di Gian Gabriele Cau

Il saggio è stato pubblicato su «Annali di Storia e Archeologia Sulcitana», 2014 (IV), pp. 105-138.

 

Il fortuito rinvenimento di sessantotto sigilli di piombo presso l’insediamento di San Giorgio di Cabras, tra i quali due recanti la più antica effigie superstite del S. Antioco sulcitano, paleograficamente datati al 550-650 circa[1], ha suscitato nuovo interesse sull’iconografia del protomartire sardo. Taluni aspetti della complessa vicenda iconografica che lo riguarda sono stati di recente messi in luce in tre saggi a cura di Andrea Pala e di Roberto Lai. A questi si associa un ampio repertorio di immagini, possibile base per un censimento e per un più sistematico studio sulla codificazione di uno o più modelli iconografici riferibili al “Megalomartire”[2], raccolto da Walter Massidda in appendice al volume S. Antioco: da primo evangelizzatore di Sulci a glorioso Protomartire ‘Patrono della Sardegna’ [3].

 

 

Sigillo di piombo del S. Antioco (550-650), dall’insediamento di San Giorgio presso Cabras.

 

 

 

 

Xilografia del Sant Anthiogo pubblicata in Vida y Miracles del Benaventurat Sant Anthiogo (Barcellona, 1890)

 

Allo stato degli studi si conviene come, in assenza di una “vera effigie del santo”, si sia andato definendo e consolidando nel corso dei secoli uno stereotipo iconografico, costruito sulla fabula agiografica del martire, tramandata da pochi scritti, individuati nella Passio sancti Antiochi martyris, la più importante fonte documentale sul martire sulcitano datata 1089-1119[4], nella Vida y Miracles del Benaventurat Sant Anthiogo, pubblicata a Cagliari nel 1560, la cui prima edizione a stampa risalirebbe al 1493[5], nel Proçess de miracles del glorios S. Antiogo, il codice cartaceo relativo al processo sui miracoli attribuiti al santo che si tenne a Iglesias nel 1593[6], ma anche  nell’Urania Sulcitana[7] e nella Vida, Martyryo de San Antiogo Sulcitano, Patron de la Isla de Sardegna[8], entrambi redatti da padre Salvatore Vidal nel XVII secolo. Così legittimato, il santo calza un turbante che richiamerebbe le sue probabili origini mauretane[9] – ma su questa diretta corrispondenza turbante/origine mauretana, sin qui condivisa, si pongono oggi nuovi dubbi, meritevoli di riflessione e di una verifica –, impugna un ramo di palma, memoria tangibile del martirio subito a Sulci nel II secolo, al tempo dell’imperatore Adriano[10], e stringe il Vangelo, viva testimonianza di fede. Spesso è vestito di un lungo abito proprio della sua professione medica, talvolta dotato di una gorgiera, di rado di un astuccio stretto alla vita con i medicamenti e di una pelliccia di ermellino, emblema di purezza[11]. Altre volte, come nel simulacro del retablo del duomo di Iglesias databi­le al XVII secolo[12], il martire ha il volto bianco e le mani nere perché, secondo la passio catalana, immerso in una caldaia di pece ardente[13]. In altri modelli più recenti, quale il S. Antioco della basilica sulcitana, realizzato a Cagliari nel 1854 da Giuseppe Zanda, mostra un incarnato scuro, tipico delle popolazioni del Nord Africa[14].

 

Formella longobarda del S. Antioco decollato (750-850 circa), Ozieri, Bisarcio, chiesa di S. Antioco.

 

In sintesi, sono questi gli attributi e i tratti essenziali di più modelli iconografici codificati, le cui più antiche attestazioni risalivano, prima del rinvenimento del sigillo di Cabras, a una xilografia con la figura del santo nella cennata opera agiografica in lingua catalana Vida y Miracles del Benaventurat Sant Anthiogo, ripubblicata a Cagliari nel 1560. Dispersi l’incunabolo e la cinquecentina, l’immagine del santo, ritratto in un rara postura eque­stre su di un cavallo bardato[15], con la canonica tunica, il turbante e la palma, sopravvive in una riedizione barcellonese del 1890[16]. Andrea Pala ipotizza che detta rappresentazione sia riconducibile a un episodio del Proçess de miracles del glorios S. Antiogo, che si tenne a Iglesias nel 1593. Le cronache processuali riferiscono che “il santo sarebbe apparso sul cavallo ad alcuni devoti che da Iglesias si recavano in pellegrinaggio a Sant’Antioco per vene­rare la tomba del martire”, al fine di rassicurarli “dalla paura dei vascelli pirati e della peste, che nel 1582 imperversava ad Alghero e per la quale il viceré don Miquel de Moncada impose il divieto di recarsi alla festività di aprile, che si teneva nella Isla del Sols”[17]. La proposta non tiene conto che la Vida y Miracles del Benaventurat Sant Anthiogo del 1560, precede di oltre un ventennio (quasi un secolo, se si considera l’edizione catalana del 1493) l’evento miracoloso da cui la si vorrebbe far dipendere. Va da sé che le ragioni del S. Antioco a cavallo vadano ricercate in altra sede, forse neppure agiografica, e siano solo ispirate a una immagine del santo comunque trionfante, di cui lo stesso episodio prodigioso del 1582 è rappresentativo.  

Dal modello dominante tra Cinquecento e Seicento[18], identificato per gli attributi del turbante, della palma e del Vangelo, si discosta il S. Antioco del sigillo tardoantico di Cabras che non si direbbe del santo se non fosse per il titulus epigrafico che lo dichiara. Il megalomartire emerge come una figuretta a mezzobusto, con barba e fluente chioma con scriminatura mediana, centrata sul disco di un nimbo. È frontale, fasciato da un mantello con ampie falcature sul busto. Sul fronte è il titolo s[an]c[tu][s] antioc[hus]), sul retro +ioh/anni[s]/diaco/ni a indicare un diaconus Johannes, per il quale “si manifesta una possibile pertinenza a una ecclesia Sancti Antiochi, benché non sia possibile riconoscere quella eponima sulcitana o la diocesis tarrensis”[19].

A questa di Cabras, ancora oggi la più antica effigie del protomartire sardo, è qui possibile associare due inedite immagini[20], una  formella longobarda e una protome romanica, esibite nel prospetto di facciata del S. Antioco di Bisarcio. La loro identificazione infrange quel vuoto cronologico protrattosi per quasi un millennio, tra il manufatto dall’insediamento di San Giorgio e l’incisione del santo a cavallo nella Vida y Miracles del Benaventurat Sant Anthiogo[21]. La più interessante è riconducibile a un ambito culturale longobardo, prudenzialmente alla seconda metà dell’VIII – prima metà del IX secolo, in un tempo successivo alla crisi iconoclasta che, con alterne vicende, aveva animato un duro confronto dottrinario nel mondo cristiano, ma che “non interessò gli ambiti occidentali pur di caratterizzazione greca”[22]. È questa, al momento, la più antica immagine di un antropomorfo della storia della scultura medievale in Sardegna. L’unico rilievo rinvenuto nell’Isola, nel quale si intravede una convergenza di modi di tradizione longobarda, informata alla stilizzazione e al disegno geometrico, e di modi di tradizione latina-bizantina, improntata alla figurazione dell’uomo[23]. 

