, si rifà a modelli romanici palesemente informati alla plastica di Anselmo, seppur con esiti di gran lunga inferiori, per un fenomeno ampiamente dibattuto e conosciuto dagli studiosi come ‘costante residenziale sarda’[19].

Per la corrispondenza della città natale, del mestiere e per l’omonimia – da tempo immemorabile è consuetudine perpetuare la memoria genitoriale nel nome di figli e nipoti, al fine di garantire nel susseguirsi delle generazioni la continuità della tradizione della maestranza – potrebbero benissimo essere suoi parenti o, comunque, membri di uno stesso clan, unito da interessi professionali, l’«Anselmus de Cumis» censito tra i «magistri pichantes lapides» e l’«Anselmolo de Cumis mag(ister) seritii» (maestro nella lavorazione del serizzo) tutti impegnati nel 1387-88, presso la fabbrica del duomo di Milano[20]. Un significativo precedente, in questo senso, si ha con i ‘Guidi’, singolare appellativo coniato agli inizi del Novecento, con cui viene generalmente indicato un multiforme ed articolato gruppo di maestri – da Guidetto (fine XII sec.- inizi XIII sec.) a Guido Bigarelli (anni Trenta e Cinquanta del xiii sec.) – originari delle aree dell’arco alpino centro-occidentale (il Canton Ticino e la regione comasca). I Guidi appartengono al più vasto insieme dei cosiddetti ‘maestri comacini o lombardi’, in attività in varie regioni italiane per tutto il Medioevo, della cui taglia anche gli ‘Anselmi’ documentati a Milano e l’Anselmo e collaboratori attivi a Zuri sono degni rappresentanti. Semmai vi potessero essere dubbi sulla cultura e sulla formazione di queste maestranze, rivelatrice di una appartenenza corporativa è la Rosa comacina, vero e proprio marchio dei ‘Magistri comacini’[21], più volte graffita sul paramento esterno dei fianchi e dell’abside di questa chiesa[22].

Occorre premettere che l’assenza di fondamenta nella chiesa di Zuri determinò presto la rovina dell’abside, che fu riedificata con il reimpiego, per quanto in parte lesionate, delle stesse mensole, come dimostra il sodo plasticismo della massima parte dei rilievi absidali, concordante con quelli di Anselmo degli ornati esterni. L’annotazione non è priva di importanza, perché la contemporaneità dei ritratti litici e dell’epigrafe recante i nomi dei committenti è condizione necessaria della loro identificazione.

Sardinia, la madre superiora che si assume sia stata la più motivata e motivante committente della più interessante tra le emergenze romaniche della curatoria del Guilcer, rimasta vedova varcò la soglia del convento dopo il 1241[23] ma morì ante 1282[24], circa un decennio prima del compimento della fabbrica. Non si hanno notizie circa l’ordine di appartenenza della badessa, tuttavia non sarebbe insensato credere che possa trattarsi delle monache di Santa Chiara di Oristano. Il sospetto nasce dai contenuti della lettera apostolica del 22 settembre 1343 di Clemente vi a Pietro III, con la quale si concedeva la rifondazione nel capoluogo giudicale di un monastero di clarisse, evidentemente preesistente[25]. Per certo, già nel 1324 il giurista oristanese Filippo Mameli era ‘rector Sancte Clare’[26]. L’affezione dei giudici nei confronti della chiesa di S. Chiara  (1343-48), «vera e propria cappella palatina della famiglia regnante dei Bas-Serra»[27], è testimoniata da un affresco alla base dell’arco trionfale con Donnicello Mariano che affida il figlioletto alla protezione di S. Chiara, dalla rappresentazione di numerose insegne familiari dei Bas-Serra, dai presunti ritratti dei committenti della fabbrica sulle mensole di imposta della crociera absidale, ma anche dall’esservisi ritirata e fatta seppellire – forse sull’esempio di Sardinia, si oserebbe dire – Costanza di Saluzzo ormai vedova di Pietro III. L’omissione nella cennata epigrafe dell’ordine monastico sottintende una notorietà, una immediata identificabilità agli occhi dei contemporanei, vuoi perché ad esso aveva aderito la moglie del sovrano vuoi perché, ragionevolmente, non ce ne sarebbe stato un secondo su cui equivocare.

 

Anselmo da Como, S. Pietro e altri apostoli, la Vergine con il Bambino e la badessa Sardinia de Lacon, 1291, trachite, altorilievo, Zuri (Ghilarza), chiesa di S. Pietro, architrave del portale principale. 

 

La madre di Mariano è rappresentata nell’architrave del portale di facciata, vestita di un abito monacale, prona e orante al cospetto di San Pietro (monco del braccio destro, forse benedicente), della Vergine con il Bambinello e di altre cinque figure nimbate, si crede una rappresentanza degli Apostoli, una delle quali le impone ieraticamente le mani sul dorso. Stazionano tutte, come dei minuti simulacri, su di un piccolo basamento circolare e hanno corpo a botticella, secondo uno stereotipo ricorrente in altri soggetti degli ornati esterni, su cui «si definiscono cortissime braccia e le pieghe delle vesti»[28]. Taluni mostrano panneggi dall’andamento tortile che riprende il movimento del torciglione del portale, sicché, per il Delogu, può «constatarsi, per questa come per altre correlazioni, l’esistenza di una continua osmosi tra scultura ed architettura»[29].

