Premio OzieriPremio Ozieri di Letteratura Sarda 

di Gian Gabriele Cau

 

 

Estratto da: «Quaderni bolotanesi» n. 38 (2012), pp. 159-178.

 

Nella primavera del 2004, nel corso di un intervento di consolidamento del rudere dell’episcopio dell’antica cattedrale di S. Antioco di Bisarcio, in agro di Ozieri (ss), sotto uno spesso strato di terriccio e detriti è stata casualmente rinvenuta una testa litica, tardoromanica, di una figura maschile, poi rivelatasi essere quella di un santo[1]. L’analisi pre-iconografica rivela un capo mutilo dell’intera sezione maxillo-facciale destra, naso incluso, con ampia devastazione del mento, della bocca, dello zigomo e di parte dell’orecchio superstiti. La finitura di alcuni dettagli, non ultimo l’occhio sinistro, sul quale sopravvivono residui di un’iride in piombo come quella riscontrata in rilievi coevi, inducono ragionevolmente a credere che non si sia in presenza di uno scarto di lavorazione, magari in conseguenza di un colpo maldestro vibrato dall’artefice, ma di parte di un’opera compiuta, segnata nel tempo dalle ingiurie della storia. A seguito della distruzione del simulacro, in tempi remoti il frammento sarebbe stato pietosamente rimaneggiato, forse per un reimpiego quale concio di riempimento del muro ‘a sacco’ del palazzo curiale presso il quale è stato rinvenuto, in concomitanza di un possibile suo consolidamento o ampliamento, per la benedizione e la protezione della fabbrica[2].

 

 

 

A sx: S. Stefano imberbe (1505), Ardara, chiesa di S. Maria del Regno; a dx: S. Stefano barbato (post 1173) da Bisarcio, Ozieri, Museo diocesano di Arte sacra.

 

Il capo è un tuttotondo di 37 cm al massimo dell’altezza (solo cranio  30 cm),  per la quale si ipotizza, in proporzione, secondo il ‘canone’ di Policleto[3], una statura della figura intera, eretta, di cm 240 ca. Il volto è finemente incorniciato da un susseguirsi di stilizzate, minute ma corpose ciocche di barba geometrizzanti, come trattenute e modellate da un unguento (per un valore semeiotico di cui si dirà oltre), che hanno origine ben sopra l’arcata sopraccigliare e conferiscono un aspetto ieratico e arcaizzante. Il tentativo di descrivere una sorta – si passi l’espressione – di ‘trattamento balsamico’ è sostenuto dal confronto con la barba liscia e curata del capo maschile coronato, secondo una credibile tradizione il ritratto del giudice di Torres committente della chiesa, del capitello del pilastro cruciforme nord, sul presbiterio dello stesso tempio bisarchiense. La morelliana, perfetta corrispondenza del disegno del padiglione auricolare, in particolare del condotto uditivo esterno, ne autorizza, infatti, l’attribuzione ad un unico maestro, sufficientemente motivato nella diversificazione dei due modelli.

Sulla folta e lunga chioma, al colmo del parietale sinistro della testa ritrovata, emerge, non tanto e non solo in altezza, ma anche e soprattutto perché la sola non pettinata, un’area circolare, come una crosta irregolare, di un diametro di cm 8/9 ca.. Lo spazio esiguo e decentrato di questa emergenza esclude, per ragioni di staticità connesse alla friabilità della pietra, l’ipotesi architettonica di un telamone, quale, per esempio, quello di una transenna interna del duomo di Piacenza (1122). L’impronta di ‘quel qualcosa’ che il santo recava in testa, è troppo piccola e divergente dall’asse longitudinale del cranio, per essere stata una corona o altro copricapo. Impossibile credere che sulla stessa area gravasse il braccio di un probabile martire, in un istintivo gesto di difesa a riparo del volto oltraggiato: la statuaria medioevale è di norma caratterizzata da una rigidità dei corpi, assai lontana dalla plastica dinamica e flessuosa dell’epoca classica e classicista, tra le quali si frappone. Inediti riscontri archivistici e precise corrispondenze iconologiche e iconografiche con modelli coevi, di cui si dirà nel corso della presente trattazione, dimostrano che certamente quel che resta è un frammento del sasso della lapidazione che, come una patata di media misura, poggiato sul capo è l’attributo iconografico di Stefano protomartire, così come figurato anche nella predella del Retablo maggiore di Ardara di Giovanni Muru, la più antica immagine superstite del santo in Sardegna, consacrato il 10 maggio 1505[4].

Le prime, inedite testimonianze di un locale, convalidante culto stefaniano sono negli inventari della visita pastorale del 1539 del vescovo di Alghero Durante De’ Duranti a S. Antioco di Bisarcio, nell’«altar maior j ha dos altres altars sots invocacio de santa barbara j de sanct stena»[5], e del 1549 del suo successore Pietro Vaguer, dalla quale si apprende che nella stessa cattedrale è «un altar en la part dreta de laltar maior sots invocacio de Sanct estena[,] enlo retaule una pintura del cruciffici vella»[6]. Stabilito l’altare di appartenenza, appare improbabile che il capo possa essere parte di una figura intera, perché l’altezza presunta del manufatto, un colosso di cm 240 ca., sommata a quella di un necessario basamento di almeno 10 cm e della mensa sulla quale, si crede, dovette insistere di cm 100 ca., porterebbe il S. Stefano ad una quota improbabile di cm 350 ca., dove supererebbe abbondantemente il limite inferiore della monofora della cappella presbiteriale (cm 296), con un penalizzante effetto occludente e controluce. Ne consegue, quindi, la mezza figura o il mezzo busto, quale possibile soluzione compatibile con il dato spaziale acquisito. Preso atto che il simulacro nel 1539 non è più sull’altare di S. Antioco, si suppone che sia stato rimosso da tempo, non oltre la prima metà del Quattrocento, se rimpiazzato da un retablo con un dipinto del Crocifisso che nel 1549 è già vecchio.