Il martire è rappresentato a figura intera, a una quindicina di metri dal suolo[24], appena sotto il doppio spiovente. Qui avrebbe trovato nuova collocazione in occasione della costruzione della galilea, tra il 1170 e il 1190 circa[25]. Ritratto in un concio di vulcanite di Bisarcio[26], dimostra il singolare episodio dell’attività in loco di un lapicida affascinato e condizionato dall’arte longobarda, in una Sardegna dominata da Bisanzio, ma culturalmente abbandonata a se stessa. Sporadiche colonie longobarde in Sardegna sono state documentate da Giovanni Lilliu, che a proposito del rinvenimento di un sepolcreto longobardo in località Su Brunku de is Piscinas, presso Dolianova, ammette che: “Immaginare, dunque, al tempo di Liutprando, quando nel Mediterraneo taceva il frastuono delle guerre e i popoli più interessati al suo possesso erano venuti a transazioni pacifiche, la residenza in Sardegna, come nella contigua Corsica, di famiglie di Langobardi intente a curare affari terrieri o di mercato nelle fertili campagne vicino a Cagliari, non è discorso privo di argomenti”[27]. Per quanto affatto risolutive, ai fini di un riscontro di una frequentazione longobarda nell’agro ozierese, non si potrà non tenere conto che presso il villaggio di Bisarcio sono stati rinvenuti quattro tremissi aurei di Liutprando (712-744), tre dei quali confluiti nella collezione del Museo diocesano di Arte sacra di Ozieri[28].

Il rilievo del S. Antioco imita la plastica di talune figure lavorate a sbalzo nelle lamelle auree e argentee altomedievali, e di quelle battute a stampo in certa monetazione longobarda e bizantina. Tra il piano di fondo e le superfici più aggettanti, si registrano due livelli intermedi, appianati da un’ampia gradina[29] (in evidenza solcature oblique, orizzontali e talvolta ortogonali), che partiscono in due sezioni la superficie scultorea, nella quale è scavata la figura intera del martire, in origine policromata. Da questi emerge solo il prominente suppedaneo, che richiama lo spessore plastico del Tetramorfo dell’Ambone della pieve di Gropina, di bottega longobarda, datato 825[30]. Il carattere marcatamente stilizzato e geometrizzato di questo manufatto, senza alcuna cura della verità e delle proporzioni, è ben distante dalla resa naturalistica delle grandi opere della Roma imperiale di appena qualche secolo prima e riflette un linguaggio nuovo, che dal tardo antico si è diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo.

 

 

 

Solidi di Irene imperatrice di Bisanzio, zecche di Siracusa e di Costantinopoli (797-802).

 

Il S. Antioco si palesa per il canonico attributo del turbante, ma anche per una serie importante di dettagli anatomici non codificati, che nella fabula agiografica trovano giustificazione. Del noto copricapo avanza solo la sezione destra, la sinistra è appena intuibile per la simmetria di un tratto d’impostazione superstite. La sommità scompare, schiacciata e incassata com’è in una corona stilizzata con tre cuspidi, allusiva alla corona di gloria approntata dal Signore, secondo tradizione, al termine della sua ultima orazione[31]. La corona è pressoché identica, con esclusione della sola croce mediana, a quella tricuspidata in capo all’imperatrice  di Bisanzio Irene, in due solidi coniati nelle zecche di Siracusa e di Costantinopoli nel periodo 797-802, per i quali si acquisisce un primo termine ad quem. Una lontana eco, una sopravvivenza, se si vuole, del valore semantico dell’inusuale attributo si avverte nel disegno dei festoni che corona il turbante (unico esempio nell’iconografia del martire) del simulacro seicentesco del S. Antioco di Bisarcio[32].

È questo, al momento, l’archetipo della fortunata iconografia del protomartire sardo in veste orientaleggiante, con fascia attorta al capo. La lettura dell’immagine non è comunque semplice e scontata, e rischia di apparire, almeno in un tratto – il turbante quale attributo dell’origine orientale – non in linea con quanto riferito nella Passio sancti Antiochi martyris. La Passio medievale fu “redatta dai monaci benedetti­ni di San Vittore di Marsiglia, che rielaborarono una narrazione agiografica di età bizantina, basata sulla passione di Sant’Antioco di Sebaste combinata con una probabile memoria storica sull’origine mauretana del santo”[33]. La vicinanza tra la Passio del santo sulcitano (X-XI secolo) e quella del martire di Sebaste, in Anatolia, è tale “per cui c’è persino chi ha dubitato dell’esistenza di un santo locale di questo nome, quasi fosse, il nostro, un doppione del Santo Martire Armeno Antioco di cui a Sulci sarebbero state venerate le reliquie”[34].

 

 

Si potrebbe credere che il martire sulcitano, con numerosissimi tratti agiografici paralleli, abbia ereditato dall’omonimo santo medico, martirizzato ad Ancira nel III secolo, anche il turbante quale attributo di un’origine per tradizione mauretana, ma di fatto genericamente mediorientale[35]. Non si esclude, tuttavia, che il turbante possa essere un rimando all’Asia minore, in ragione del fatto che, secondo il racconto agiografico, al tempo dell’arresto, predicava in “Calatra e Paciocra”, cioè in Galazia e Cappadocia, storiche regioni dell’Anatolia[36]. Se può essere un riscontro di questa lettura, Roberto Lai e Marco Massa ipotizzano che il santo abbia perso, in talune sue figurazioni, l’attributo della fascia in capo, proprio “per evitare un riferimento ai turchi che per i cristiani rappresentavano una minaccia”[37].

Nella seconda metà dell’VIII – prima metà del IX secolo, quando si assume prenda forma il rilievo di Bisarcio, quel copricapo non è ancora rappresentativo delle popolazioni del Nord Africa; lo diventerà qualche secolo più avanti, solo con l’espansione della cultura araba e dell’Islam, che nel Corano ne raccomanda l’utilizzo a ogni buon musulmano. È invece già in uso in Persia e in Israele, dove il turbante è il complemento di un abito sacro, espressione di gloria e maestà, che nel Libro dell’Esodo (VIII sec. a.C. circa) Dio comanda a Mosè di confezionare per suo fratello Aronne[38].

Storicamente così ridefinito, il S. Antioco di Bisarcio – qui di seguito S. Antioco longobardo per distinguerlo dal S. Antioco romanico della protome – si caratterizza per un disegno del volto circolare, molto simile a quello del quasi coevo del San Michele pesatore di anime (IX-X secolo), del Trono Reale dell’eponimo santuario di Monte Sant’Angelo[39] e, con tratti somatici ben più stilizzati, delle figure della Lunetta del Cristo in gloria (IX-X secolo ), del duomo di San Catervo a Tolentino[40].