 

Anselmo da Como, Giovanni vescovo di Santa Giusta, 1291, trachite, altorilievo, Zuri, chiesa di S. Pietro, angolo sud-ovest del secondo ordine di vele del campanile.

 

Si ha ragione di riconoscere in Giovanni vescovo di Santa Giusta il ritratto ad altorilievo di una figura intera orante con una fluente barba – di certo un prelato opera di Anselmo – all’angolo sud-ovest del secondo ordine di vele del campanile. In origine verosimilmente posizionato in una mensola tra le figure del tamburo absidale, sarebbe stato ricollocato, con ritaglio perimetrale e riadattamento del modesto basamento angolare, sul campanile elevato molto probabilmente intorno al 1336, in occasione di taluni importanti lavori di restauro dell’abside[30]. Difetta dei canonici attributi pastorali, piviale, mitria, bastone e pettorale, ma veste una talare segnata anteriormente da una lunga fila di bottoni e, così si intuisce, da una rarissima cuffia episcopale in capo che, insieme, ne sostengono l’ipotesi identificativa[31].

La rappresentazione del committente ecclesiastico accanto ad un giudice di Arborea non è di per sé una novità. In quegli anni lo stesso Mariano II de Bas-Serra – «fra tutte le numerose sculture che decorano i muri esterni della chiesa di San Pantaleo [di Dolianova] la più significativa»[32] ­– si affianca al Vescovo di Dolia nel prospetto nord della basilica, forse Gonario de Milii che sedeva in cattedra in quegli anni a Dolia[33]. Appena qualche decennio appresso un suo discendente, Mariano IV, si genuflette, ‘in abisso’, ai piedi della Madonna con Bambino della cuspide della Pala di Ottana, in simmetria con il monaco Silvestro vescovo di Ottana[34], e si abbina con un anonimo vescovo a fronte del santo patrono, nel rilievo dell’architrave del San Serafino di Ghilarza. La compartecipazione iconografica, in ogni caso, è specchio di una realtà comunitaria, di una socialità condivisa e partecipata tra il rappresentante del potere spirituale e il delegato del potere temporale, testimoniata dall’intervento del vescovo alle adunanze della Corona de Logu.

Sardinia è la più anziana e la sola sin qui riconosciuta tra i ritratti della famiglia giudicale, regnante al tempo dell’edificazione della chiesa[35]. La memoria iconografica si completa nell’area absidale interna in un quadro che giunge fino alla terza generazione, con la rappresentazione di una maestà e di una corte di ben otto ‘altezze reali’, esempio unico nell’Isola, che anticipa di qualche decennio quello della cappella di San Gavino a San Gavino Monreale (1347-1387/88), messo in luce da Francesco Cesare Casula, dove sono i ritratti di sei personaggi, identificati, per inequivocabili attributi, nei giudici di Arborea Mariano IV, Ugone III ed Eleonora con Brancaleone Doria e i figli Federico e Mariano[36].

 

Anselmo da Como, Mariano II de Bas-Serra giudice di Arborea e sua moglie N. Saraceno Caldera, 1291, trachite, altorilievo, Zuri, chiesa di S. Pietro, mensolone di imposta dell’arco trionfale.

 

All’angolo del mensolone sinistro dell’imposta dell’arco trionfale, fratturato in due tronconi per un antico crollo, un monumentale, corpulento Mariano II de Bas-Serra a mezza figura, tunica plissettata a girocollo e manica lunga, con la destra impugna la clava o matzuca[37], lo scettro dei sovrani sardi, e ostenta sulla spalla sinistra uno splendido leone abbattuto, emblema della potenza avversaria soggiogata[38]. L’altorilievo difetta della corona, che di norma accompagna la matzuca, della calotta cranica e dell’occhio sinistro, si credere rovinati a terra e dispersi. Il capo ovaloide è incorniciato da una folta barba segnata da poche ciocche, che nasce dagli zigomi e nasconde interamente il collo; sul retrocollo una lunga e vaporosa chioma cela l’orecchio destro e lambisce la spalla. I tratti somatici sono appena scavati, poco più che incisi sulla sfera facciale. Il naso è minuto e l’occhio superstite, sbarrato ha palpebre ben segnate. La perdita del mento e del labbro inferiore non hanno, tuttavia, cancellato il sorriso aperto del sovrano cacciatore di leoni, celebrato da un primo ramo di palma a sinistra, allusiva alla vittoria e al trionfo[39].

Il leone in spalla rimanda al mito del leone di Nemea vinto da Eracle, ben rappresentato nella statuaria romana dall’Heracles con clava e leone in spalla della collezione del Louvre. Le raffigurazioni di Ercole in età cristiana compaiono specialmente sulle facciate di alcune cattedrali romaniche, da San Marco di Venezia (xi sec.), al duomo di San Donnino di Fidenza (XII-XIII sec.), dal San Trofimo di Arles (XII sec.) al Santo Stefano di Auxerre (XIII-XVI sec.). Si tratta di splendidi rilievi nei quali Ercole appare come vincitore, come controfigura del biblico Sansone capace di superare ogni ostacolo. Il prestito iconografico non deve tuttavia intendersi come  una persistenza di una narrazione mitica, piuttosto come il recupero del mito non più pagano di Ercole, la cui figura si carica nel Medioevo di significati morali ed è associata a quella di Cristo per la perseveranza, la lotta contro il male e la sopportazione, fino a diventarne una sorta di prefigurazione[40]. Di un certo interesse è il rilievo ciclo delle Fatiche di Ercole della facciata della cattedrale di Fidenza, a sinistra del protiro minore destro, attribuito al  Maestro di Abdon e Sennen seguace di Benedetto Antelami (Val d’Intelvi, 1150 circa – 1230 circa) uno dei massimi rappresentanti della scultura romanica lombarda. Per la prossimità tra Como e la Val d’Intelvi, è più che probabile che l’intero ciclo dedicato al mitologico eroe fosse noto ad Anselmo, che nello stesso avrebbe trovato motivo di ispirazione.