 

 

 

 

A sx: S. Stefano barbato (post 1173), da Bisarcio, Ozieri, Museo diocesano di Arte sacra; a dx: S. Andrea apostolo (1170 ca.), Autun, Museo Rolin

 

Il confronto stilistico più persuasivo del S. Stefano barbato è con il S. Andrea apostolo del gruppo statuario, litico della Tomba mausoleo di Lazzaro della più antica cattedrale di S. Lazzaro ad Autun, in Borgogna, che nel tuttotondo annuncia la sconvolgente evoluzione dal romanico verso il gotico. Smantellata nel 1766, la pregevole e articolata opera plastica è propria del monaco Martino, ricordato nell’epigrafe sepolcrale: «Martinus monachus, lapidum mirabilis arte, hoc opus exculpit Stephano sub Presule magno»[7]. Sull’identità del presule ruota la definizione di una cronologia che ha diviso la critica: secondo alcuni il manufatto sarebbe riconducibile all’episcopato di Stefano di Bâgé (1112-1139), il primo dei due vescovi omonimi che governarono quella diocesi nel xii secolo[8]; secondo altri e in questo senso è l’orientamento degli studi più recenti tra il 1170 e il 1189 durante l’episcopato di Stefano ii[9], tendenzialmente intorno al 1170, agli esordi del mandato. Tra gli elementi di raffronto è la folta e singolare chioma con eguale scriminatura centrale e i cappelli accorpati in fasci solcati, come bagnati (nel S. Andrea anche interlacciati), che sorpassano le orecchie e cadono lunghi sul retrocollo[10]. Il simulacro francese è caratterizzato da una barba liscia e ben pettinata, che nasce appena più bassa, ma mostra iridi parimenti forate.

 

 

 

A sx: Protome di Barisone II giudice di Torres (post 1173), Bisarcio, chiesa di S. Antioco; a dx: S. Andrea apostolo (1170 ca.), Autun, Museo Rolin.

 

Di norma, per una prassi consolidata e assai diffusa, il primo dei protomartiri è rappresentato imberbe, forse perché il brano degli Atti degli Apostoli  che narra della sua strenua predicazione davanti al sinedrio prima del martirio, lo descrive in piena serenità, col volto simile a quello di un angelo e quindi, secondo un altrettanto inderogabile modello, glabro[11]. L’iconografia del s. Stefano barbato nella scultura medioevale ha – per quanto consta – rare occorrenze in Europa, e tutte nel sud della Francia. Essa discende direttamente dalla visione iconologica del martire, tracciata da s. Agostino nella sua Esposizione sul Salmo cxxxii[12] e giustificata da un rinato interesse per le opere del Vescovo di Ippona, a seguito della presa di possesso dei capitoli delle cattedrali del Vecchio continente nell’xi e xii secolo, da parte dei canonici regolari agostiniani[13].

Il Padre e Dottore della Chiesa accenna all’«unguento sulla testa, che scende sulla barba, la barba di Aronne, e cola fin nell’orlo della sua veste»[14], e di qui imbastisce una lectio magistralis che finisce per glorificare e magnificare il sacrificio di Cristo, degli apostoli e del diacono Stefano. Non potendo dire meglio, vale la pena riferire negli stessi termini il testo originale, con poche censure: «Sulla sua testa [di Aronne] c’è dell’unguento poiché, sebbene il Cristo totale comprenda anche la Chiesa, l’unguento fluisce [esclusivamente] dalla testa. La nostra testa, o capo, è Cristo: crocifisso, sepolto e risuscitato, salì al cielo. Dal capo venne lo Spirito Santo. E dove scese? Sulla barba. La quale barba è segno di fortezza, è una prerogativa dei giovani, della gente valorosa, dinamica, decisa al segno che, quando vogliamo raffigurare gente di tal fatta, diciamo: È un uomo con tanto di barba»[15]. Nella cultura locale si trovano ancora oggi precise corrispondenze nella locuzione proverbiale ‘mustazzos de omine bi cherene’, per dire di imprese che richiedono una prestanza virile. «Ebbene – prosegue s. Agostino – quell’unguento scese in primo luogo sugli Apostoli, in coloro che per primi sostennero l’urto delle potenze mondane. In loro scese lo Spirito Santo […] e quando si riversò su di loro la persecuzione, essendo sceso sulla loro barba quell’unguento, subirono sì la persecuzione ma non ne furono vinti. Li aveva infatti preceduti la testa [Cristo] da cui quell’unguento scendeva […]»[16].

A questo punto l’Ipponate porta il diacono quale modello di carità e di fortezza. «Di tal barba faceva parte santo Stefano [martire invitto]. E in questo sta il non essere vinti: far sì che la carità non venga sopraffatta dai nemici. […]. Ma poiché non fu sopraffatta la carità, per questo l’unguento scese sulla barba. Osserva Stefano! […] Osserva che razza di barba! […]. Quando poi cominciarono a cadere su di lui le pietre, – conclude s. Agostino – la sua carità non fu vinta, e questo perché sulla barba era sceso l’unguento scaturito dalla testa, aveva cioè ascoltato dalla bocca del capo le parole: Amate i vostri nemici, e pregate per chi vi perseguita[[17]] […]»[18]. Fuor di metafora, sembrano alludere a quell’unguento che scende dalla barba e «cola fin nell’orlo della sua veste» alcuni tratti che come larghe colature sul collo, sotto l’orecchio – per quel che consta, un unicum nell’iconografia del santo – segnano il capo del martire di Bisarcio.

Tra i pochi esempi noti, solo tre quelli attualmente censiti di questo raro modello iconografico, riscontrato – giova ripeterlo – al momento esclusivamente presso cattedrali francesi del xii-xiii secolo, si registrano talvolta palesi incoerenze, che nella sintassi semeiotica agostiniana trovano giustificazione e fondamento. Nella Lapidazione di S. Stefano di Arles[19], il santo con la stola diagonale e la barba esala la figura di un’anima glabra come quella del protomartire telamone del chiostro annesso; uno Stefano atlante, del portale della basilica di S. Giusto di Valcabrere (xii-xiii secolo), è anch’esso imberbe eppure sostiene uno stupendo capitello policromato del Martirio di S. Stefano, nel quale lo stesso mostra una barba ben fiorita. In un solo caso, nelle Storie di S. Stefano del timpano della cattedrale di S. Stefano di Cahors (1135 ca.), nei Medi Pirenei, il protomartire è costantemente barbato in due momenti distinti, nella Lapidazione e al cospetto del Cristo. Nei primi due brani (Arles e Valcabrere) la barba è riconosciuta al santo solo nel momento del martirio, perchè emblema di strenua coraggiosa resistenza in difesa della Verità appresa dal Capo, dal quale discende figuratamente l’unguento sulla barba. Con la decontestualizzazione dalla vicenda esiziale crollano i presupposti iconologici della sintassi semeiotica agostiniana e il martire è imberbe, nella gloria di Dio.