 

  

Simulacro ligneo di S. Antioco sulcitano (sec. XVII), totale e particolare, Ozieri, Bisarcio, chiesa di S. Antioco.

 

Si potrebbe credere che il martire sulcitano, con numerosissimi tratti agiografici paralleli, abbia ereditato dall’omonimo santo medico, martirizzato ad Ancira nel III secolo, anche il turbante quale attributo di un’origine per tradizione mauretana, ma di fatto genericamente mediorientale[35]. Non si esclude, tuttavia, che il turbante possa essere un rimando all’Asia minore, in ragione del fatto che, secondo il racconto agiografico, al tempo dell’arresto, predicava in “Calatra e Paciocra”, cioè in Galazia e Cappadocia, storiche regioni dell’Anatolia[36]. Se può essere un riscontro di questa lettura, Roberto Lai e Marco Massa ipotizzano che il santo abbia perso, in talune sue figurazioni, l’attributo della fascia in capo, proprio “per evitare un riferimento ai turchi che per i cristiani rappresentavano una minaccia”[37].

Nella seconda metà dell’VIII – prima metà del IX secolo, quando si assume prenda forma il rilievo di Bisarcio, quel copricapo non è ancora rappresentativo delle popolazioni del Nord Africa; lo diventerà qualche secolo più avanti, solo con l’espansione della cultura araba e dell’Islam, che nel Corano ne raccomanda l’utilizzo a ogni buon musulmano. È invece già in uso in Persia e in Israele, dove il turbante è il complemento di un abito sacro, espressione di gloria e maestà, che nel Libro dell’Esodo (VIII sec. a.C. circa) Dio comanda a Mosè di confezionare per suo fratello Aronne[38].

Storicamente così ridefinito, il S. Antioco di Bisarcio – qui di seguito S. Antioco longobardo per distinguerlo dal S. Antioco romanico della protome – si caratterizza per un disegno del volto circolare, molto simile a quello del quasi coevo del San Michele pesatore di anime (IX-X secolo), del Trono Reale dell’eponimo santuario di Monte Sant’Angelo[39] e, con tratti somatici ben più stilizzati, delle figure della Lunetta del Cristo in gloria (IX-X secolo ), del duomo di San Catervo a Tolentino[40].

 

Lunetta con Cristo in gloria tra gli arcangeli Michele e Gabriele, e i Santi Pietro e Paolo (totale e particolare) IX-X secolo, bottega tardolongobarda,Tolentino, duomo di San Catervo.

 

Per la stretta corrispondenza di questo e di altri dettagli di cui si dirà più avanti, il San Michele si pone quale elemento privilegiato di confronto con il S. Antioco. Nel corso della trattazione si cercherà di dimostrare come i due manufatti siano riconducibili, ad uno stesso ambito culturale longobardo e a tempi neppure distanti tra loro. Basti al momento ricordare che il carisma del santo favorì la cristianizzazione dei longobardi e la nascita di un culto micaelico, che in Monte Sant’Angelo ebbe il “santuario nazionale” della Langobardia minor[41]. Paolo Diacono, nella sua Historia Langobardorum, documenta l’abitudine dei sovrani longobardi di giurare fedeltà all’effigie dell’Arcangelo, e di innalzarla sui campi di battaglia[42]. Non a caso la figura dell’Angelo accompagna spesso il ritratto del sovrano sul rovescio di molte monete, battute in più zecche del regno, inclusi i tremissi rinvenuti a Bisarcio[43].

 

Formella longobarda del S. Antioco decollato, particolare del capo.

 

 

Protome del Volto di Cristo morto, Ozieri, Bisarcio, chiesa di S. Antioco, XXXIII arcatella della navata del fianco settentrionale.

 

I grandi occhi del S. Antioco in esame hanno sopracciglia ben marcate e palpebre sorprendentemente chiuse. A questo modello si crede possa essersi conformato l’artefice di una protome umana romanico-pisana, credibilmente il Volto del Cristo morto, nella  xxxiii arcatella (ragionevolmente gli anni del Crocifisso) della navata del fianco settentrionale dello stesso tempio bisarcense[44]. Le orecchie del martire sulcitano sono celate dalle ciocche di una lunga chioma. Il naso, diritto e alla base corrispondente alla bocca minuta e semiaperta, è stretto, incassato tra guance insufflanti come se esalassero l’estremo respiro. Nel collo segnato trasversalmente – un unicum nell’iconografia del santo che, nella scultura medievale sarda, trova corrispondenza nell’inedito trecentesco San Giovanni Battista di Orotelli – si intravede un richiamo della decollatio beatissimi martyris trasmessa dalla passio catalana[45]. L’ipotesi che con più tratti si siano voluti descrivere gli ultimi momenti del martirio e la sua ascesa in gloria Domini, è autorizzata dall’iconografia medievale, che “in ogni movimento del c

 

 

 

Formella longobarda del S. Antioco decollato, dettaglio del ricciolo.

 

 

Il disegno dei lunghi capelli con scriminatura centrale e ampie pieghe simmetriche sulle spalle a tratteggiare un sorta di omega poco inflessa, richiama, con maggiore stilizzazione, quello del Salvatore dell’Altare di Ratchis,  sia del Cristo in mandorla del paliotto frontale che del Bambinello in braccio alla Vergine nell’Adorazione dei Magi del palio laterale destro, ma anche di tutte le figure angeliche in essi rappresentate. È questa la prima di una lunga serie di corrispondenze tra il S. Antioco longobardo e il monumento più raffinato e prezioso della rinascenza liutprandea, commissionato per una chiesa di San Giovanni di Cividale del Friuli da Ratchis, duca longobardo e nipote del re Liutprando, tra il 737 e il 744, al tempo in cui gli successe sul trono di Pavia[47]. Così il ricciolo che anima la fronte del martire sulcitano, in prossimità della linea di partizione della capigliatura, riecheggia la ciocca “a coda di rondine” del volto del Risorto dell’Altare di Ratchis.

 

 

Maiestas Domini  in un Solido dell’imperatore Leo VI, zecca di Costantinopoli (908-912).

 

In ogni caso, si tratta della rielaborazione di una piccola frangia riscontrata sul viso del Salvatore di un certo numero di solidi bizantini in circolazione tra il VII e l’XI secolo[48]. Sembrerebbe, anzi, che la stessa piega stretta e secca dei capelli sul collo del S. Antioco longobardo ricalchi il disegno della linea della spalliera del trono, secante il cerchio del nimbo del Cristo in maestà, meglio delineato in un solido di Leo vi, coniato presso la zecca di Costantinopoli tra il 908 e il 912.