La riconoscibilità del personaggio – come è consuetudine dell’iconografia medioevale, salvo rare eccezioni, quale quella assai realistica di Barisone ii de Lacon-(Gunale) (giudice di Torres dal 1147 ca. – † ante 1191)[41] del pilastro presbiteriale sinistro del Sant’Antioco di Bisarcio (ante 1090; ante 1164; post 1174)[42] – prescinde dalla caratterizzazione fisionomica e privilegia la descrizione degli attributi di potere, in questo caso lo scettro e la perduta corona, insegne della regalità[43], ma anche la palma e il leone, quali strumenti per l’identificazione[44]. Così è raffigurato il cennato Mariano II coronato dell’ex cattedrale di S. Pantaleo di Dolianova: nella «mano destra tiene lo scettro, la sinistra regge la sfera. Noto è anche il simbolismo di questi due attributi: lo scettro (matzuca o clava) è l’equivalente del «bastone» del comando, sintesi estrema dell’uomo destinato al governo della «res pubblica»; la sfera (il globo terrestre) è, invece, l’affermazione della sovranità sul regno, la totalità giuridica del potere assoluto»[45].

Ai pattern distintivi si associa la collocazione architettonica del ritratto: il giudice committente è spesso figurato sull’area presbiteriale, su di un capitello o sulla mensola dell’imposta dell’arco absidale in cornu evangelii: così a  Zuri, a Bisarcio, a San Gavino Monreale e a Oristano nella chiesa di S. Chiara, dove «le effigi di quattro personaggi laici, due dei quali, a ridosso dell’arco trionfale, potrebbero essere[, si è detto in precedenza,] quelle del committente Pietro iii di Bas-Serra e di sua moglie Costanza di Saluzzo»[46]. Altre volte – se ne dirà caso per caso – il giudice è sul prospetto di facciata o di un fianco della chiesa, ma quasi sempre sottostante, talvolta incluso o alla base, di un arco o in una nicchia. «Bisogna considerare che per tutto il Medioevo e oltre» – scrive Maria Cristina Cannas – «la nicchia viene identificata come uno spazio particolare, altamente simbolico associato come le cupole architettoniche e i catini absidali all’idea della sfera celeste, del cosmo e dove si collocano le immagini sacre o di personaggi storici»[47].

Non a caso, emerge all’interno dei due archi (uno a tutto sesto e uno a sesto acuto) dei portali della chiesa campestre di San Serafino presso Ghilarza, non distante da Zuri, l’articolata duplice rappresentazione a bassorilievo del giudice committente. L’identificazione del sovrano anche in questa fattispecie non può prescindere dalle vicende costruttive della chiesa, indicate dal Delogu nel primo quarto del XIV[48] e anticipate dal Coroneo alla fine del XIII secolo[49]. Entrambe le proposte devono, tuttavia, essere respinte per la figurazione al di sopra di entrambi gli archi di uno scudo con l’albero deradicato, l’insegna statale del regno di Arborea. Per una serie di vicissitudini, di cui si dirà dettagliatamente nel corso della trattazione, tra la seconda metà del Duecento e la prima metà del Trecento, l’antico stemma è abbinato ai pali di Aragona. Solo nel 1353, in segno di ribellione contro i Catalano-Aragonesi, si ritornò gradualmente all’antica bandiera dello stato indigeno[50]. Ne consegue un possibile termine post quem per l’edificazione del S. Serafino, credibilmente – per non discostarsi troppo dai limiti fissati dagli storici dell’arte – non oltre il regno di Mariano IV, tra il 1353 e il 1376[51].

 

Architrave della celebrazione della promulgazione del Codice rurale, con S. Serafino, Mariano IV de Bas-Serra giudice di Arborea, altri reali e vescovo, 1360 circa, attr. a maestranza di cultura catalana, trachite, bassorilievo, cm 154 x 34 (specchio cm 143 x 25), Ghilarza, chiesa campestre di S. Serafino, portale laterale.

 

Nell’architrave riquadrata da cornice a listello del portale del fianco meridionale, si rappresenta la Celebrazione della promulgazione del Codice rurale di Mariano iv, con la figurazione di cinque personaggi, scanditi da rosette[52], e inquadramento isocefalo. Sono, due per parte, genuflessi a fronte di un San Serafino benedicente, con sei ali, il Codice rurale stretto al petto e una foglia di vite pendente all’altezza dei fianchi. Nel mentre, Mariano IV de Bas-Serra (ante 1329 – † 1376)[53] – afferma Giorgio Farris – «offre alla Chiesa (all’Arcangelo Serafino) i frutti della sua legge agraria: un grappolo d’uva»[54].

 

Architrave del S. Serafino di Ghilarza, dettaglio di Mariano IV de Bas-Serra giudice di Arborea e S. Serafino.