Nel suo tuttotondo il simulacro bisarchiense, ed è questo un elemento di grande interesse che rimanda al modello di Autun, prelude il fiorire del gotico in tutta Europa (secoli xii-xiv). Il lento ritorno alla statuaria è conseguenza di una ritrovata monumentalità, di un’attenzione per la figura umana, del recupero del senso del volume, negato dal romanico. La scultura non più inglobata in uno spazio architettonico (per restare a Bisarcio, p. es. lo stesso capo del giudice di Torres), è finalmente sull’altare per quanto a ridosso della parete, forse perché ancora latente il retaggio della lotta al paganesimo, che aveva venerato statue a tuttotondo come divinità.

 

 

Ostrica e Teofania di un Cristo benedicente entro un clipeo sorretto da un angelo (post 1173), lato est del capitello.

 

Una comune matrice ultralpina è riscontrabile nella porzione superstite di una Teofania di un Cristo benedicente entro un clipeo sorretto da un angelo, sullo stesso capitello del presbiterio, che mostra – scrive Ferdinanda Poli – «gli stessi occhi a doppia incisione della testa coronata ora esaminata» e «le stesse pupille forate». La figura del Salvatore, «entro un clipeo di cui si è perduta la parte superiore ma che conserva in basso castoni vuoti per intarsi di pietre colorate», prosegue la studiosa, «indossa una tunica dal panneggio elegante che pone in evidenza un ventre leggermente obeso, che richiama stilemi francesi»[20] e, lo si afferma qui, ha il viso incorniciato da una leggera barba, nel disegno e nel rilievo simile a quella della testa coronata. Alla sinistra un angelo sospeso in volo da due ali piumate, regge lo scudo con la mano destra, mentre con la sinistra fa corona allo stesso. Per quanto l’iconografia di figure alate che sostengono clipei con immagini di defunti abbia riscontro nella scultura pagana romana, è indubbio che il clipeo sia traduzione plastica di quello scudo, forza salvifica che è il Signore, che scandisce un consistente numero di salmi[21].

 

 

Capitello del pilastro nord del presbiterio di S. Antioco di Bisarcio. Dall’alto in basso, i lati: ovest, sud, est e nord.

 

L’odierno capitello, di un’altezza media di cm 25 ca. per una lunghezza del perimetro dei rilievi originali residui di cm 360 ca., è l’esito del ridimensionamento della fascia decorativa di uno o forse di due capitelli più antichi, che insistevano su altrettanti pilastri a sezione quadrangolare nel   presbiterio, convertiti in un tempo non definito, forse nella prima metà del Novecento, per ragioni di gusto o di cedimento strutturale, in cruciformi[22]. I segni di reimpiego sono inequivocabili nella rielaborazione della quasi totalità delle facce minori, dove con mano rozza e rilievi a scavo poco profondo, si è cercato di rimediare le lacune conseguenti al frazionamento dell’originaria o delle originarie  tavole capitellari. Qui, piccole rosette e altri motivi fitomorfi hanno spezzato ma non cancellato, l’unitarietà iconologica del manufatto.

Un cespo di foglie angolare stabilisce un nesso tra i lati contigui e attesta l’appartenenza ad uno stesso capitello dei decori della sezione frontale mediana del lato nord  e frontale mediana e destra del lato ovest. Parimenti è da ricondurre ad una stessa unità architettonica, non necessariamente differente dalla precedente, la testa coronata, l’adiacente motivo fitomorfo alla sua sinistra nel lato ovest e i decori della sezione frontale mediana del lato sud. L’insufficienza perimetrale dei rilievi, probabilmente danneggiati nell’opera di rifacimento dei pilastri, avrebbe  –  di ipotesi si tratta – obbligato il restauratore all’adozione di una nuova semplice cornice modanata nel capitello in simmetria.

 

 

Protome di Barisone II, foglia di ruta e basilisco, lato sud del capitello.

 

 

 

 

Dettaglio del Basilisco, lato sud del capitello.

Un attento esame dei rilievi ha rivelato, nella sezione frontale mediana del lato che volge a sud, la figurazione di un basilisco, nel bestiario medioevale la più laida incarnazione del male, emblema della morte e, più in generale, del diavolo e del peccato in molte cattedrali romaniche e gotiche di tutta Europa[23].  L’animale mitologico di Bisarcio ricalca pedissequamente quello descritto da Plinio il Vecchio nella Naturalis historia[24]: è come un piccolo drago con corpo di serpente, due zampe divaricate in posizione errante ed è bicefalo, con capo anteriore sul quale è una sorta di diadema ‘a fiamma’ e volto dai tratti umani, come quello che fronteggia un minotauro armato di una sfera di cristallo[25], in un capitello nella chiesa abbaziale di Sainte-Marie-Madeleine di Vézelay in Borgogna. Del gallo, di cui per tradizione è figlio[26], conserva le ali spiegate, che nel profilo ‘a denti di lupo’ suggeriscono l’idea di qualcosa di irto, pungente, sinistramente ispido, e pare di intuire ­ una testa capovolta con tanto di becco all’estremità della coda, con tenui tracce del profilo della cresta ormai perduta[27], simile, nell’inversione in senso longitudinale, a quella coeva del basilisco del portale della chiesa di San Andrés de Soto de Bureba (1176) nella provincia di Burgos, in Spagna. Con lo sputo, graficamente descritto come due incisioni trasversali sui tronchi, ha corroso e bruciato gli arbusti tra i quali si frappone e rinsecchito, con fiato mortifero, la totalità, o quasi, delle foglie che corrono lungo il perimetro capitellare. La devastazione circoscritta al solo ibrido lascia, invece, intendere l’azione di fedeli iconoclasti, animati da un malinteso sentimento religioso, al pari di quelli che potrebbero avere azzoppato il basilisco del chiostro gotico-aragonese di S. Domenico di Cagliari (prima metà sec. xv secolo), il solo altro rilievo del basilisco noto in Sardegna[28]. Come quello, ma ancora prima di quello, questo bisarchiense è dotato di un bubbolo, una esclusività dell’iconografia del basilisco sardo, in parte consumato ma ancora riconoscibile sotto la zampa anteriore. Il sonaglio, si pensi ai “folli” dal berretto e lo scettro a sonagli e ai campanacci e alle collane a sonagli che altre entità demoniache del folklore sardo quali i mamutones portano indosso numerosi, identificava il portatore del pericolo (p. es. la battola – cliquette – il legno che i lebbrosi portavano legata alla cintura) e allo stesso tempo svolgeva la funzione di protezione apotropaica[29].