 

 

 

 

Altare del duca Ratchis (737-744), palio frontale: Ascensione di Cristo; particolare del Risorto;  palio sx: Adorazione dei Magi, Cividale del Friuli, Museo Cristiano e del Tesoro del Duomo.

Il protomartire sardo non è nimbato, eppure la sua natura santa è graficamente evocata da un disegno perfettamente circolare della chioma dei capelli, che riecheggia l’aureola di tutte le figure della cennata lunetta longobarda di Tolentino. Alla sua santità alludono di certo le mani giunte, con le dita intrecciate sull’addome, in posizione orante[49]. Puntuali riscontri del santo in preghiera si ritrovano nella passio cinquecentesca, sulla scorta, probabilmente, di una antichissima tradizione agiografica[50]. Dopo lo sbarco nell’isola di Sulci, la predica e la conversione di molta gente, Antioco viene raggiunto dai soldati armati per essere processato. Il santo non fa resistenza alla cattura, ma chiede e ot­tiene di entrare nel suo rifugio prima di essere porta­to via. All’interno della grotta, prega Dio perché esaudisca i suoi desideri o abbrevi questo pellegrinaggio. Qui ottiene ascolto dal Signore che lo invita a prendere la corona, la palma e il seggio quale premio e ricompensa delle sofferenze patite[51]. L’episodio è bene illustrato in uno dei due dipinti su tela, del secondo ordine del Retablo di Iglesias, attribuiti a Juan Maria Scaleta e datati 1718[52].

 

 

  

Reliquiario a cofanetto di bottega longobarda (sec. VIII) (totale e particolare), Cividale del Friuli, Tesoro del Duomo.

 

Il S. Antioco – si passi il termine – decollato veste una lunga tunica, che chiude “a siparietto” e ricorda quella del San Michele pesatore di anime di Monte Sant’Angelo. Da questa fuoriescono i piedi estremamente stilizzati, ridotti a due singolari quadratini che ricalcano il profilo del piede destro (quello frontale) di alcune figure di santi del Reliquiario a cofanetto, di bottega longobarda, del Tesoro del Duomo di Cividale del Friuli, datato all’VIII secolo[53].

 

 

 

Ritratto del duca Ratchis in una emissione aurea della zecca di Pavia (744-749).

 

Di sicuro interesse è la conformità tra il disegno elegante e graziato della chiusura della sezione inferiore della tunica e quello della barba “a doppio apice” del ritratto dello stesso Ratchis, in una rara emissione aurea della zecca di Pavia (744-749)[54], la prima nella quale un sovrano longobardo è rappresentato frontalmente. La corrispondenza denota pari gusto per le stesse inusuali geometrie, per le quali si ha ulteriore conferma di un nuovo dato cronologico ad quem, la metà dell’VIII secolo, e di un ambito culturale longobardo. Non solo, tra gli altri riscontri che stringono i due manufatti e danno nuovo vigore alla “pista longobarda”, senza esclusione di persistenze e “contaminazioni” bizantine, si pongono in evidenza la plastica delle palpebre, del naso e dei capelli fortemente calcati sul cranio.

 

 

 

A sx: Formella longobarda del S. Antioco decollato con saturazione elettronica della cromia; a dx: particolare del Risorto dell’Altare del duca Ratchis con restituzione della policromia originaria.

 

I lunghi omeri, non proporzionati ai corti avambracci, richiamano quelli anatomicamente improbabili del Risorto dell’Altare di Ratchis. Sulle maniche si rilevano tracce residue di un leggero pigmento azzurrino che, nell’originaria policromia, investiva la tunica anche nella sezione inferiore (dove avanza solo un vago alone) fin forse agli alveoli (di cui si dirà più avanti), perfettamente intonati come i cloisons delle croci del prospetto posteriore, dello stesso altare di Cividale del Friuli. Il busto si indovina possa essere stato di un tono rosso, perché intriso del sangue martiriale che colava dal collo ferito. Di tutto ciò non resta che un indefinito alone ematico, che si confonde col rosato della vulcanite. Il tono azzurrino richiama quello della tunica del Cristo in maestà dell’Altare di Ratchis, ricavato dall’azzurrite (Armenium o Caeruleum Cyprum) e classificato da Plinio nella sua Naturalis Historia (xxxv, 30) tra i colori florides, i più costosi e ricercati che il committente forniva alla bottega a proprie spese[55]. Non si coglie, se non in piccole aree della capigliatura, alcuna sopravvivenza del sottile strato di calce bianca che, al tempo di Ratchis, veniva steso sull’intera superficie lapidea prima della coloritura[56]. Potrebbe, piuttosto, riconoscersi un residuo di biacca nel pallido incarnato tra l’occhio e la base della gota sinistra. Altre probabili tracce di pigmento di un tenue rosso ruggine, forse delle velature a base di terre naturali e bruciate, simile ma appena più cupo della folta chioma del Risorto del noto altare di Cividale del Friuli, si rilevano nelle fenditure in prossimità della scriminatura centrale. Una auspicabile analisi spettrografica su porzioni di colore superstiti negli interstizi del rilievo, potrebbe convalidare quel che appare a occhio nudo e mettere in evidenza ulteriori tracce di pigmenti non rilevati in questo primo esame di superficie. 

Il braccio destro è segnato da un sospetto foro di pochi centimetri di diametro, a metà dell’omero. Il profilo regolare, che informa questa cavità tra l’arto e l’addome, nega l’ipotesi di una naturale sbrecciatura della pietra, quale appare, invece, quella esterna al gomito. Si crede che possa essere questo il punto di innesto di una palma martirii in pietra o in legno, la prima della vicenda iconografica del santo. Il diffuso attributo – ove si assuma che questo gli sia appartenuto – sembrerebbe posticcio perché estraneo ai modi della scultura altomedievale bizantina e longobarda. Potrebbe essere stato inserito in un tempo nel quale si era persa memoria del valore semantico dei tratti martiristici (“frattura” del collo, guance insufflanti, occhi chiusi, corona e trono di gloria) o forse perché non si reputava più efficace o sufficiente il loro carattere emblematico. L’ipotesi di un rimaneggiamento dell’opera potrebbe essere confutata da una possibile traccia residua dello stesso pigmento steso sull’addome (il rosso ematico) anche nel probabile foro di innesto della palma. In tal caso si avrebbe certezza dell’appartenenza dell’antico attributo ab origine, e la palma assumerebbe allora un carattere convalidante e corroborante del martirio del santo.

 

 

    

 

A sx: Particolare del Pluteo di  Daniele nella fossa dei Leoni (ante 1131), Oristano, duomo di Santa Maria Assunta.  A dx: particolare della Lamina di Agilulfo (590-616), Firenze, Museo Nazionale del Bargello

 

San Lussorio in gloria Domini (1100-20), Fordongianus, chiesa di San Lussorio (foto di M. Zedda).

 

 

Capsella per reliquie, bottega longobarda, (IX-X secolo), Cividale del Friuli, Tesoro del Duomo.

