di Gian Gabriele Cau

Estratto da «Almanacco Gallurese» n. 19 (2011-2012), pp. 382-386.

 

Nonostante il costante interesse di numerosi studiosi intorno all’epigrafe documentale sull’ingresso Sud della chiesa campestre di S. Stefano in agro di Oschiri, il manufatto, per il rilievo di minime, rare note bibliografiche, può considerarsi inedito[1]. L’iscrizione è incisa su di una lastra trachitica dal profilo quadrangolare irregolare, forse un frammento di un’antica architrave timpanata romanica, larga e alta  al massimo cm 97 x 24,5 cm.  Sulla stessa insiste la testa di una figura maschile con in capo una pietra squadrata (altezza cm 20, larghezza cm 17, profondità cm 10) nella quale è facile cogliere un’allusione, non priva di una certa enfasi, al sasso della lapidazione che tipicizza l’iconografia di S. Stefano protomartire, patrono della chiesa. La superficie picchettata non agevola la lettura di una scrittura di per sé ostica, articolata su tre righe, in caratteri tardomedioevali con taluni accenti gotici, in alternanza maiuscoli e minuscoli, talvolta stretti in un nesso, nella quale convivono reminiscenze di un latino ecclesiastico e di un logudorese ancora attuale.

 

Prospetto sud della chiesa di S. Stefano di Oschiri, con frammento di architrave timpanata.

 

 

Interno della chiesa di S. Stefano di Oschiri, abside e monofora romanica e arcate gotico-aragonesi.

 

Nella sezione superiore, mediano è l’‘yhs[sus]’, il trigramma cristologico di S. Bernardino da Siena, rappresentato da una ‘Y’, da una ‘h’ minuscola, crociata e bifida all’apice, e una ‘S’ in controparte con gli uncini ben segnati. Nella seconda riga è una sequenza di lettere, ‘m°cccclxxxxii’, che con talune deviazioni dalla norma canonica, assai comuni in epoca tarda, indica nel 1492 l’anno nel quale è stato edificato il tempio, nelle note forme del gotico aragonese. Tra questi scostamenti è la ‘o’ che sovrasta la ‘m’, contrazione di ‘m[illesimoquadrigentesimononagesimosegund]o’ e la sequenza di quattro ‘c’ e quattro ‘x’, le prime accorpate da una sovrastante doppia marcatura, di cui una tangente l’apice delle lettere, le seconde a scalare, con un vezzoso orecchio inverso all’apice della seconda asta obliqua e una sorta di minuta grazia all’estremo opposto, che denota una ricerca estetica dall’esito incerto. Chiude l’appunto cronologico la consueta formula ‘a[nno] d[omi]ni’, ‘anno del Signore’, fissata nella sigla ‘a’ e in una abbreviatura per contrazione, ‘dni’, con la ‘n’ maiuscola. E’ questa la sola ‘a’ minuscola riscontrata in tutto il testo; le sei successive sono maiuscole, anche se all’interno di un termine espresso in minuscole o misto. L’abbandono del minuscolo, in questo caso, e non solo, sarebbe motivato dalla grafica curvilinea più impegnativa a tracciarsi sulla pietra di quanto non lo fosse la rettilinea spezzata, maiuscola.

 

 

 

Epigrafe documentale edificatoria della chiesa di S. Stefano di Oschiri.  (Foto e rilievo grafico  di Gian Gabriele Cau; disegno di Gian Domenico Fenu)

 

 

Per comodità di ragionamento si tralasciano, per il momento, i caratteri seguenti e si passa all’esame della terza riga, recante il nome del vescovo che governava la Diocesi di Castro in quell’anno, Giovanni Crespo frate degli eremitani agostiniani. In apertura è un segno grafico assai simile alla cifra araba ‘9’, che nei dizionari delle abbreviature medioevali indica l’avverbio latino ‘cum’, ‘quando, allorchè’[2]. I titoli del prelato sono espressi da una doppia sigla, una ‘e’ maiuscola stretta in un nesso con una ‘f’ minuscola, per ‘e[piscopus]  f[rater] ’ e da due lettere, ‘as’, con la ‘s’ inversa come quella del trigramma in capo, ma in corpo minore e priva di uncini, abbreviatura per contrazione pura di ‘a[gostinianu]s’. Seguono le lettere ‘cpo’ contrazione impura di ‘c[res]po’ e ‘ioan’ abbreviatura mista di ‘io[h]an[nes] ’ Chiudono il testo epigrafico una ‘f’ e una ‘u’, contrazione pura del sardo ‘f[raig]u’, ‘fabbrica, costruzione’, e un’inusuale formula, ‘ma fatu’ che è la traduzione del latino ‘me fecit’, talvolta apposta su di un manufatto architettonico, pittorico, scultoreo, incisorio, di norma dall’artefice. Nella fattispecie, la presenza di un secondo nome riferito nella seconda riga e indicato come ‘mar’ abbreviatura mista di ‘ma[st]r[u]’[3], ‘maestro’, porta all’identificazione del capomastro attivo nella fabbrica di S. Stefano. In evidenza  la ‘r’ con un singolare orecchio sull’occhiello, segno di una rielaborazione grafica in linea con le invenzioni espresse sulle precedenti ‘x’. Quale riscontro strettamente locale del titolo di ‘mastru / mastros’ si porta l’inedito ‘hoc opus fieri fecit hc operariu ihs sano 160z  m[ast]ros mg * ec * ig * vil[l]a portigale’ dell’architrave dell’ex parrocchiale di S. Giorgio di Balanotti, presso Oschiri, che attesta la commissione della chiesa da parte dell’obriere in carica nel 1602 a tre maestri della villa di Bortigali, dei cui nomi e cognomi sono riferite solo le iniziali.