 

 

 

 

Dettaglio dell’Ostrica, lato est del capitello.

Alla sinistra della teofania, seppure in parte devastata ai margini superiore e sinistro, precede la valva di un’ostrica con, in origine, una grande perla in pietra colorata o pasta vitrea, di cui non resta che il castone vuoto. La  preziosa secrezione nel Nuovo Testamento simboleggia il Regno di Dio[38], l’incarnazione del Verbo, il Cristo e, nella sua interezza, il nicchio è un preciso simbolo mariano, come affermano i santi Padri Clemente Alessandrino nel iii secolo e Giovanni Damasceno nell’viii[39]. A riguardo della perla, sostiene Michel Feuillet, «la perfezione della sua forma sferica e la purezza del suo colore, come trasparente, ne fanno un simbolo divino, un’immagine del Cristo incarnato, morto e risuscitato dai morti: dopo un soggiorno in una conchiglia rugosa, dagli oscuri abissi dell’oceano, la perla è risalita alla luce»[40]. Un richiamo alla rinascita, all’immortalità e alla risurrezione, dunque, quali valori avversi a quelli rappresentati dal mortifero basilisco. Ulteriore motivo di riflessione è la lettura proposta da Clemente Alessandrino – «“la perla” [è] lo splendente e puro Gesù, l’occhio che contempla Dio in carne umana»[41] – nella quale si coglie una valenza antitetica a quella espressa dagli occhi del basilisco, capaci di uccidere col solo sguardo[42].

 

 

 

 

 

Protome di Barisone II giudice di Torres, angolo sud-ovest del capitello.

 

Al riparo di una fresca foglia di ruta, la sola pianta, secondo la tradizione del xii secolo, capace di far morire il basilisco[43], si colloca il capo coronato e severo della figura maschile, di cui si è detto in precedenza. Della serie di decori che scandivano e impreziosivano la corona regale – necessariamente di un judike, non trovandosi ragione di una committenza régia, extraisolana[44] – avanza, nella sezione sovrastante lo stesso orecchio, un castone rettangolare, identico a quelli del clipeo ma parzialmente occluso da una malta posticcia. L’ipotesi del riconoscimento in questo del giudice di Torres, piuttosto che di un qualsiasi altro monarca – oltre che da esempi similari, seppure seriori, nel Giudicato di Arborea[45] – è certamente autorizzata dall’essere il S. Antioco la cattedrale della Diocesi di Bisarcio, di cui era parte Ardara capitale, in quegli stessi anni, del Giudicato di Torres. Nella necessità di dotare la prossima sede episcopale di un nuovo rappresentativo tempio, a seguito dell’incendio della fabbrica della cattedrale (ante 1090)[46], che aveva obbligato al temporaneo trasferimento della cattedra ad Ardara, si ritroverebbe la ragione di una comunque consueta committenza giudicale[47], forse su sollecito di un Ardarensis episcopus[48].

La cronologia delle due opere scultoree, il S. Stefano e il capitello, segue quella della vicenda costruttiva del S. Antioco di Bisarcio, epigraficamente individuata, per quanto riguarda il corpo principale della chiesa, nel 1164[49]. Alla luce delle nuove risultanze documentali, si propone per i due manufatti il 1173 quale termine post quem[50], in un’epoca pressoché coeva all’esempio autuniano (post 1170) e in concomitanza con la costruzione del portico sopraelevato, in linea con un modello architettonico riconducibile, secondo Raffaello Delogu[51], alle galilées di talune chiese francesi del xii secolo, quali Notre-Dame de Châtel-Montagne in Alvernia e Saint-Benoît-sur-Loire nel Centro, entrambe al confine con la Borgogna, e Sainte-Marie-Madeleine a Vézelay nella stessa Borgogna. Per Renata Serra si deve ammettere a Bisarcio «un sincretismo fra modi pisani e stilemi borgognoni», e riconoscere nella facciata della chiesa la norma toscana applicata in Sardegna nella prima metà del xii secolo e nell’atrio una soluzione strutturale francese e ornati di derivazione pisana[52]. L’ipotesi è condivisibile perchè concilia il prevalente romanico pisano dei decori esterni, comunque non estranei, secondo Ferdinanda Poli, a «suggestioni francesizzanti»[53] e la ricezione di nuove istanze francesi negli arredi interni.

Non si può, infatti, tacere che il simulacro bisarchiense è stretto da un doppio vincolo alla scultura francese del xii secolo: e per l’eredità iconologica agostiniana del s. Stefano barbato e per quella iconografica, rappresentata da più riprese dal modello autuniano, quali l’avanguardistico tuttotondo, i dettagli della chioma e le iridi forate e, nel capo del giudice coronato, la barba che ricalca i tratti somatici del volto in una fisionomia sorprendentemente realistica, con la fronte accigliata, le palpebre ben disegnate, il naso affilato asimmetrico sulle labbra sottili, i capelli ben curati, con due vezzose treccine dietro l’orecchio sinistro[54], che palesano un’inedita indagine introspettiva. Nel sermone di Onorio di Autun – giova ricordarlo – trova, infine, fondamento l’impianto iconologico che percorre l’intero capitello.

Identificato l’ambito culturale di riferimento, è possibile che il S. Stefano e i rilievi capitellari possano finanche essere opera di un seguace del monaco Martino, ingaggiato con le maestranze borgognoni dal giudice di Torres, al servizio del vescovo di Bisarcio Giovanni Thelle (ante 1154 ca. – post 1179)[55]. Seppure la valenza estetica sia compromessa da vistose devastazioni del volto del protomartire, resta invariato l’elevato valore storico-artistico, perché rappresentativo di una ricerca volumetrica ed espressiva che prelude al gotico, di un’iconologia agostiniana a tratti inedita (si vedano le colature dell’unguento sul collo), e di un allineamento culturale con le avanguardie europee, che a Cluny e nelle stesse Autun e Vézelay mostrano precoci segnali di ripresa della scultura monumentale.