 

Unico esempio, nella iconografia che lo riguarda, Antioco è assiso.  Questo suggeriscono le ampie e larghe falcature della tunica, appena sbozzate con una subbia, analoghe a quelle più serrate del San Michele pesatore di anime di Monte Sant’Angelo e di talune figure stanti (Cristo, la Vergine e altri santi) in una Capsella per reliquie di bottega longobarda, del Tesoro del Duomo di Cividale del Friuli, datata al IX-X secolo[57]. La tunica nasconde un modesto tronetto, forse simile a quello su cui siede (anche lui con i piedi su di uno sgabello) il Daniele nella fossa dei Leoni del noto pluteo di ascendenza bizantina, della cattedrale di Oristano[58], ma anche l’inedito San Lussorio in gloria Domini del ciclo scultoreo dell’omonimo santuario di Fordongianus (1100-20), con le più antiche iconografie anche del Luxorio gran caballero celebrato in un gosos d’epoca spagnola[59]. Il trono ha la sua giustificazione iconologica nel Salmo 113 (vv. 7-8), nel quale si osanna il Signore perchè “solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero, per farlo sedere tra i prìncipi, tra i prìncipi del suo popolo”. È il riscatto dei martiri, del profeta e degli ultimi che in Lui hanno creduto anche nella prova, adesso risarciti da un trono di gloria.

La postura seduta e frontale dipende da un soggetto iconografico, la cennata Maiestas Domini, assai diffuso nella monetazione bizantina e riscontrabile in epoca altomedievale in due manufatti litici longobardi: l’Altare di Ratchis, nel quale il Cristo è in mandorla, anche lui su di un modesto seggio occultato da un’ampia tunica, e nel Cristo in trono tra due angeli e i dodici Apostoli (tutti assisi), della perduta Corona di Agilulfo (590-616)[60]. Lo stesso Agilulfo, ormai cristianizzato, si fa ritrarre come un benedicente Cristo in maestà in un altro pregevole manufatto dell’arte longobarda, noto come Lamina di Agilulfo o Trionfo di re Agilulfo[61]. I suoi piedi poggiano su di un suppedaneo, secondo un modello replicato nel S. Antioco decollato, ma anche nella Vergine con Bambino dell’Adorazione dei Magi del palio laterale destro dell’Altare di Ratchis, dove allude alla “terra sgabello dei miei piedi” ricordata dal Signore nel Salmo 66 (v. 1) di Isaia.

 

 

Pluteo con decoro geometrico alveolato (sec. VII), dalla chiesa di San Saturnino di Cagliari.

 

 

 

Leggi la seconda parte.

 

 

 


[1] Sigillo plumbeo, Ø mm 28,5, 550-650, Oristano, Antiquarium Arborense (cfr. P.G. Spanu – R. Zucca, I sigilli bizantini della Sardegna, Roma 2004, pp. 123-125).

[2] Padre Pili lo definì “megalomartire” vale a dire il “grande martire”, paragonandolo a San Giorgio a indicare la grande diffusione che ebbe il suo culto (cfr. F. Pili, Le meraviglie di S. Antioco martire sulcitano, Cagliari 1984, ristampa a cura di R. Lai, Roma 2010).

[3] Per l’iconografia del santo e l’aggiornata bibliografia: A. Pala, Sant’Antioco sulcitano: il culto, il santuario, le immagini dal tardoantico al barocco, «ArcheoArte. Rivista elettronica di Archeologia e Arte», ii (2013), pp. 183-198, ISSN: 2039-4543. http://archeoarte.unica.it/. A. Pala, L’effige di Sant’Antioco Sulcitano. Iconografia dall’altomedioevo all’età moderna. Nuovi contributi, «Annali dell’Associazione Nomentana di Storia e Archeologia», 2010, pp. 85-92. R. Lai, S. Antioco Patrono della Sardegna tra oriente e occidente, «Annali dell’Associazione Nomentana di Storia e Archeologia», 2011, pp. 34-39. W. Massidda, Raccolta iconografica, in R. Lai – M. Massa, S. Antioco: da primo evangelizzatore di Sulci a glorioso Protomartire ‘Patrono della Sardegna’, intr. del Santo Padre Benedetto xvi, pref. del Cardinale Camillo Ruini, Monastir 2011, pp. 239-270. Si ringrazia Roberto Lai per avere permesso la consultazione di una consistente raccolta di immagini del santo, in certa misura inedite, per le quali si è avuto un quadro più ampio dell’iconografia sin qui nota.

[4] Perduto il testo originale, presso la cattedrale di Iglesias si conserva una trascrizione del 1621 (cfr. R. Lai – M. Massa, S. Antioco: da primo evangelizzatore di Sulci a glorioso Protomartire ‘Patrono della Sardegna’, cit., p. 21).

[5] E. Toda y Güell, Bibliografía Española de Cerdeña, Madrid 1890, p. 113.

[6] A. Pala,  Sant’Antioco sulcitano: il culto, il santuario, le immagini dal tardoantico al barocco, cit., p. 187.  F. Pili,  S. Antioco e il suo culto nel «Process de miracles» del 1593, Cagliari 1982.

[7] S. Bullegas, L’Urania Sulcitana di Salvatore Vidal. Classicità e teatralità della lingua sarda, Cagliari 2004.

[8] S. Vidal, Vida, Martyrio y Milagros de San Antiogo sulcitano, Biblioteca Universitaria di Cagliari, Fondo Baille, 1638 (cfr. G. Pinna, Sant’Antioco. Ricerca e storia dell’identità, Cagliari 2007, p. 124).

[9] “La Mauretania provincia romana (da non confondersi con l’attuale stato di Mauritania) si estendeva dalla zona occidentale dell’attuale Algeria fino all’odierno Marocco, e alla parte settentrionale della Mauritania odierna” (cfr. R. Lai – M. Massa, S. Antioco: da primo evangelizzatore di Sulci a glorioso Protomartire ‘Patrono della Sardegna’, cit., p. 26).

[10] G. Villani, Il culto in Sardegna di Sant’Antioco Sulcitano, «Annali dell’Associazione Nomentana di Storia e Archeologia», 2008, pp. 98-100; R. Lai, Sant’Antioco Patrono della Sardegna. Tra agiografia e leggenda, «Annali dell’Associazione Nomentana di Storia e Archeologia», 2008, pp. 86-90.

[11] Tra le più datate figurazioni del santo con gorgiera si ricorda quella del S. Antioco sulcitano ritratto in una stampa del XVII secolo (cfr. F. Pili, Nuovi documenti sull’antichità della sagra di S. An­tioco, «Speleologia Sarda», lv (1985), p. 2); tra le rare rappresentazioni con la pelliccia di ermellino sotto la tunica (sulla simbologia del bianco mustelide, cfr. J. Hall, v. “ermellino”, in Dizionario dei soggetti e dei simboli dell’arte, Varese 2003, p. 164) e l’astuccio dei medicamenti, si porta l’esempio dell’antico simulacro del S. Antioco martire dal S. Antioco di Bisarcio, 1596, legno policromato, h. cm 175, Ozieri, Museo diocesano di Arte sacra (cfr. M.G. Scano, Pittura e scultura del ’600 e del ’700,  Nuoro 1991, p. 62, sch. 36).

