di Gian Gabriele Cau

«Pius appo dadu a su pintore de patada pro caparra de sos quadros qui faguet trinta liras vinti liras n[aro] vinti liras» . Con questa brevissima, incerta nota, appuntata il 14 gennaio 1648  da «Juani Austinu Carta Canu» amministratore di S. Elena imperatrice parrocchiale di Benetutti, esordisce nella storia dell’arte figurativa sarda un anonimo di Pattada. Il contabile tentenna, scrive «trinta liras», ma forse gli paiono troppe o non ne dispone a sufficienza, e con occulatezza rettifica: «vinti liras». Tale è il valore di una capparra per un numero allora non dichiarato nè tematicamente definito di quadri. Si dovrà attendere il consuntivo di spesa del 1650 per avere ragione di «sessanta liras» riconosciute, credibilmente a saldo, ancora «a su pintore de patada p[ro] sos quadros de su Ispiridu S[an]tu et purgadoriu» .

Ottanta lire quale compenso totale per la realizzazione di due tele, i cui soggetti potrebbero essere stati suggeriti dallo stesso artefice. Il sospetto nasce dal riconoscimento nelle stesse opere di un eguale antico culto a Pattada (dove l’anonimo risiedeva e della cui cultura, anche religiosa, si era nutrito), attestato da due  oratori, l’uno dello Spirito Santo e l’altro della SS. Vergine del Carmelo, soggetto affatto estraneo a questa vicenda, «dov’è – scriverà Vittorio Angius a metà Ottocento – gran concorso di novenanti e si pratica molta religione» .

E’ evidente come l’espressione «purgadoriu» sia sintesi di un episodio strutturato, nel quale le anime penitenti non sono le sole protagoniste, ma sottintende l’esistenza di uno o più intercessori, di norma la Madonna sovente invocata da uno o più santi. L’esame stilistico, compatibile con il dato cronologico documentale acquisito, porta all’identificazione del quadro de «su pintore de Patada» nella Madonna del Carmelo con Bambino, S. Elena, angeli e anime purganti un olio su tela di 180 x 110 centimetri, restaurato pochi anni addietro e allogato nella sagrestia della parrocchiale di Benetutti, tra le tavole del polittico di S. Elena imperatrice di Andrea Sanna detto ‘il Maestro di Ozieri’.

 

Le più antiche testimonianze del culto della Visione del purgatorio risalgono alla seconda metà del Cinquecento, all’epoca della Controriforma. Lo schema che qui si ripropone è tra quelli all’epoca più diffusi e prevede una scena partita in due sezioni da una coltre leggera di nubi, che distingue lo spazio della redenzione da quello della gloria. Nella parte inferiore è una fornace ardente, fra le cui fiamme sono le anime purganti in lacrime, prime tra tutte e in progressione gerarchica, un pontefice, un vescovo e un semplice chierico, individuato per la tonsura. Nella superiore e nella striscia di frontiera, angeli festosi ritirano i purificati e li presentano al Cristo e alla Vergine interceditrice. Una ulteriore raccomandazione è qui invocata da una S. Elena vestita di porpora con mantellina di ermellino maculato e in spalla l’attributo della croce rinvenuta. Deposta a terra la corona, la madre di Costantino abdica lo status di imperatrice e ha il capo coperto di un semplice telo riverenziale, al cospetto della Regina Coeli.

La Madonna col Bambino della tela di Benetutti ha un preciso riscontro nell’iconografia della Vergine di Monte Carmelo detta la ‘Vergine Bruna’, della basilica-santuario del Carmine Maggiore di Napoli. Di un incarnato scuro, e per questo considerata nel novero delle Madonne Nere, è forse la più antica immagine nota della ‘Madonna del Carmine’, traslata, secondo tradizione, nell’XI secolo in Europa dall’eremo del Monte Carmelo in Palestina, per sottrarla alla predazione saracena. In realtà, la Bruna, una tempera su tavola di 100 x 80 centimetri, forse di scuola toscana del XIII secolo, è un’icona del tipo detto ‘della tenerezza’ o ‘eleusa’, per il Bambinello che ‘coccola’ il volto di Maria ed esprime compiacimento per l’opera corredentrice della madre. Tra i suoi attributi più frequenti è la coltre di nuvole che rimanda all’esperienza del primo profeta d’Israele, Elia, il quale dal Monte Carmelo ebbe la visione della venuta della Vergine, che si alzava come una piccola nube dalla terra verso il monte, portando la pioggia e salvando Israele dalla siccità .