L’appartenenza ad una architettura, il capitello di un pilastro presbiteriale, – coeva, perché francesizzante, alla struttura della galilea – segna un preciso termine post quem per l’identificazione del giudice che, in quanto raffigurato sul presbiterio non può ragionevolmente essere che colui che finanziò la costruzione del corpo principale della chiesa consacrata nel 1164 ma anche l’annesso portico sopraelevato (post 1173). Si assume, infatti, che il sovrano abbia colto l’opportunità della disponibilità di maestranze più capaci, per fare o rifare i capitelli dei pilastri, con nuovi ornamenti in linea con le tendenze giunte d’oltralpe, in uno dei quali avrebbe posto il suo ritratto.

All’epoca della riedificazione del tempio sedeva sul trono di Torres Barisone ii de Lacon(-Gunale), regnante tra il 1152/53 e il 1190 circa, ma associato al padre Gonario già dal 1147[56]. Dal 1170 lo stesso condivide il potere con il figlio Costantino ii, che gli è accanto fin dal 1164 e sarà giudice unico solo dopo il 1190[57]. L’età avanzata, segnata nel capo litico da poche rughe che animano la fronte, simili a quelle del S. Pietro apostolo del gruppo di Autun, convince dell’identificazione nel maturo Barisone ii piuttosto che in Costantino ii, giovanissimo in quel lontano 1164. Si scarta l’ipotesi che possa essere Gonario perché ritiratosi nel 1153, nel convento di Clairvaux nella Champagne-Ardenne, al confine con la Borgogna, dove sarebbe morto in concetto di santità, forse ancor prima che la chiesa giungesse a pieno compimento. Sull’esempio di S. Gavino martire di S. Gavino Monreale e  di S. Chiara di Oristano, non si esclude, tuttavia, la raffigurazione di Costantino ii o di sua madre Preziosa de Orrù, in simmetria sul probabile capitello perduto del pilastro gemello[58]. Potrebbe, invece, il volontario esilio di Gonario a Ville-sous-la-Ferté, così prossima a Vézelay (poco più di un centinaio di chilometri) dove è la cattedrale di Sainte-Marie-Madeleine, uno dei modelli al quale si conforma la galilea del S. Antioco di Bisarcio, essere l’occasione per la quale Barisone ii, in un probabile viaggio di circostanza al seguito o in visita al padre, si accosta alle architetture francesi e ne resta affascinato.

 


[1] Frammento del capo di S. Stefano barbato, post 1173, vulcanite grigia chiara, altezza massima 37 cm, larghezza massima 19,5 cm, profondità massima 24,5 cm, Ozieri, Museo diocesano di Arte sacra.

[2] Elemento similare, che farebbe propendere per questa ipotesi, è una pietra piana, con un incasso centrale, probabilmente quanto resta di una pietra consacrata d’altare, una sorta di reliquia ex contactu, ancora oggi murata sulla recinzione a nord della chiesa, in prossimità del rudere della torretta.

[3] Il ‘canone’ di Policleto considera che il capo sia pari ad un ottavo dell’altezza, cfr. G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Milano [2003], pp. 283-285.

[4] Per una ridefinizione della cronologia del Retablo maggiore di Ardara, cfr. G. G. Cau, «Non si può errare essere liberale inverso gli uomini grati». La Madonna della Misericordia di Giovanni da Gaeta: le ragioni della committenza, «Theologica & Historica. Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna», n. xix (2010), p. 240 nota 3.

[5] Archivio Storico Diocesano di Alghero (= asdalghero, Registro delle visite pastorali 1539-1550, Visita di Durante De Duranti a Bisarcio del 12 maggio 1539, f. 10v.

[6] asdalghero, Registro delle visite pastorali 1539-1550, Visita pastorale del vescovo di Alghero e Unioni Pietro Vaguer a Bisarcio del 29 maggio 1549, f. [121v].

[7] J. Sébastien, A. Devoucoux, Autun archéologique, Autun 1848, p. 169. Tra gli elementi superstiti e frammentari sono: Cristo, Maria Maddalena, Marta di Betania, S. Pietro (l’unico al Louvre, i restanti al Museo Rolin di Autun) e S. Andrea; quest’ultimo presenta caratteri differenti, riferibili ad un maestro più capace, convenzionalmente noto come ‘Maestro di sant’Andrea’, cfr. P. Verdier, The bulletin of the Cleveland Museum of Art, vol. 68, Cleveland 1981, p. 72; N. Stratford, Le Mausolée de saint Lazare à Autun, in ‘Le Tombeau  de Saint Lazare et la sculpture romane a Autun après Gislebertus’, Autun 1985, pp. 11-38.

[8] L. Seidel, Legends in limestone: Lazarus, Gislebertus, and the Cathedral of Autun, Chicago 1999, p. 42.

[9] H. Laurens, L’art français, Moyen âge, Renaissance, vol. 1, Parigi 1923, p. 83; M. Aubert, Sculptures du Moyen âge: Musée du Louvre, Parigi 1948, p. 5. W. Berry, Les fouilles archéologiques du choeur de la cathédrale Saint-Lazare d’Autun, in ‘Sanctuaires et chevets à l’époque romane. Culte des reliques, celebrations et architecture’, «Revue d’Auvergne» publication de l’Alliance Universitaire d’Auvergne – Société des Amis des Universitès de Clermont-Ferrand,  2000 – 557 – n. 4 – tomo 114, pp. 115-125. Si ringrazia il sindaco di Autun e la direttrice del Museo Rolin Brigitte Maurice-Clabart per il sostegno nella ricerca della bibliografia più aggiornata.

[10] Uguale dettaglio si riscontra nei capelli (più corti) del martire nella Lapidazione di S. Stefano del portale della chiesa di S. Trofimo di Arles, in Provenza (fine xii secolo).

[11] Atti degli Apostoli, vi, 15.

[12] G. Pagano, La vita monastica in Sant’Agostino. Commento al Salmo 132, Roma 2008.

[13] In Francia l’abbazia di S. Vittore a Parigi fu fondata nel 1108 dai canonici regolari di s. Agostino e ben presto divenne un importante centro culturale e di formazione per numerose personalità della Chiesa francese, cfr. L. Hertling, A. Bulla La penetrazione dello spazio umano ad opera del cristianesimo, Roma 2001, pp. 202-204.

[14] G. Pagano, La vita monastica in Sant’Agostino, cit., p. 131.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] Mt v, 44.

[18] G. Pagano, La vita monastica in Sant’Agostino, cit., p. 115.

[19] Op. cit.