[12] S. Antioco, sec. XVII, legno policromato e tessuto, Iglesias, duomo di Santa Chiara (cfr. Chiesa e arte sacra in Sardegna. Diocesi di Iglesias, II, a cura di G. Murtas, Cagliari 1999,  p. 102).

[13] F. Pili, Le Meraviglie di S. Antioco, martire sulcitano, cit., tav. I.

[14] Giuseppe Zanda, S. Antioco, 1854, legno policromato, Sant’Antioco, chiesa di S. Antioco (cfr. A. Pala,  Sant’Antioco sulcitano: il culto, il santuario, le immagini dal tardoantico al barocco, cit., p. 198, fig. 18).

[15] Il santo è ancora a cavallo nella pergamena del Retablo di San Lussorio, (seconda metà XVI sec.), tempera su foglio cartaceo,  93 x 57 cm, comparto superiore destro, Archivio arcivescovile di Cagliari.

[16] Esta es la vida y miracles del benaventurat Sant Anthiogo novamente corregida y estampada, Barcelona 1890, p. 5.

[17] A. Pala, Sant’Antioco sulcitano: il culto, il santuario, le immagini dal tardoantico al barocco, cit., p. 187 nota 19.

[18] Tra gli esempi del Cinquecento e del primissimo Seicento, di figurazioni del S. Antioco, quasi tutte con l’attributo del turbante, della palma e del Vangelo, si ricordano: il Retablo di San Lussorio, cit.; il Retablo di Sant’Antonio abate, bottega di Michele Cavaro, 1567, polittico, tempera e olio su tavola, 440 x 350 cm, scomparto laterale inferiore a dx, Maracalagonis, chiesa della Beata Vergine degli Angeli; la Pala di Sant’Anna di Girolamo Imparato, 1593, polittico, tempera e olio su tavola,  424 x 313 cm, predella, primo scomparto a sx, Cagliari, chiesa del Carmine. Il Trittico di S. Antioco di Antioco Casula, 1593, olio e oro su tavola, trittico, Cagliari, chiesa della Purissima; la Pala di Sant’Alberto attr. a Francesco Pinna (1593-1607), polittico tempera e olio su tavola incamottata,  610 x 340 cm, scomparto mediano a dx, Cagliari, chiesa del Carmine; il S. Antioco di anonimo sardo, olio su tavola, fine XVI sec.,  67,9 x 41,9 cm, dalla chiesa di San Gabriele arcangelo di Sagama, Cagliari, Pinacoteca Nazionale; l’Ancona del Crocifisso (primo decennio XVII sec., attr. a Bartolomeo Castagnola, compartiment, olio su tavola, Quartucciu, chiesa di San Giorgio; il Retablo di Tratalias di un anonimo, 1596, olio e oro su tavola, predella, comparto a sx, Tratalias, chiesa della Madonna di Montserrat, e l’Affresco di S. Antioco attr. a Francesco Pinna, 1593-1607, Sassari, duomo di San Nicola.

[19] A. Pala, L’effige di Sant’Antioco Sulcitano. Iconografia dall’altomedioevo all’età moderna. Nuovi contributi, cit., p. 86. P.G. Spanu, La Sardegna bizantina tra VI e VII secolo in Mediterraneo tardoantico e medievale. Scavi e Ricerche, 12, Oristano 1999, p. 93.

[20] Uno dei due rilievi, il più antico, può considerarsi inedito seppure pubblicato da Gianfranco Saturno. L’autore non  argomenta le ragioni dell’identificazione agiografica e iconografica ma intuitivamente, sull’errato assunto di una naturale corrispondenza tra il soggetto della formella e il santo titolare della chiesa, confutato dall’esempio dell’inedito rilievo del Cristo guerriero che trionfa sulla morte e sull’inferno nel prospetto di facciata della chiesa di Santa Maria di Cabu Abbas, presso Torralba (di cui si dirà oltre), vi riconosce l’effigie di S. Antioco appartenuta alla più antica chiesa arsa in un incendio (cfr. G. Saturno, Saluti da Ozieri. Antologia fotografica della città e della sua gente attraverso le immagini e il materiale d’epoca della collezione dell’autore, ii, Muros 2007, p. 277). A questo si associa un intervento di Fernanda Poli, che non esclude possa trattarsi di “un Cristo in trono ritagliato a rilevo piatto ed elementare” (cfr. F. Poli, La decorazione scultorea del Sant’Antioco di Bisarcio. Nuovi dati per vecchie attribuzioni, «Sacer», ix (1999), p. 189).

[21] A. Pala, L’effige di Sant’Antioco Sulcitano. Iconografia dall’altomedioevo all’età moderna. Nuovi contributi, cit., pp. 190-191. “Non si può escludere che la basilica di Sant’Antioco potesse essere stata decorata al suo interno anche con figurazioni del santo tito­lare […]. Antonio Corda suggerisce che una rappresentazione del santo, probabilmente insieme ad altri personaggi (altri due o tre), si potesse tro­vare all’interno dell’edificio nel VI secolo, realizzata con la tecnica del mosaico sulla scorta dell’originaria iscrizione musiva […]”, ibi, p. 189.

[22] R. Coroneo, La cultura artistica, cit., p. 90.

[23] Le figure antropomorfiche sin qui note sono più recenti di oltre due secoli e sono rappresentate in una serie di lastre con figure umane di antica pertinenza della basilica sulcitana, datate tra la fine del X e i primi dell’XI secolo (cfr.  M.C. Cannas, Le lastre marmoree di Sant’Antioco con figure umane, «Ricerche sulla scultura medioevale in Sardegna», Università degli studi di Cagliari, Dipartimento di Scienze Archeologiche e Storico-artistiche, ii (2009), pp. 79-114).

[24] Si ringrazia il Lions Club di Ozieri e la locale impresa di costruzioni di Pinuccio e Josè Aini per la disponibilità dell’elevatore, senza il quale non sarebbe stato possibile esaminare da vicino il manufatto.

[25] La proposta cronologica sulla costruzione della galilea è di Raffaello Delogu (cfr. R. Delogu, L’architettura del Medioevo in Sardegna, Roma 1953, pp. 154-155).

[26] Per un approfondimento sulla tipologia della pietra del cantiere di Bisarcio si segnala lo studio di  R. Coroneo – S. Columbu, Sant’Antioco di Bisarcio (Ozieri): la cattedrale romanica e i materiali costruttivi, «ArcheoArte. Rivista elettronica di Archeologia e Arte», (2010), pp. 156-162, ISSN: 2039-4543. http://archeoarte.unica.it/.