Sulla reale identità dell’artigiano impegnato nell’edificazione della chiesa oschirese si possono avanzare ipotesi attendibili, formulate sullo scioglimento pressoché integrale delle ultime lettere della prima riga, riunite in due raggruppamenti, ‘bu’ e  ‘mai’, il nome preposto al cognome. Si esclude l’ipotesi di abbreviatura per troncamento apocope e per contrazione mista, per la quale si avrebbe una evoluzione dai molteplici esiti; e questo non tanto per il riscontro di ‘c[res]po’ nello stesso testo, ma anche e soprattutto perché solo una abbreviatura per contrazione (pura o impura), con l’esplicazione delle lettere estreme, avrebbe consentito una più facile identificazione dell’artefice, soddisfacendo il suo desiderio di dichiararsi.

All’interno dell’abbreviatura per contrazione impura ‘bu’, si distingue una ‘b’ con asta bifida all’apice, sulla quale insiste, tra l’asta e l’occhiello, un trattino appena arcuato. Il segno è attestato nei dizionari delle abbreviature come abbreviazione per troncamento della desinenza latina ‘…bus’[4]. Nel caso in esame l’uso improprio è giustificato dalla necessità di contrarre, per evidenti ragioni di economia grafica, il nome sardo maschile, ‘b[ustian]u’, ‘Sebastiano’, il solo che ha principio per ‘b[us]’ e termina in ‘u’. Nel secondo gruppo, la presenza di un trattino lineare, sovrastante tra la ‘m’ e la ‘ai’ indica l’omissione di alcune lettere, per contrazione impura di uno dei rari cognomi sardi che inizia con la ‘m’ e termina in ‘ai’. Per la maggiore diffusione si privilegia ‘m[urr]ai’, che nella provincia gallurese, tra Oschiri e Olbia, ha oggi la sua massima concentrazione, piuttosto che ‘m[an]ai, m[ann]ai, m[ag]ai, m[ir]ai, m[all]ai, m[ell]ai, m[i]ai’ o ‘m[androlis]ai’, la cui attestazione nel Nord Sardegna e nella stessa area geografica è meno documentata o totalmente sconosciuta.

Alla luce di queste premesse il testo epigrafico, sciolte ove possibile le abbreviature, si trascrive in: ‘+ yhs[sus] / m°cccclxxxxii  a[nno] d[omi]ni ma[st]r[u]  b[ustian]u  m[urr]ai / cum  e[piscopus]  f[rater]  a[gostinianu]s  c[res]po   ioan[nes]  f[raig]u  ma  fatu’, da tradursi in ‘+ Nel nome di Gesù, nell’anno del Signore 1492, il maestro Sebastiano M(urr)ai, allorché (era) vescovo il frate agostiniano Crespo Giovanni, mi ha edificato (alla lettera: fabbrica mi ha fatto)’. Tra le epigrafi più prossime, qualora vi fosse necessità di una ulteriore conferma, si porta ad esempio quella della duecentesca chiesa di S. Maria di Trattalias, presso Carbonia: ‘anno d[omi]ni mcclxxxii d[omi]n[u]s  mu[r]das/[c]us  ep[iscop]us  sulciensies  d[e]  domo sismundorum / d[e]  pisis  me fecit  fabric/ari  p[er]  magistrum  guan/tinum  cavallinum  d[e] stanpace’[5].