[20] F. Poli, La decorazione pittorica del Sant’Antioco di Bisarcio. Nuovi dati per vecchie attribuzioni, «Sacer» n. 6, Sassari 1999, p. 193.

[21] Salmi iii, 4, 13; vii, 11; xvii,  3, 31, 36; xxvii, 7; xxxi, 20; xxxiv, 2; lviii, 12; lxxv, 4; lxxxiii, 10,12; lxxxviii, 19; xc, 4; cxiiib, 9, 10, 11; cxviii, 114; cxliii, 2.

[22] Le facce minori del capitello non mostrano alcun residuo del fumo depositatosi a seguito dell’incendio dell’ancona dell’altare maggiore, alla fine del Settecento e persistente negli interstizi più reconditi del rilievo originale (cfr. G. Spano, Chiesa Cattedrale dell’antica Bisarcio, «Bollettino Archeologico Sardo», a. vi, n. 6, Cagliari 1866, p. 289 nota 1). Può, a ragion veduta, considerasi questo un certo termine post quem per la cronologia della ripresa del manufatto. Un altrettanto valido termine ante quem si deduce dal rilievo dell’edificio di Guido Crudeli del 1951, nel quale i pilastri hanno già sezione cruciforme, cfr. A. Ingegno, Storia del restauro dei monumenti in Sardegna dal 1892 al 1953, Oristano 1993, p. 353.

[23] In Francia, «il basilisco, metà gallo e metà serpente, non è presente solamente nelle sculture delle grandi cattedrali come quelle di Le Mans, Amiens, di Sens, di Poitiers, o presso le abbazie come quella di Vézelay; ritroviamo il basilisco anche in numerosissime chiese rurali, a riprova che un tempo il simbolismo del basilisco era estremamente diffuso», cfr. L. Carbonneau-Lassay, Il Bestiario del Cristo, Roma 1994, p. 243.

[24] Il basilisco «è un drago che ha sulla testa una corona d’oro, grandi ali spinose, una coda di serpente, che termina con la testa di un gallo. Il suo fiato avvizzisce la frutta. Il suo sputo brucia e corrode. Il suo sguardo spacca le pietre. L’odore della donnola lo uccide», cfr.  Plinio il Vecchio, Naturalis historia, viii, par. 78-79.

[25] «Secondo le credenze l’unico modo per proteggersi da questo mostro era l’uso di uno specchio o di una campana di cristallo», cfr. R. Giorgi, Angeli e demoni, Milano 2003, p. 101.

[26] Il monaco benedettino Teofilo (inizi del xii secolo) nel suo  De diversis artibus o Schedula diversarum artium, accenna all’allevamento del basilisco per finalità alchemiche, quale la sintesi dell’oro spagnolo, indicando nell’accoppiamento di due galli la nascita dell’uovo del basilisco, poi covato da dei rospi, cfr. Teofilo, Sulle diverse arti, a cura di Michelino Grandieri, traduzione e note di Antonella Tantalo, [Bari] 2005.

[27] Non si esclude che la testa caudale possa essere letta, al dritto, come quella di un animale mostruoso dalla mandibola prominente. Tuttavia, la complessiva fedeltà al racconto pliniano, spinta sino all’estremo della figurazione dello sputo corrosivo, indurrebbe ad avallare l’ipotesi della testa di un gallo e respingere la seconda, caratterizzata, peraltro, da un occhio forse posticcio, appena abbozzato (l’altro in capo è forato a trapano) per mano di fedeli incapaci di leggere l’antica iconografia. Inopinabile, qualunque sia l’interpretazione, è la rappresentazione di un animale bicefalo.

[28] M. C. Cannas, G. Pisano, Il nido del basilisco. Scultura architettonica del braccio ovest del chiostro di San Domenico di Villanova in Cagliari, Cagliari 2002. Si ringrazia il prof. Roberto Coroneo per l’indicazione di questa monografia.

[29] Ivi, pp. 15-16.

[30] «11.  Poiché egli comanderà ai suoi Angeli di custodirti in tutte le tue vie. 12. Essi ti porteranno nelle loro mani, perché il tuo piede non inciampi in alcuna pietra. 13. Tu camminerai sul leone e sull’aspide, calpesterai il leoncello e il dragone», cfr. Salmo xci.

[31] Numerosi sermoni dello Speculum Ecclesiae sono rappresentati in una vetrata della cattedrale di Lione. L’influsso della stessa opera si avvrerte anche nelle quattro vetrate simboliche che si trovano a Bourges, a Chartres, a Le Mans e a Tours.

[32] Onorio D’Autun, Speculum Ecclesiae, (Dominica in Palmis), pl clxxii, coll. 913-916; E. Mâle, Le origini del Gotico, Milano 1986, pp. 59-60, 76 note 60-61, cfr. G. Pisano, Il re dei rettili, in M. C. Cannas, G. Pisano, Il nido del basilisco, cit., p. 14.

[33] Gli stessi versetti sono riportati nel Vangelo di Matteo e di Luca: «Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio e gli disse: ‘Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede’», cfr. Mt iv, 5-6. «Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul pinnacolo del tempio e gli disse: ‘Se tu sei Figlio di Dio, buttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordine per te, perché essi ti custodiscano; e anche: essi ti sosterranno con le mani, perché il tuo piede non inciampi in una pietra’», cfr. Mt iv, 5-6, Lc iv, 9-11.

[34] E. Urech, Dizionario dei Simboli Cristiani, Roma 2004, p. 37.

[35] L. Carbonneau-Lassay, Il Bestiario del Cristo, cit., p. 465; per un approfondimento sul basilisco, M. C. Cannas, G. Pisano, Il nido del basilisco, cit.

[36] G. Pisano, Il re dei rettili, in M. C. Cannas, G. Pisano, Il nido del basilisco, cit., p. 15.

[37] Esempi analoghi, ma non uguali, sono attestati  in tempi coevi e più antichi. «Sotto i piedi del Cristo del portale centrale della cattedrale di Amiens (1220 ca), sono scolpiti l’aspide e il leone, poco più in basso, sullo zoccolo, il basilisco e il drago. Questo Cristo è comunemente chiamato Ammaestrante, come sottolinea Emile Mâle; è il vincitore sul demonio, sul peccato, sulla morte. Il tema, più antico, era rappresentato nella statua bronzea collocata davanti al palazzo imperiale di Costantinopoli, ed è presente nei mosaici di Ravenna: in Sant’Apollinare Nuovo nel timpano della porta di città, nella lunetta dietro l’altare della cappellla di Sant’Andrea (metà del V sec.) e nel sarcofago detto dei Pignatta, custodito nell’edicola di Braccioforte; e nel sarcofago protocristiano della chiesa di San Felice a Gerona, proveniente da Roma, e dove il basilisco è raffigurato con testa di gallo», ivi, p. 14.