[27] G. Lilliu, Presenze Barbariche in Sardegna dalla conquista dei Vandali, in ‘Magistra barbaritas. I Barbari in Italia’, Milano 1990, p. 568.

[28] Le relazioni commerciali tra longobardi e Sardegna sono sostenute dal rinvenimento di monete longobarde a Mandas, Paulilatino, Ossi, Telti, Abbasanta (Nuraghe Losa) e Laerru (ibi, p. 567).

[29] Per una approfondimento sull’utensileria del lapicida medievale si rimanda al saggio di A. Ruggeri, La lavorazione della pietra nella bottega dello scultore medievale, «Ricerche sulla scultura medioevale in Sardegna», Università degli Studi di Cagliari, Dipartimento di Scienze Archeologiche e Storico-artistiche, ii (2009),  pp. 38-39.

[30] Ambone della pieve di San Pietro di Gropina, 825, bottega longobarda, Loro Ciuffena (cfr. V. Moretti, Il pulpito longobardo (sec. VIII) e i capitelli romanici (sec. XII) della Pieve di Gropina: le immagini scolpite nella pietra e i loro messaggi, Cortona  2003).

[31] Esta es la vida y miracles del benaventurat Sant Anthiogo novamente corregida y estampada, cit., p. 28.

[32] S. Antioco sulcitano, sec. XVII, legno policromato, cm 180, Ozieri, Bisarcio, chiesa di S. Antioco (cfr. R. Delogu, L’architettura del Medioevo in Sardegna, cit., tav. civ).lcitano nel Sant’Antioco di Bisarcio

[33] A. Pala, Sant’Antioco sulcitano: il culto, il santuario, le immagini dal tardoantico al barocco, cit., p. 184. 

[34] R. Pili in R. Lai – M. Massa, S. Antioco: da primo evangelizzatore di Sulci a glorioso Protomartire ‘Patrono della Sardegna’, cit., p. 19.

[35] Chiaro esempio di contaminazione iconografica, in conseguenza di una nebulosità agiografica tra santi omonimi, è il simulacro del San Giuliano martire eponimo della parrocchiale di Villanovatulo, che reca nella mano destra la palma del martirio del San Giuliano martire e alla cintura la spada, attributo del San Giuliano ospitaliere (cfr. G.G. Cau, Dorgali. Due campane per San Pantelénon martire, «Sardegna Antica», xliii (2013), p. 12).

[36] Esta es la vida y miracles del benaventurat Sant Anthiogo novamente corregida y estampada, cit., p. 8.

[37] R. Lai – M. Massa, S. Antioco: da primo evangelizzatore di Sulci a glorioso Protomartire ‘Patrono della Sardegna’, cit., p. 35.

[38] Es 28, 2, 4.

[39] San Michele pesatore di anime, formella del Trono Reale, IX-X secolo, pietra gentile, bassorilievo, Monte Sant’Angelo, santuario di San Michele, cappella del Crocifisso. Sulla cronologia della formella si è aperto un dibattito con ampie divergenze e oscillazioni tra l’VIII e il XII secolo. In una breve nota della Guida della Puglia del T.C.I. (Touring Club Italiano, Guida d’Italia, 20, Puglia, Milano 1978, (4. ed.), Milano 1978, pp. 222-223), il bassorilievo a lato della base del Trono Reale è assegnato all’VIII-IX secolo. Per Mario Rotili e Maraclotilde Magni, pur considerando che l’iconografia del San Michele pesatore di anime è piuttosto tarda, la formella è del IX sec. (cfr. M. Rotili, La diocesi di Benevento, Corpus della Scultura Altomedioevale, v, Spoleto, 1966, nota 104; M. Magni Tradizione e originalità nell’opera dei costruttori e dei lapicidi, in I Principati Longobardi,  Civiltà del Mezzogiorno, Milano 1982, p. 101). Per Giovanni Tancredi e Ciro Angelillis è del IX-X secolo (cfr. G. Tancredi, Montesantangelo monumentale, Monte Sant’Angelo 1932, p. 57; C. Angelillis, il Santuario del Gargano e il culto di S. Michele nel mondo, i, Foggia 1955, pp. 266-273). Per Mariarosaria Salvatore non può essere databile prima dell’XI sec. (cfr. Le sculture del Museo del Santuario, in Il Santuario di S. Michele sul Gargano dal VI al IX secolo, a cura di C. Carletti e G. Otranto, Bari 1980, p. 458, note 9-10). Per May Veillard-Triekouroff “dovrebbe essere della seconda metà del XI secolo” (Recensione a M. Rotili, La diocesi di Benevento, cit., «Cahiers Archéologiques », 18 (1968), pp. 267-268). Secondo Pina Belli D’Elia sarebbe databile al pieno XII sec. (cfr. Alle Sorgenti del Romanico, Puglia XI secolo, catalogo a cura di P. Belli D’Elia, Bari 1975, nota 43). In sintesi: su otto interventi, solo la Guida del Touring Club Italiano la reputa databile tra VIII e IX sec.; la maggior parte degli studiosi (quattro) la colloca tra il IX e il X sec. (Tancredi, 1932; Angelillis, 1955; Rotili, 1966; Magni, 1982); due all’XI sec. (Veillard-Triekouroff, 1968; Salvatore, 1980); una (Belli D’Elia, 1975) al XII sec.

[40] Lunetta con Cristo in gloria tra gli arcangeli Michele e Gabriele, e i Santi Pietro e Paolo, IX-X secolo, marmo, bottega tardolongobarda, Tolentino, duomo di San Catervo (cfr. D. Simoni, Antiche testimonianze artistiche nella cattedrale di San Catervo, in La chiesa di San Catervo a Tolentino arte storia spiritualità, a cura di G. Semmoloni, Tolentino 2007, pp. 95-97).

[41] G. Otranton – C. Carletti, Il Santuario di S. Michele sul Gargano, dalle origini al x secolo, Bari 1995, p. 41.

[42]Culto e santuari di San Michele nell’Europa medioevale, Culte et sanctuaires de Saint Michel dans l’Europe médiévale, a cura di P. Bouet, G. Otranto, A. Vauchez, Bari 2007,  pp. 266-267.

[43] Per quanto non risolutivo al fine di stabilire una più precisa cronologia e una matrice culturale di riferimento, non si può non porre in evidenza l’analogia tra il disegno delle ciocche di capelli, a semicerchi ellittici concentrici, che coronano il volto del San Michele di Monte Sant’Angelo e quelle di un solido di Liutprando, battuto nella zecca di Benevento, nel periodo 751-755.