 

Si ha così conferma dell’identificazione del giudice nel personaggio inginocchiato su di un cuscino a destra del santo patrono, con l’inedito attributo regale della corona in capo e della dalmatica[55], che rimanda all’iconografia di Federico II di Svevia nel sigillo prodotto dopo la nomina a re di Germania[56]. Tra il sovrano e il Serafino nessuna rosetta, forse a significare un dialogo diretto e privilegiato.

 

Architrave del S. Serafino di Ghilarza, dettaglio del Donnicello Ugone de Bas-Serra.

 

 Gli succede, in senso iconografico e iconologico, ergo dinastico, un robusto personaggio maschile con un lungo mantello sulle spalle, identificabile – per quella consuetudine che spesso portava a rappresentare con il regnante anche l’erede al trono (si vedano gli esempi di Saccargia, di Bisarcio, di Zuri, di San Gavino Monreale e di S. Chiara di Oristano) – nel donnicello, futuro Ugone III de Bas-Serra.

 

Architrave del S. Serafino di Ghilarza, dettaglio di Timbora de Rocabertì.

 

Ragionevolmente, sarebbe sua moglie Timbora de Rocabertì[57] (morta dopo il 1361) figlia di Dalmazzo iv de Rocabertì e di Beatrice Serralonga erede della baronia di Cabrenys[58] e madre della ‘juyghissa’ Eleonora, la figura femminile a sinistra dell’Angelo, la stessa forse effigiata nella cappella delle clarisse di Oristano. Veste una tunica lunga stretta in vita, sovrastante guarnacca e cappuccio sulle spalle, e un velo in capo, chiuso da un soggolo quasi monacale, simile alla bandella delle Figlie di Mariano ii di Zuri, di cui si dirà più avanti.

 

Architrave del S. Serafino di Ghilarza, dettaglio del Vescovo forse di Oristano o di Santa Giusta.

 

A sinistra è il solo estraneo al presunto clan familiare, per questo iconograficamente distinto da una postura frontale, volto verso il riguardante piuttosto che al santo. Un piviale gli copre le spalle, mentre genuflesso si associa alla preghiera comune. Rappresenta un vescovo, forse il Vescovo di Oristano o di Santa Giusta in cattedra al momento della costruzione o della consacrazione della chiesa[59].

 

Formella gotico-aragonese dell’Agnus Dei che sottomette Lucifero tra S. Serafino e Mariano IV de Bas-Serra giudice d’Arborea, 1360 circa, attr. a maestranza di cultura catalana, trachite, bassorilievo, cm 26 x 42,5, Ghilarza, chiesa campestre di S. Serafino, lunetta del portale principale.

 

Il secondo ritratto è sull’ingresso principale, incluso in una lunetta delimitata da un sopraciglio a punte di diamante, sgusciate nelle quattro parti[60]. La formella quadrangolare con il rilievo che lo contiene, superato l’isocefalismo dell’architrave, mostra un gusto per le proporzioni e la costruzione scenica che richiama una tavola dipinta. Il concio è molto consumato ma nella parte superiore è ancora leggibile il profilo di una semplice cornice lineare ad archetti, in parte celata a sinistra dal sopravanzare delle figure. Il modello è proprio del gotico-aragonese come quello coevo dell’Annunciazione del Retablo del Rimedio di Oristano[61], mentre le tipologie dei personaggi sono ancora romaniche. La figura di San Serafino[62], con un frammento superstite dell’aureola in capo e sei ali, sovrasta una ruota crociata, simbolo solare e cosmico, che «associata al Serafino può essere intesa come simbolo di luce»[63]. Nella sinistra trattiene ancora il Codice agrario e con la destra levata glorifica e benedice un Agnus Dei con gli attributi della croce commissa, come l’icnografia della stessa chiesa, e del vessillo pasquale. Un Lucifero giacente sul fianco sinistro, con le braccia al petto e la stessa ruota solare ai piedi, sola eredità di un trascorso luminoso, è vittima di una calcatio colli da parte dell’Agnello. Sulla destra, orante e genuflesso anche qui su di un cuscino, chiude la rappresentazione un inedito, snello Mariano iv, il solo filologicamente legittimato in un ruolo così elevato[64]. Ha la corona in capo e un taglio dei cappelli assai simile a quello con fronte e orecchio scoperti, e abbondante zazzera sul retrocollo del Mariano dell’affresco dell’arco trionfale di S. Chiara di Oristano[65].

A questo stereotipo architettonico del richiamo della volta celeste, si conforma il Mariano ii de Bas-Serra in una nicchia a sinistra del portale frontale e a destra di quello settentrionale del San Pantaleo a Dolianova, per avere partecipato «assieme al vescovo raffigurato al suo fianco [nel ritratto del prospetto nord], alla consacrazione della cattedrale nel 1289 (come attesta l’epigrafe absidale)»[66] e per l’invio delle maestranze che avevano portato a compimento la fabbrica. Ha il significato di una nicchia, per lo sfondamento del margine superiore, anche il profondo rincasso del terzo riquadro da sinistra dell’architrave sottostante l’arco di scarico del portale sinistro del S. Michele di Siddi, ancora nel Giudicato di Arborea, opera della stessa maestranza di cultura occidentale e, quindi, della stessa committenza che operò nel ciclo scultoreo esterno a Dolianova[67].