Di Giovanni  Crespo vescovo di Castro tra la fine del 1590 e il 1593 circa – scrive Francesco Amadu[6] – è noto che nel 1591 si associa all’arcivescovo turritano in un appello al Papa per l’imposizione da parte di Ferdinando il Cattolico di una tassazione di 100 fiorini, la stessa somma addebitata alle sette più piccole diocesi sarde, giudicata lesiva dell’immunità ecclesiastica. Pur tra qualche malumore, per il paventato rischio della confisca di beni, il vescovo di Castro è costretto a rimettere il richiesto al sovrano. Nel 1593, quindi, forse per una supplica dello stesso sovrano, il papa Alessandro vi trasferisce Giovanni a Suelli, dove risiederà fino al 1507[7].

 

Rilievo romanico del volto di una figura maschile (forse S. Stefano) sul portale del prospetto ovest.

 

Nella pergamena di consacrazione della chiesa, rinvenuta negli anni Sessanta del secolo scorso all’interno dell’altare, si attesta che: “Anno M°D.III  XXV. Aprilis. Ego Antonius Dethoro Episcopus Castrensis consacravi ecclesiam et altare hoc in honorem Sancti Stefani. Et reliquias Beatorum martirum Naboris et Felicis et Laurentii in eo inclusi. […]”[8]. E’ dunque Antonio Dethoro e non Giovanni Crispo il vescovo che consacra, o forse riconsacra, la fabbrica portata a compimento dal capomastro in epigrafe. Si ha, infatti, ragione di credere che la chiesa fosse giù officiata nel 1492, e l’Eucarestia celebrata sulla mensa di un antico altare appartenuto ad un preesistente tempio romanico, di cui avanzano: il rilevo del volto maschile sul portale principale, ela minuta abside emergente, a catino, la monofora strombata all’esterno sul prospetto Sud e un concio di spoglio pressoché cubico (opus quadratum), il primo

 da sinistra della panca litica aggettante la facciata principale, sul quale sono quattro cerchielli in croce del tutto dentici alle ‘o’ dell’epigrafe e incisi dallo stesso scalpellino, e la stessa lastra epigrafica molto probabilmente un frammento di una primitiva architrave timpanata[9].

 

Tra l’episcopato del Crespo e quello del Dethoro, nel periodo fra il 1493 e il 1502 si succedono sulla Cattedra di Castro altri due vescovi, Melchiorre de Tremps (1493-1496) e Giovanni Garsia (1496-1501) del monastero di San Michele di Fluivano della Diocesi di Gerona in Catalogna, dei quali «sappiamo poco o nulla oltre il nome»[10]. Se nessuno dei due prelati consacra la chiesa di S. Stefano è perché è credibile che non sia mai stato a Castro. L’obbligo di residenza è sancito solo dall’ultima sessione del Concilio di Trento del 1563; fino a quella data l’ordinario si fregiava del titolo e riscuoteva le rendite, trascurando in certa misura gli obblighi pastorali. Sembrerebbe convalidare questa ipotesi la visita ‘ad limina’ a Roma che il Garsia compie nel 1500 non personalmente, ma per mezzo del suo procuratore Giovanni Gomez, prete della Diocesi di Segorbe, che denota una scarsa propensione agli spostamenti e una sua più che probabile permanenza in Spagna, dopo l’assegnazione della sede di Castro[11].

 


[1] Nel giugno 2008 in una pubblica conferenza tenuta ad Oschiri, l’oristanese Gigi Sanna propose, senza dimostrarlo, la seguente trascrizione:  «Nell’anno del signore 1492, essendo Allodu maiore (della villa di Oschiri), donna Masala fonda la chiesetta in onore di Santo Stefano». Più comunemente è stata da molti ritenuta di epoca bizantina.

[2] A. Cappelli, Dizionario di Abbreviature latine ed italiane, Milano 2001, p. 68.

[3] Non si esclude lo scioglimento anche in ‘ma[giste]r’; tuttavia per i precedenti locali di Sorres e Balanotti, e per la più convincente concordanza con gli altri termini dello stesso periodo espressi in lingua sarda, si privilegia  ‘ma[st]r[u]’.

[4] A. Cappelli, Dizionario di Abbreviature latine ed italiane,cit., p. 30.

[5] R. Serra, La Sardegna [‘Italia romanica’, x], Milano 1989, p. 99.

[6] F. Amadu, La Diocesi Medioevale di Castro, Ozieri 1984, p. 141.

[7] R. Turtas, Storia della Chiesa in Sardegna, dalle origini al Duemila, Roma 1999, p. 843.

[8] L’atto della consacrazione è ricordato in una pergamena dell’archivio parrocchiale di Oschiri, cfr. F. Amadu, La Diocesi Medioevale di Castro, cit., p. 158.

[9] La geometria del profilo snello riecheggia quella in situ dei portali della chiesa romanica di S. Paolo a Milis (1140-1220).

[10] [10] F. Amadu, La Diocesi Medioevale di Castro, cit., pp. 141-142.

[11] Ibidem, p. 141, nota 29.