[44] Il Volto del Cristo morto parrebbe parte di un trilogia che include un Volto del Cristo nella xxx arcatella (a trent’anni il Cristo iniziò la predicazione) e un Volto del Cristo nella xxxv arcatella, entrambi con gli occhi aperti. In quest’ultimo caso, ogni arcatella esprimerebbe il valore di un arco di tempo pari a un giorno: se la xxxiii arcatella è il Venerdì Santo del Cristo morto, ragionevolmente la xxxv sarà la Pasqua con il Volto del Cristo risorto. Le restanti trentotto racchiudono delle croci, delle mammelle (simbolo di fertilità) o, più spesso, delle rosette allusive al profumo del sangue eucaristico, intimamente connesso alla vicenda messianica.

[45] Esta es la vida y miracles del benaventurat Sant Anthiogo novamente corregida y estampada, cit., p. 22.

[46] M.C. Cannas, Le lastre marmoreee di Sant’Antioco con figure umane, cit., p. 28.

[47]Altare del duca Ratchis, 737-744, (palio frontale: Ascensione di Cristo; palio dx: Adorazione dei Magi; palio sx: Visitazione di Maria ad Elisabetta; palio posteriore: Due croci gemmate a raggi patenti), bottega longobarda, pietra di Aurisina scolpita,  96 x 144 x 96 cm, Cividale del Friuli, Museo Cristiano e del Tesoro del Duomo (cfr. L. Chinellato, L’Altare di Ratchis, in V. Pace (a cura di), L’VIII secolo: un secolo inquieto, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Cividale del Friuli, 4-7 dicembre 2008, Udine, pp. 83-91).

[48] Tra i numerosi solidi bizantini, riconducibili a questa tipologia, si ricordano quelli coniati dai seguenti imperatori: Giustiniano ii, primo regno (685-695); Basilio i il Macedone e Costantino vii (868-879); Michele iii l’Ubriaco (842-867); Alessandro (912-913); Romano i Lecapeno e Cristoforo (921-931); Romano iii Argiro (1028-1034); Costantino ix Monomaco (1042-1055); Michele vii Dukas (1071-1078).

[49] Il tema dell’orante ha dei precedenti in epoca altomedievale nell’Altare del duca Hilderico  (739-742, bottega longobarda, paliotto anteriore intitolato ai Santi Pietro e Paolo, cm 93 x 120, Ferentillo, abbazia di San Pietro in Valle)  e in una formella della chiesa di Santa Maria in Ferrata di Campagnano Romano (epoca altomedievale, travertino locale, cm 37 x 58 x 18,5, Campagnano Romano, Archivio storico comunale), dove lo stesso mostra la bocca aperta, col cavo orale tinto di un tono rosso corallino (cfr. Corpus della scultura altomedioevale, ix, La Diocesi di Arezzo, a cura di  A. Fatucchi, Spoleto 1977).

[50] Esta es la vida y miracles del benaventurat Sant Anthiogo novamente corregida y estampada, cit., pp. 27-28.

[51] A. Pala, Sant’Antioco sulcitano: il culto, il santuario, le immagini dal tardoantico al barocco, cit., p. 188.

[52] Juan Maria Scaleta, S. Antioco, 1718, olio su tela, cm 135 x 85, Iglesias, duomo di Santa Chiara (cfr. Chiesa e arte sacra in Sardegna. Diocesi di Iglesias, cit., pp. 100, 103, 105; M.G. Scano, Pittura e scultura del ’600 e del ’700, cit., p. 229, sch. 186).

[53] Reliquiario a cofanetto, con elementi zoomorfici, il Crocifisso, la Natività e varie figure di santi, lamina di argento sbalzata e pietre preziose, bottega longobarda, sec. VIII, Cividale del Friuli, Tesoro del Duomo (cfr. A. Perroni, L’arte nell’età longobarda. Una traccia, in Magistra barbaritas. I Barbari in Italia, cit., pp. 254-255, fig. 148).

[54] Emissione aurea della zecca di Pavia del regno di Ratchis, 744-749, gr. 1,28, Ø mm 22, Roma, Museo nazionale Romano, gabinetto numismatico, coll. di Vittorio Emanuele iii (cfr. E. A. Arslan, La monetazione di Ratchis, re dei longobardi: Dubbi e problemi, «Acta numismatica» 21-22-23, Societat Catalana d’estudis numismàtics, filial de l’Istitut d’Estudis Catalans, Barcellona, 1993, pp. 337-340).

[55] Per un approfondimento sulla tecnica pittorica e sulla policromia dell’Altare di Ratchis, oggetto di recenti studi, si veda il saggio di L. Chinellato – M.T. Costantini, L’Altare di Ratchis: proposta per la ricostruzione dell'originaria finitura policroma, «Vultus Ecclesiae», vi (2005), pp. 7-17.

[56] Ibi.

[57] Capsella per reliquie con figure di santi e motivi fitomorfici , lamina di argento sbalzata, pietre preziose e avorio, bottega longobarda, IX-X secolo, Cividale del Friuli, Tesoro del Duomo.

[58] Daniele nella fossa dei leoni, ante 1131, cm 84 x 148, bassorilievo in marmo, Oristano, duomo di Santa Maria (cfr. R. Coroneo, in R. Serra, Pittura e scultura dall’età Romanica alla fine del ’500, coll. ‘Storia dell’arte in Sardegna’ diretta da Corrado Maltese, Sassari 1990, p. 17, sch.1).

[59] G.P. Mele, San Lussorio nella storia: culto e canti: origini, Medioevo, età spagnola, in Santu Lussurgiu: dalle origini alla "Grande Guerra”, a cura di G.P. Mele, Nuoro 2005, pp. 3, 26-28. Per maggiori dettagli sull’inconsueta iconografia del San Lussorio in gloria Domini e le altre figurazioni del santo si rimanda alla nota 83.

[60] Corona di Agilulfo (590-616), rubata a Monza in seguito alle requisizioni francesi di fine Settecento, fu fusa dai ladri nel 1804. È nota per il tramite di un accuratissimo disegno realizzato nel XVIII secolo in un codice conservato a Vienna, che ne riproduce lo sviluppo orizzontale (Biblioteca Nazionale, Codice Vindob, Pal 6198).

[61] Lamina di Agilulfo, 590-616, lamina lavorata a sbalzo con rifiniture a cesello e dorature,  18,9 x 6,7 cm, Firenze, Museo nazionale del Bargello, inv. n. 681 (cfr. G. De Francovich, Il problema delle origini della scultura cosiddetta “longobarda”, in “Atti del i Congresso internazionale di studi longobardi, Spoleto 1951”, Spoleto 1952, pp. 254-273).

[62] La tecnica orafa detta cloisonné, altrimentilustro di Bisanzio”, consiste nel creare, tramite dei sottili nastri d’oro o di altro metallo prezioso saldati sulla lamella di fondo, dei compartimenti (cloisons) colmati con paste vetrificabili dai colori squillanti. Tra gli esempi coevi più rappresentativi, si porta la Fibula longobarda (sec. VII, oro, argento, pietre dure, 4,4 cm) del Museo archeologico nazionale  di Cividale del Friuli.