 

Architrave di Mariano II de Bas-Serra giudice di Arborea tra Lucifero, S. Michele, Adamo ed Eva, ultimo quarto xiii secolo, marna arenaria, bassorilievo ed altorilievi, cm 116 x 43 (specchio cm 104 x 34,5), attr. a maestranza di cultura occidentale, Siddi, chiesa campestre di S. Michele, portale sinistro.

 

In questo compare ad altorilievo una figura maschile, intera e frontale, vestita di una corta tunica e in capo, per quanto consumata, una semplice corona ad anello. Gli anni della costruzione della chiesa, indicati dagli storici dell’arte nella seconda metà XIII secolo[68], sono quelli del regno di Mariano II de Bas-Serra che appare, al momento, il più probabile – certo se si considera esatta la cronologia – tra i possibili candidati di questa ipotesi identificativa.

 

Architrave di S. Michele di Siddi, dettaglio del giudice committente Mariano II de Bas Serra, rincasso cm 34,5 x 22.

 

Leggi la seconda parte.
 

 

 


[1] C. Aru, S. Pietro di Zuri, Reggio Emilia 1926, p. 29.

[2] Tra i numerosi interventi si ricordano: C. Aru, S. Pietro di Zuri, cit.; R. Delogu, L’architettura del Medioevo in Sardegna, Roma 1953, pp. 201-207; G. Farris, “Architettura in Sardegna nel periodo giudicale”, in Il mondo della Carta de Logu, Cagliari 1979, pp. 244-246; R. Coroneo, Architettura romanica dalla metà del Mille al primo ‘300, coll. ‘Storia dell’arte in Sardegna’, Nuoro 1993, pp. 252-253, 260; R. Serra, La Sardegna, X, coll. ‘Italia Romanica’, Milano 1989, pp. 379-381; R. Coroneo, R. Serra, Sardegna preromanica e romanica, Milano 2004, pp. 235-241; A.L. Sanna, San Pietro di Zuri. Una chiesa romanica del giudicato di Arborea, pref. di R. Coroneo, Ghilarza 2008, pp. 23-39.

[3] Una anticipazione relativa alla identificazione dei membri della famiglia giudicale arborense è stata data in un articolo a carattere divulgativo, cfr. G.G. Cau, “Ritratto di famiglia. La scoperta dei ritratti in pietra dei Giudici di Arborea Mariano II con N. Saraceno Caldera e Giovanni (o Chiano) con Giacomina della Gherardesca, Sardinia e altri reali”, in Almanacco Gallurese, xx (2012), pp. 48-53.

[4]Per un approfondimento sulla committenza giudicale si segnala il saggio di G. Farris, “Mecenatismo dei giudici sovrani”, in Chiesa, potere politico e cultura in Sardegna dell’età giudicale al Settecento, atti del 2° Convegno internazionale di studi (Oristano, 7-10 Dicembre 2000), a cura di G. Mele, Oristano 2005, pp. 201-220.

[5] Per la bibliografia sull’epigrafe di Zuri si rimanda allo studio di A. Pistuddi, Architetti e muratori nell’Età giudicale in Sardegna. Fonti d’archivio ed evidenze monumentali, fra l’XI ed il XIV secolo, tesi di dottorato di ricerca ‘Fonti scritte della civiltà mediterranea’, ciclo XIX, Università degli Studi di Cagliari, Dipartimento di Studi storici, geografici e artistici, Settore scientifico disciplinare l - art /01, 2008, p. 87, nota 316.

[6] G. Degli Azzi, v. “Anselmo de Cumis’, in Ulrich Thieme e Felix Becker, Allgemeines Lexikon der Bildenden Künstler von der Antike bis zur Gegenwart, Leipzig 1907, i, p. 542; R. Delogu, L’architettura…, cit., pp. 201-207; R. Serra, v. “Anselmo da Como”, in Enciclopedia dell’Arte Medioevale, ii, Roma 1991, p. 55.

[7] L.L. Brook, M.M. Costa (a cura di), v. “Mariano ii de Bas-(Serra)”, “Bas-Serra Giudici di Arborea (1)”, in Genealogie medioevali di Sardegna, a cura di L.L. Brook, F.C. Casula, M.M. Costa, A.M. Oliva, R. Pavoni, M. Tangheroni, Sassari 1984, pp. 136-137, tav. XXXII; p. 383, XXXII, 6.

[8] Nella cronotassi degli arcivescovi di Santa Giusta, il frate Giovanni è al governo della diocesi tra il 1291 e il 1309, cfr. R. Turtas, Storia della Chiesa in Sardegna, dalle origini al Duemila, Roma 1999, p. 841. Pietro Martini, sulla falsariga di Giovan Battista Vico, ne conferma l’identificazione nel prelato che nel 1309 aveva partecipato al sinodo provinciale d’Arborea, celebrato dall’arcivescovo Oddone Sala (30 marzo 1308 - 10 maggio 1312), cfr. P. Martini, “Iscrizione di Zuri”, in Bullettino Archeologico Sardo, III (1857), pp. 173-174.

[9] L.L. Brook, M.M. Costa (a cura di), v. “Pietro II de Bas-(Serra)”, “Bas-Serra Giudici di Arborea (1)”,  pp. 136-137, tav. XXXII; p. 382, XXXII, 4, cit.

[10] Per primo Raffaello Delogu intuì un legame di parentela tra il giudice Mariano e la madre Sardinia, cfr. R. Delogu, L’architettura…, cit., p. 201.