La storia narra che il 16 luglio del 1251 la Madonna circondata da angeli e con il piccolo Gesù in braccio sia apparsa al primo Padre generale dell’Ordine carmelitano, beato Simone Stock, al quale diede lo scapolare col «privilegio sabatino», ossia la promessa della salvezza dall’inferno, per coloro che lo indossano e la sollecita liberazione dalle pene del Purgatorio, il sabato seguente alla loro morte. Si avviò così un culto verso Maria interceditrice, additata come ‘la Stella Polare, la Stella Maris’ del popolo cristiano, titolo emblematicamente anche qui rappresentato dalla stella con coda pendula del manto. Per la promessa fatta con lo scapolare, la stessa è onorata anche col titolo di ‘Madonna del Suffragio’ e non di rado, nella pittura del Seicento, è raffigurata – come in questo caso – nella missione salvifica dalle fiamme dell’espiazione. Tra gli esempi viciniori, approssimativamente coevi, si ricordano: la Madonna con Bambino, san Pietro, san Paolo e le anime del purgatorio di Ascensidonio Spacca , la Madonna con Bambino, san Francesco d'Assisi, santa Chiara da Montefalco e le anime del purgatorio  e la Madonna con Bambino e le anime del purgatorio entrambe attribuite al Pittore della pala Spetia .

 

La riproduzione qui in controparte della Bruna e la libera attribuzione delle cromie del manto e della veste della Vergine dichiarano l’apprendimento veicolato da una stampa o forse da uno scapolare effigiato, il principale tramite di diffusione dell’antica iconografia della Madonna del Carmine. Nella maniera del pittore di Pattada si rilevano ripetute incoerenze luministiche e prospettiche, una certa imperizia nel disegno e un disquilibrio scenico, con aree sovraffollate e vuote campiture di sfondo. Escluse maggiori pretese, la tela di Benetutti – forse la più antica traduzione isolana, superstite della Vergine Bruna – ha valore quale non comune, definita espressione di una cultura popolareggiante di periferia, della prima metà del Seicento sardo, ma in linea con gli indirizzi cultuali dettati dalla Controriforma, di cui l’illustrazione del pentimento, l’atmosfera e i colori cupi sono efficace rappresentazione.

Anche in assenza di una attestazione diretta sulla identità anagrafica dell’anonimo, si crede di poterlo riconoscere nel «Joanne Fadda» coniugato con «Andriana de Querqui Asole» e documentato a Pattada tra il 1625 e il 1654  nei Quinque libri del paese . Dalla loro unione nacquero almeno sette figli, censiti nel locale registro dei battesimi: «Caderina» (il 23.10.1625) , «Andria» (il 7.02.1628) , «Salvadore» (il 15.02.1630) , «Pera Joan» (il 4.03.1631) , «Pasca» (il 26.12.1635) , «Madalena» e «Joanne» (cresimati il 28.04.1647 ), e forse «Maria» documentata tra il 1664 e il 1669 . Rimasto vedovo, nel 1647 circa Giovanni Fadda si sarebbe risposato con «Maria Sotgiu» , dalla quale avrebbe avuto almeno altri tre figli: «Pietro» (battezzato il 22.01.1647 ), «Antonina» (il 19.11.1648)  e «Joanna Maria» (il 28.02.1654) .