[38] Mt xiii, 45-46.

[39] “L’immagine della pietra preziosa-Logos divino era già stata usata da Clemente Alessandrino: «La perla preziosissima… nasce in un’ostrica simile alle pinne, la sua grandezza è quella di un occhio di pesce abbastanza grande… (La) pietra santa (è) Logos di Dio, che la scrittura chiama “perla”, lo splendente e puro Gesù, l’occhio che contempla Dio in carne umana, il Logos visibile, per il quale la carne preziosa è rigenerata nell’acqua. Quell’ostrica infatti che si forma nell’acqua riveste la carne, e da questa poi si trasforma in perla»”, cfr. Origene, Commento al Vangelo di Matteo, vol. 1, Roma 2005, p. 95, nota 11. Nella Quarta omelia sulla Natività Giovanni Damasceno afferma: «Si  rallegri in alto il cielo e gioisca quaggiù la terra, frema il mare del mondo. Vi è nata infatti una conchiglia che, per opera della luce celeste della divinità, concepirà nel seno e partorirà una perla preziosissima: il Cristo», cfr. M. Spinelli, Omelie cristologiche e mariane, Roma 1993, p. 126.

[40] M. Feuillet, Lessico dei simboli cristiani, Roma 2004, p. 86, voce ‘perla’, n. 2.

[41] Vedi nota  39.

[42] «Il suo sguardo spacca le pietre», dunque uccide, cfr.  Plinio il Vecchio, Naturalis historia, viii, par. 78-79.

[43] La ruta è «una delle nove erbe magiche. Matteo Plateario (metà del xii sec.), della scuola medica salernitana, nel suo Liber semplici medicina, noto come Circa instans e nelle rielaborazioni Tractatus de herbis, afferma che la pianta portata fresca può uccidere il basilisco», cfr. G. Pisano, Il re dei rettili, cit., pp. 12-13. Per un approfondimento sulle virtù della ruta, ibidem. Il riconoscimento della ruta nel rilievo in esame è più filologico che botanico: le foglie qui rappresentate sono in scala maggiore di quella naturale, ma a quell’erba, comunque, rimandano l’anarchia e l’asimmetria del disegno delle stesse.

[44] Si esclude che quel cinge che la testa di Bisarcio possa essere il gallone di un’originaria mitria episcopale, scalpellata con la barba al momento del rifacimento del capitello e, di conseguenza, che quello sia il ritratto del vescovo Giovanni Thelle, che negli anni dell’edificazione della chiesa sedeva su questa cattedra. Le mitrie furono adottate dalla Chiesa solo nel x secolo e le più antiche avevano forma di cono, quindi con linee convergenti all’apice, come la coeva cappa del camino in foggia di mitria dell’aula capitolare dello stesso tempio bisarchiense, con un angolo di inclinazione del solo gallone trasversale di – 6,5 gradi ca.. Inversamente, la corona spesso si caratterizza per le linee più o meno marcatamente divergenti verso l’alto, come un tronco di cono capovolto – nella fattispecie con un angolo di + 12,5 gradi  ca. – o parallele, come un basso cilindro. Parimenti è irricevibile, perché ridondante, l’ipotesi che il ritratto possa essere del Cristo, già raffigurato entro un clipeo sull’altro lato del capitello. Un santo coronato, con una croce in pugno, è raffigurato alla destra della Vergine col Bambino, sul portale di ingresso della chiesa di S. Pietro extra muros di Bosa: è S. Costantino imperatore, omonimo del vescovo di Castro che nel 1163 fece edificare quel tempio.

[45] Tra i modelli superstiti di rappresentazione del giudice committente, si ricordano i ritratti di Mariano iv e dei figli Ugone iii ed Eleonora con Brancaleone Doria suo marito, sulle mensole dei costoloni della volta absidale della chiesa di S. Gavino martire a S. Gavino Monreale, edificata tra il 1347 e il 1388 come cappella palatina del non distante castello di S. Gavino, residenza estiva dei sovrani arborensi (cfr.  F. C. Casula, La scoperta dei busti in pietra dei re o giudici d’Arborea: Mariano iv, Ugone iii, Eleonora con Brancaleone Doria, Pisa, 1984; G. Spiga, L’arte giudicale in ‘La provincia di Oristano l’orma della storia’, Cinisello Balsamo 1990, p. 145). Parimenti, sulla parete dell’arco trionfale della chiesa di S. Chiara di Oristano, vera e propria cappella palatina della famiglia regnante dei Bas-Serra, sorta grazie alla munificità dei giudici di Arborea, in un affresco, in cornu evangelii come oggi a Bisarcio, è ritratto lo stesso Mariano iv nell’atto di affidare il figlio Ugone alla santa patrona (ivi, p. 148), mentre «nei peducci dell’abside gotica, [sono] le effigi di quattro personaggi laici, due dei quali, a ridosso dell’arco trionfale, potrebbero essere quelle di Pietro iii di Bas-Serra, che volle la costruzione, e di sua moglie Costanza di Saluzzo» (ivi, p. 145). Anche la chiesa di S. Pietro di Zuri (1291), voluta da Mariano ii di Arborea quando era abbadessa Sardinia de Lacon, sicuramente sua madre, la rappresenta «in atto devozionale, nell’architrave del portale» (ivi, p. 144). Sarebbe Mariano iv di Arborea l’ultimo devoto a destra, ritratto nell’architrave del portale laterale della chiesa di S. Serafino, in agro di Ghilarza (ivi, p. 117, did. 83). Nel prospetto frontale della chiesa di S. Pantaleo a Dolianova  «l’immagine a mezzo busto e posta a destra del portale, raffigura il giudice d’Arborea Mariano ii de Bas-Serra, il quale partecipò assieme al vescovo raffigurato al suo fianco, alla consacrazione della cattedrale nel 1289 (come attesta l’epigrafe absidale) e al quale si deve l’invio delle maestranze che conclusero i lavori di edificazione dell’edificio», cfr. M.C. Cannas, Un pittore di Scuola Bolognese: Simone de’ Crocifissi?, in  M. C. Cannas, L. Siddi, E. Borghi (a cura di), L’affresco dell’Arbor Vitae nell’ex Cattedrale di San Pantaleo in Dolianova, Cagliari 1994, p. 29.