[11] Seppure il nome di Sardigna de Lacon compaia in tutte le trascrizioni dell’epigrafe, ad iniziare da quella del Martini del 1839-1841, la storiografia ufficiale la considera «di un casato sconosciuto», cfr. L.L. Brook, M.M. Costa (a cura di), v. “Pietro II de Bas-(Serra)”, cit.

[12] Per un approfondimento sulla figura di Sardinia, sul ruolo della donna nell’amministrazione dei beni nella corte arborense e sulle mansioni dell’operaiu di chiesa, si rimanda al saggio di G. Farris, “Scultura e architettura, cit., pp. 102, 104-105.

[13] Il termine ‘scribanus’ è forma medioevale dal latino classico ‘scriba’, cfr. M. Diderot, M. Dalembert, v. “labiale”, in Encyclopédie ou dictionnaire raisonné des sciences des arts et des metiers par une socyété de gens de lettres, Losanna-Berna, 1782, XIX, p. 372.

[14] A. Cappelli, Cronologia, cronografia e calendario perpetuo, dal principio dell’era cristiana ai nostri giorni, Milano 2011, VII ediz., pp. 5, 7.

[15]  Lo stile pisano, ricorda ancora l’Aru, «fu largamente adoperato nell’isola ancora per tutto il secolo xiv come risulta da altre consacrazioni: Mulargia (1331), Mores (1387), Tramatza (1388), Milis (1388); ed ancora nel secolo XV: Ploaghe (1442), Sassari (1453)», cfr. C. Aru, S. Pietro di Zuri, cit., p. 61.

[16] R. Serra, v. “Anselmo da Como”, cit.; G. Degli Azzi, v. “Anselmo de Cumis”, cit.

[17] M.G. Scano, Pittura e scultura del ‘600 e del ‘700, coll. ‘Storia dell’arte in Sardegna’ diretta da C. Maltese, Sassari 1991, pp. 99-10, “Sch. 71. Fonte battesimale di Sorradile”.

[18] G.G. Cau, “Architrave gotico-aragonese di Boroneddu”, in Sardegna Antica, XLII (2012), pp. 22-24. Non può essere condivisa la proposta di Giorgio Farris che intravede talune consonanze tra i rilievi di Zuri e quelli dell’architrave del portale del fianco meridionale del S. Serafino di Ghilarza, cfr. G. Farris, “Architettura ”, cit. p. 106.

[19] M.G. Scano, Pittura…, cit., pp. 87-87, “Sch. 61. Architrave di Boroneddu”.

[20] P. Sanvito, Il tardogotico del duomo di Milano. Architettura e decorazione intorno all’anno 1400, Münster [2002?], pp. 180-181.

[21] A. Antilopi, B. Homes, R. Zagnoni, Il romanico appenninico: bolognese, pistoiese e pratese, valli del Reno, Limentre e Setta, Porretta Terme 2000, p. 11.

[22] Il marchio dei maestri comacini è graffito nel fianco orientale sulla prima lesena, su di un concio del terzo filare della decima arcatella; nel fianco occidentale: in un concio del secondo filare della quarta arcatella; nell’abside ve ne sono tre abbozzati su di uno stesso concio, sul terzo filare della semiarcatella nord-ovest.

[23] La data di morte del marito Pietro ii, il 1241, è un valido termine post quem per il noviziato di Sardinia, cfr. L.L. Brook, M.M. Costa (a cura di), v. “Pietro II de Bas-(Serra)”, cit.

[24] Ivi, pp. 136-137, tav. XXXII.

[25] R. Coroneo, Architettura…, cit., p. 272.

[26] A. Arribas Palau, La conquista de Cerdeña por Jaime ii de Aragón, Barcellona 1952, p. 294, nota 52.

[27] G. Spiga, “L’arte giudicale”, in La Provincia di Oristano, l’orma della storia, a cura di F. C. Casula, Cinisello Balsamo 1990, p.145.

[28] R. Serra, La Sardegna, cit., p. 380; R. Delogu, L’architettura …, cit., p. 204.

[29] Ibidem.

[30] Secondo il Delogu il campanile sarebbe databile «non oltre il secolo XV, come dice il profilo delle sagome», ivi, p. 205. Ricorda, invece, l’Aru, che alle vicende dei campanili romani nell’isola dedica ampio spazio, come «questo tipo, abbastanza comune in Francia (‘clocher arcade’), è molto raro in Catalogna (‘campanar espadanya’) e quasi sconosciuto in Lombardia», cfr. C. Aru, S. Pietro di Zuri, cit., pp. 36, 40.

[31] L’uso della cuffia o cucufa sotto la mitria, presto caduta in disuso, è attestato in quello stesso 1291 da parte di Guglielmo di Maire vescovo di Angers, nella Loira, cfr. G. Moroni, v. “mitre de’ vescovi”, in Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da San Pietro sino ai nostri giorni, Venezia 1847, xlv, p. 275.

[32] M.C. Cannas, “Alcuni aspetti della decorazione scultorea dell’ex cattedrale di San Pantaleo in Dolianova: il busto del ‘Giudice’ d’Arborea Mariano ii de Bas-Serra”, in Medioevo: saggi e rassegne, XVI (1991), pp. 219-220.