In tutti gli atti che lo riguardano (quattordici nell’arco di trent’anni, e tra questi, quale padrino, il battesimo di «Mateu Chenade» il 4.04.1629 ) «Joanne Fadda» è di norma indicato con il cognome paterno e mai come «Joanne Pintore» titolo professionale ad uso di pseudonimo. Solo in occasione del conferimento del primo sacramento al suo terzogenito «Salvadore» nel 1630, egli appare con un singolare «de Inperu», che apre nuovi orizzonti di ricerca . Privo di altro riscontro in ogni epoca della storia del centro montano, «Inperu» è l’adattamento sardo del cognome italiano «Impero» , che proprio a Napoli e dintorni ha oggi la sua maggiore diffusione e, credibilmente, la sua origine storica, così come è quella del pittore napoletano Girolamo Imperato, col quale condivide l’etimo, documentato a Cagliari nel 1594 per la realizzazione della Pala di S. Anna della chiesa del Carmine . Si può facilmente convenire che «Inperu» sia il cognome della madre, di probabili origini napoletane, dove lo stesso Giovanni – piace crederlo – potrebbe avere conosciuto la più nota e amata icona mariana partenopea.

L’indizio che sostiene l’identificazione proposta nasce dal cognome della sua primogenita «Caderina», coniugata con «Pedru de Senes Pilu Tusu», che in sei registrazioni del battesimo o della cresima dei figli, annotate tra il 1650 e il 1667 , è indicata come «Caderina Pintore» e solo nel 1665 quale «Caderina Asole Fadda» . Analogamente il nome della quintogenita, coniugata con «Joane Bargu» o «Andria Argiu» , spazia da «Madalena Pintore» (tre volte)  a «Madalena Asole» , a «Madalena Fadda»  e «Madalena Asole Pintore»  in altrettante registrazioni al battesimo o alla confermazione dei figli, tra il 1654 e il 1676. In entrambi i casi «Pintore» non ha corrispondenza in nessuno dei cognomi della linea genealogica paterna («Fadda – Inperu») e materna («Asole – Querqui»). Per deduzione, quindi, non può essere che un soprannome attinente all’attività professionale rappresentata, ragionevolmente – in quanto attribuito ad entrambe le sorelle – quella del loro padre.

 

 Dal 1623 (quando ha inizio il più antico libro dei battesimi del paese) al 1650 (allorché «Caderina Pintore» battezza il primogenito), un periodo lungo 27 anni – tanto quanto lo spazio di una generazione – non si coglie a Pattada altro «Pintore» che la figlia di Giovanni Fadda. Si esclude, infatti, altra «Caderina Pintore» moglie di «Franciscu de Siny», che il 13.09.1636 battezza il figlio unico «Salvadore» , perché originaria «de Saliguera»  e perciò priva di ulteriore parentela nel paese del marito. E’ questo un primo valido riscontro di questo assunto, perché è documentalmente dimostrata l’assenza di un casato ‘Pintore’ stabilmente residente nel paese, nel secondo quarto del XVII secolo. La strettissima concordanza cronologica tra il saldo reso nel 1650 a «su pintore de patada» e la prima attestazione nello stesso anno e nello stesso centro montano dello pseudonimo di «Pintore», sostenuta dalla napoletanità del soggetto iconografico rappresentato, autorizza l’identificazione dell’anonimo di Benetutti in «Joanne Fadda de Inperu», l’unico pittore pattadese di sospetta origine partenopea – e non solo – attivo intorno alla metà del Seicento, di cui si abbia notizia.

 Il 19 agosto 1662 «Juan Bap.ta Carta Farina sacerdotte et oberaju» annota nello stesso registro dei conti della parrocchiale di Benetutti: «pius appo dadu a su Pintore qui at pintadu ditu Sacrariu heo caxione degue liras»   e nel 1663, forse a saldo, «a su pintore pro su retractu de su padre eternu in su Sacrariu 20 liras e 10 soddos» . L’omissione dell’origine del pittore non esclude né consente l’attribuzione allo stesso artefice, la cui sola opera nota è questa Visione del Purgatorio.

 

Il saggio è stato pubblicato (con corredo di note) in "Sardegna Antica" n. 36  (1° sem. 2010)