[46] R. Serra, La Sardegna, [‘Italia romanica’, x], Milano 1989,  p. 267.

[47] Seppure non sia sopravvissuto alcun ritratto, è noto quanto «l’attività edilizia dei giudici turritani nel sec. xi fu molto intensa. Gonario i Comita dava inizio intorno al 1030-40 alla basilica di San Gavino a Porto Torres, ultimata dopo la sua morte dal figlio Barisone i Torchitorio († 1066?); Giorgia, sorella di Gonario, gettava le fondazioni intorno al 1050 della chiesa protoromanica di Santa Maria del Regno di Ardara; Mariano i (not. 1065-82), figlio del giudice Andrea Tanca († ante 1065?), costruiva (o ricostruiva), nella seconda metà del secolo xi, il monastero di San Michele di Plaiano a Sassari e la Santa Maria di Castro a Oschiri (forse restaurò anche il San Michele di Salvenero a  Ploaghe); Costantino i († ante 1127) erigeva la basilica di Saccargia consacrata nel 1116, ma ovviamente cominciata almeno un decennio prima, e poco più tardi era nuovamente costretto a mettere nuovamente mano alla chiesa ardarese di cui, per probabili dissesti statici, fu necessario restaurare la navatella destra e ricostruire la facciata» (cfr. F. Poli, La  pittorica del Sant’Antioco di Bisarcio, cit. p. 171). Lo stesso Gonario ii di Torres, padre del Barisone ii effigiato a Bisarcio, di ritorno da un pellegrinaggio in Terrasanta «incontrò Bernardo di Chiaravalle e a lui chiese l’invio di monaci per una fondazione cistercense nella ricca curtis di Cabu Abbas, dove sorse S. Maria di Corte» e dove è attestata «l’attività d’una maestranza indubitabilmente borgognona», cfr. R. Serra, La Sardegna, cit., p. 414.

[48] Nel 1139 si ha menzione di Marianus Ardarensis episcopus, cfr. P. Tola (a cura di), Codex Diplomaticus Sardiniae, I, Torino 1861, p. 213, n. L.

[49] Un’epigrafe graffita su di un concio all’esterno della parete di fondo della navatella settentrionale della chiesa di S. Antioco, «mclxiiii joh[anne]s  ep[iscopu]s  finem  [h]abuit» (‘nel 1164, essendo vescovo  Giovanni [Thelle, la chiesa] ebbe termine’), solo di recente decifrata nella sua interezza, fissa nel 1164 un termine preciso per il compimento dei lavori del corpo principale della fabbrica. Il sottostante ampio tratto di un arco con una alfa maiuscola all’estremità inferiore sinistra, e una lunga corda che la unisce all’opposto diametrale, al di sotto di quel «finem  [h]abuit», esprime graficamente il concetto di un’opera concepita e portata a compimento durante il presulato di Giovanni Thelle, i cui termini, sinora documentalmente fissati tra il 1170 e il 1179, devono necessariamente essere anticipati di almeno dieci anni da quel 1164 (cfr. G. G. Cau, L’epigrafe consacratoria di Sant’Antioco di Bisarcio (1164), [di] Giovanni Thelle vescovo, «Sardegna Antica» Nuoro 2010, a. xiv n. 38, pp. 19-20). Un analogo arco temporale si riscontra nell’architrave timpanata del portale della chiesa abbaziale di Sainte-Marie de Arles-sur-Tech (sec. xi), nella Linguadoca-Rossiglione, in Francia. In questo precedente l’arco è invertito in senso longitudinale e allude all’eternità del Cristo, emblematicamente rappresentata da una croce tra una alfa maiuscola e una omega crociata, incluse nel semicerchio.

[50] Nell’epigrafe dedicatoria della cappella della galilea compare il nome di un s. Tommaso arcivescovo e martire, nel quale Francesco Amadu ha creduto di riconoscere s. Tommaso Becket arcivescovo di Canterbury, martirizzato nel 1170 e canonizzato nel 1173 (cfr. M. Farina, Il passato: un patrimonio da rivisitare, «La Nuova Sardegna», 31 dicembre 2004, sez. Sassari, p. 33), tempo quest’ultimo che fissa un altrettanto valido termine post quem per la costruzione del portico sopraelevato, indicato da Renata Serra negli anni 1170-90, cfr. R. Serra, La Sardegna, cit.,  p. 267.

[51] R. Delogu, L’architettura del Medioevo in Sardegna, Roma 1953, pp. 152-155.

[52] R. Serra, La Sardegna, cit., p. 270.

[53] F. Poli, La decorazione pittorica del Sant’Antioco di Bisarcio, cit., p. 195.

[54] La singolarità della acconciatura maschile merita l’attenzione dell’etnografo. Per trovare dei precedenti in terra sarda, occorre retrocedere in epoca nuragica, quando sono documentati alcuni bronzetti e numerosissimi arcieri tra i Giganti di Monti Prama, con una o due trecce per lato (cfr. G. Lilliu, La Grande statuaria nella Sardegna nuragica, in ‘Atti della Accademia nazionale dei Lincei. Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Memorie’, Roma 1997, p. 304). In tempi molto più recenti, l’uso di trecce maschili è attestato ancora a metà Ottocento in Sardegna (cfr. A. Bresciani, Dei costumi dell’isola di Sardegna comparati cogli antichissimi popoli orientali, Napoli 1850, pp. 26-27, 42-43, 64). Parrebbe, questa di Bisarcio, la sola testimonianza della persistenza del dato etnografico nell’Evo Medio.

[55] Per la ridefinizione del periodo dell’episcopato di Giovanni Thelle, cfr. G. G. Cau, L’epigrafe consacratoria di Sant’Antioco di Bisarcio (1164), [di] Giovanni Thelle vescovo, cit., p. 20.

[56] M. G. Sanna, La cronotassi dei giudici di Torres, in ‘La civiltà giudicale in Sardegna nei secoli xi-xiii. Fonti e documenti scritti’, a cura dell’Associazione ‘Condaghe di S. Pietro in Silki’, Sassari 2002, pp. 103-111.

[57] R. Serra, La Sardegna, cit., p. 414.

[58] Vedi nota n. 45.

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