[33] Nella cronotassi dei vescovi di Dolia indicata da Raimondo Turtas, Gonario dei Milii è in cattedra tra il 1282 e il 1311-1312 circa, cfr. R. Turtas, Storia della Chiesa…, cit., p. 825. Per competenza territoriale, dovrebbe essere lui il vescovo che nel 1289 avrebbe consacrato la chiesa o, comunque, governato la diocesi negli anni del compimento della fabbrica di S. Pantaleo.

[34] Pala di Ottana attr. al Maestro delle tempere francescane, 1339-1344, polittico, tempera su tavola incamottata con fondo d’oro, cm 260 x 237, Ottana, parrocchiale di S. Nicola.

[35] R. Delogu, L’architettura…, cit.,  p. 204.

[36] F.C. Casula, “La scoperta dei busti in pietra dei re o giudici d’Arborea: Mariano IV, Ugone III, Eleonora con Brancaleone Doria”, in Medioevo: saggi e rassegne, IX (1984), pp. 9-28.

[37] La clava del rilievo di Zuri è più simile a quella di un cavernicolo piuttosto che a quella descritta in un passo riportato da padre Gabriele Piras: «Al posto dello scettro, scrive il Codino, il giudice porta quella che il volgo chiama ‘la mazzucca’ d’argento (clava) inaurata, il cui fusto è rivestito di panno rosso, al vertice ha un pomo dorato (nodo, testa) e al centro è cinto di un cingolo parimenti decorato», cfr. G. Piras, Aspetti della Sardegna Bizantina, Cagliari 1966, p. 59 nota 25.

[38] «Le scene di caccia ai leoni fatta da sovrani del passato affermavano la superiorità di questi ultimi su qualsiasi altra potenza», cfr. E. Urech, v. “leone”, in Dizionario …, cit., p. 147.

[39] Ivi, v. “palma”, pp. 188-190.

[40] Ercole il fondatore dall'antichità al Rinascimento, catalogo della mostra omonima, a cura di M. Bona Castellotti e A. Giuliano, Milano 2011.

[41] L.L. Brook, F.C. Casula (a cura di), v. “Barisone ii de Lacon-(Gunale)”, “Casate indigene dei giudici di Torres”, in Genealogie…,  cit., pp. 84-85, tav. VI; p. 199, VI, 2.

[42] Per un approfondimento si rimanda a G.G. Cau, “Il Santo Stefano barbato e il capitello del Trionfo di Cristo sul basilisco del Sant’Antioco di Bisarcio”, in Quaderni bolotanesi,  XXXVIII (2012), pp. 159-178.

[43] Alcuni oggetti consacrati al sovrano «hanno la funzione di legittimarne l’investitura e altri sono destinati a ornarlo in occasione degli avvenimenti più importanti del regno». Son tutti detti ‘regalia’, «che egli usa (trono, scettro, spada, globo) o che indossa (corona, armilla, mantello) durante le cerimonie rituali», cfr. L. Grodecki, F. Mütherich, J. Taralon, F. Wormald, Il secolo dell’Anno Mille, Milano 1974, pp. 266-267 e ss.

[44] R. Coroneo, Architettura romanica…, cit., pp. 252, 260.

[45] M.C. Cannas, “Alcuni aspetti…”, cit., p. 211.

[46] G. Spiga, “L’arte giudicale”, cit., p. 145. Secondo Paolo Gaviano, «pare logico ritenere che la terza scultura, in fondo all’abside, a destra […] raffiguri Mariano iv», che succeduto al fratello Pietro completò la fabbrica e ne fece dono in perpetuo alle Clarisse, e nella quarta sia rappresentata «la consorte di Mariano, la catalana Timborra de Rocaberti», cfr. P. Gaviano, La bifora in dispensa, Oristano 1985, p. 53. L’ipotesi, «per l’insufficienza degli elementi di prova», che non permette una identificazione certa di nessuna di quelle effigi, non è, tuttavia, condivisa dal Casula, cfr. F.C. Casula, “La scoperta dei busti di pietra …”, cit., p. 13, nota 14.

[47] «A. Houssiau, “Il simbolismo nella liturgia cristiana”, in I simboli nelle grandi religioni, a cura di Julien Ries, Milano 1988, pp. 208-209; M. Van Parys, O.S.E., Il simbolismo nella liturgia bizantina, ibidem, pp. 237-238; G. De Champeux, S. Sterckx, I simboli del Medioevo, Milano 1981, pp. 27-50 e ss., 146-149 e ss.», cfr. M.C. Cannas, “Alcuni aspetti …”, cit., p. 212.

[48]  R. Delogu, L’architettura…, cit.,  p. 252.

[49] R. Coroneo, Architettura…, cit. p. 261, “Sch. 145. San Serafino”.

[50] F.C. Casula, “Introduzione”, in Genealogie…, cit., p. 51.

[51] Un termine ancora più preciso pare emergere da una tradizione secondo cui «nel passato si celebrava anche l’anniversario della consacrazione di una chiesa al sessantesimo anno di ciascun secolo», cfr. L. Fadda, S. Serafino di Ghilarza. Storia di una chiesa. Contributo alla conoscenza delle antichità medioevali mediterranee, della storia del cristianesimo in Sardegna e della storiografia giudicale, presentazione di G. Farris; a cura dell’Associazione S. Serafino di Ghilarza, Oristano 1998, p. 60.

[52] Raffaello Delogu intuì la figurazione di alcune figure di dignitari e, per primo, «dello stesso giudice costruttore o patrono dell’edificio», cfr. R. Delogu, L’architettura…, cit.,  p. 227. M.C. Cannas, “Alcuni aspetti ”, cit., p. 211.

[53] LL.Brook – M.M. Costa (a cura di), v. “Mariano IV de Bas-Serra”, “Bas-Serra Giudici di Arborea (2) Cubello m. di Oristano”, in Genealogie…, cit., pp. 138-139, tav. XXXIII; p. 388-389, xxxiii, 3.

[54] G. Farris, “Mecenatismo…”, cit., pp. 210-211; G. Farris, “Scultura e architettura nella curatoria del Gilciber”, in Società e cultura nel giudicato d’Arborea e nella Carta de Logu, atti del Convegno internazionale di studi, Oristano 5-8 dicembre 1992, a cura di G. Mele, Nuoro 1995, pp. 105-106, 108-109. Lo studioso si riferisce ad una immagine da lui scattata nel 1958, nella quale si ha riscontro dei «cinque acini d’uva appartenenti ad un grappolo» (cfr. G. Farris, “Architettura in Sardegna nel periodo giudicale”, in Il mondo della Carta de Logu, Cagliari 1979, pp. 247-253), pubblicata in G. Farris, “Scultura…”, cit., p. 109. La proposta del Farris è condivisa da Lello Fadda, che crede di riconoscere la moglie del giudice, Timbora, nel personaggio all’estrema destra, cfr. L. Fadda, S. Serafino…, cit., p. 70.

[55] G. Farris, “Scultura , cit., p. 105.

[56] M. Vagnoni, “Caesar semper Augustus. Un aspetto dell’iconografia di Federico II di Svevia”, in Mediaeval Sophia, III (2008), p. 147.

[57] LL.Brook – M.M. Costa (a cura di), v. “Mariano iv de Bas-Serra”, “Bas-Serra Giudici di Arborea (2) Cubello m. di Oristano”, cit., pp. 138-139, tav. xxxiii; p. 389, XXXIII, 3. Nella stessa figura il Farris crede di riconoscere il vescovo, cfr. G. Farris, “Architettura ”, cit., p. 252.

[58] LL.Brook – M.M. Costa (a cura di), v. “Mariano IV de Bas-Serra”, cit.; LL. Brook – M.M. Costa (a cura di), v. “Dalmazzo IV de Rocabertì”, “Torroja, Palau, Rocabertì”, in Genealogie…, cit., pp. 144-145, tav. XXXVI; p. 427, XXXVI, 22.

[59] Lello Fadda propone di riconoscere il ritratto di un vescovo nella figura a sinistra dell’Angelo, mentre l’ultima figura a sinistra sarebbe un chierico, cfr. L. Fadda, S. Serafino…, cit., p. 78.

[60] Ivi, pp. 75-78.

[61] Annunciazione, seconda metà del XIV secolo, elementi di polittico scultoreo, marmo, Oristano, cattedrale di S. Maria, cfr. R. Coroneo, “Sch. 28. Retablo del Rimedio”, in R. Serra, Pittura e scultura dall’età Romanica alla fine del ‘500, coll. ‘Storia dell’arte in Sardegna’ dir. da C. Maltese, Sassari 1990.

[62]  Il culto del S. Serafino nei secoli, forse intorno al 1600, si è evoluto nel culto di S. Raffaele che è un arcangelo (secondo ordine della terza gerarchia degli angeli) e non un serafino (terzo ordine della prima gerarchia), cfr. L. Fadda, S. Serafino…, cit., pp. 97, 103-105.

[63] Ivi, p. 76.

[64] Se può costituire un precedente, anche a Dolianova il giudice Mariano II  si accompagna al Vescovo di Dolia nel prospetto nord della basilica, mentre è solo in una nicchia a sinistra del portale frontale, cfr. M.C. Cannas, “Alcuni aspetti …”, cit., p. 212.

[65] L’Agnus Dei è stato riconosciuto da Roberto Coroneo che, tuttavia, confuse la figura del giudice con un secondo serafino (cfr. R. Coroneo, Architettura…, cit. p. 261, “Sch. 145. San Serafino”). Per Maria Cristina Cannas quello che qui si presenta come il sovrano è considerato «una figura (forse femminile) a mani giunte» (cfr. M.C. Cannas, “Alcuni aspetti …”, cit., p. 221, nota 45). Lello Fadda, per ultimo, lo considera «un orante, certamente un vescovo, con zucchetto in testa e cappelli sulla fronte», cfr. L. Fadda, S. Serafino…, cit., p. 76.

[66] M.C. Cannas, “Un pittore di Scuola Bolognese: Simone de’ Crocifissi?”, in L’affresco dell’Arbor Vitae nell’ex cattedrale di San Pantaleo in Dolianova, a cura di M.C. Cannas, L. Siddi, E. Borghi, Cagliari 1994, p. 29.

[67] R. Delogu, L’architettura …, cit., p. 190; M.C. Cannas, “Alcuni aspetti …”, cit., pp. 203-204.

[68] R. Coroneo, Architettura…, cit., p. 246, “Sch. 139. Santissima Trinità di Saccargia”. Per Raffaello Delogu il S. Michele di Siddi è databile agli anni 1280-1300, cfr. R. Delogu, L’architettura…, cit., p. 252. Concorde nel mantenimento della stessa cronologia è Renata Serra, cfr. R. Serra, La Sardegna, cit., p. 377.

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