di Gian Gabriele Cau

 

Estratto da: «Theologica & Historica.

Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna», n. XIX (2010), pp. 239-255

 

Tra i più pregevoli arredi di remota pertinenza della parrocchiale di Santa Maria del Regno di Ardara, in provincia di Sassari in Sardegna, si considera una tempera e oro su tavola (cm 215 x 137), in bibliografia nota come Madonna della Misericordia, confluita nella prima metà del Novecento nella collezione del Castello Reale del Wawel di Cracovia, in Polonia[1]. Il dipinto, nel quale Federico Zeri ha riconosciuto la più antica opera superstite, attribuita a Giovanni da Gaeta documentato tra il 1448 e il 1472[2], insistette sulla mensa dell’altare maggiore del tempio romanico forse per  poco più di mezzo secolo, di certo non oltre il maggio 1505, quando già era stato smesso per l’installazione del Retablo maggiore di Ardara di Giovanni Muru e aiuti[3]. La notizia della sua originaria allocazione  «solia esser altar maior»[4]  è riferita in un inventario dei beni mobili dell’ex cappella palatina del prossimo castello giudicale di Ardara, stilato in occasione della visita pastorale del vescovo di Alghero e Unioni Durante De’ Duranti, nel maggio 1539. L’opera, a motivo degli angeli che l’incoronano Regina Cœli, è censita come una «assunptio de n[ost]ra sen[y]ora». Non si esclude, tuttavia, che in un primo momento la tempera possa essere appartenuta alla prossima cattedrale di Sant’Antioco di Bisarcio o quantomeno, per le ragioni che seguiranno, a quella mensa vescovile. Nella seconda metà dell’Ottocento, senza clamore di popolo, l’antica immagine di «Sancte Marie de Regno»[5] passò nel giro di vendite del pittore-restauratore carrarese Enrico Castagnino, che in Cagliari aveva posto il centro dei suoi interessi[6]. Entrata nel circuito internazionale dell’arte, nel 1936 fu battuta in asta a Vienna[7] e acquisita dal Wawel di Cracovia.

 

 

Madonna della Misericordia (1448) attr. a Giovanni da Gaeta, tempera e oro su tavola cm 215 x 137, Cracovia, Castello Reale del Wawel, inv. n. 1436.

 

La tavola rappresenta l’iconografia stereotipata di una Vergine della Misericordia di cultura iberico-marchigiana, incoronata da due angeli, e la schiera dei fedeli raccolti sotto l’ampio manto, trattenuto da altre figure angeliche. Tra gli uomini, tutti alla sua destra, si distinguono: un papa con tiara in capo, un cardinale con cappello porporato a larga tesa spiovente e trenta nappine rosse che ricadono sul petto, e due vescovi mitriati; tra le donne alla sua sinistra si pone in evidenza una devota posta a fronte dello spettatore. Ai piedi di Maria, presso una piattaforma che conferisce un grado di monumentalità alla scena, è il committente genuflesso e plorante, secondo uno schema assai diffuso tra xiv e xviii secolo. Sulle ragioni della contestuale e giustificata rappresentazione di dette personalità, tutte coeve, si avrà modo di dire nel corso della trattazione. Agli angoli superiori sono due stemmi, cui si contrappone, nella sezione inferiore, una doppia epigrafe: una invocatoria e una dedicatoria. La prima, sull’alzata del gradino soppedaneo della Vergine, riferisce in un latino a tratti incerto l’orazione conclusiva delle Litaniæ lauretanæ: «co[n]cede nos famulos tuos q[uæsumu]s d[omi]ne d[eu]s p[er]petua me[n]tis et / corp[or]is sanitate gaudele et gloriosa b[ea]t[a]e maria[e] se[m]p[er] / vi[r]g[i]nis i[n]tercession[e] a p[ræse]nti libera[r]i tristicia et [a]eterna / p[er]fruit l[a]eticia p[er] c[h]r[ist]u[m] dominu[m]  n[ost]r[um]».

Più interessante per la ridefinizione del titolo della Madonna rappresentata è la seconda iscrizione, al margine inferiore, sull’alzata di una bassa predella: «anno domini mccccxxxxviii die primo me[n]sis nove[m]bris dua decima i[n]diccione». L’evento celebrato, sinora sfuggito all’attenzione degli studiosi e che formalmente motiva l’opera, è il ventennale della seconda rivelazione mariana sul Monte Berico, a sud di Vicenza. Nella prima apparizione, il 7 marzo 1426, la Vergine aveva domandato ad una anziana contadina del luogo, Vincenza Pasini, l’erezione e la dedicazione di una nuova chiesa[8], aspirazione ribadita nella seconda visione del 2 agosto 1428[9]. La data del 1 novembre trova, invece, corrispondenza nel giorno in cui è festa nella chiesa vicentina di Ognissanti, in borgo S. Caterina, nel cui cimitero la Pasini era stata sepolta[10] e dove era all’epoca serbato un ex voto, una preziosa tela di Giovanni Girolamo Tonici che la ritraeva[11], esposto alla venerazione dei fedeli ogni 25 di agosto, anniversario della posa della prima pietra del Santuario di Monte Berico[12]. La stessa veggente sarebbe stata idealmente ritratta tra le vergini inghirlandate alla sinistra della Madonna; il sospetto nasce dalla postura della devota vestita di nero, mediana, in seconda fila, con il capo coperto da un velo che riecheggia il fazzoletto del ritratto del Tonici, la sola mirante Maria e contraddittoriamente frontale rispetto al riguardante. L’identificazione è potenziata dalla triangolazione stabilita con uno dei fedeli, anche lui in abito nero e l’unico a fronte dello spettatore, più distratto dalla presenza della Pasini che attratto dalla figura della Vergine.

Dal raffronto delle cronologie emerge l’antico equivoco in cui incorse il committente, che dimostra di confondere, il 1 novembre, festa di Ognissanti e titolo della chiesa che conservava le spoglie mortali della beneamata contadina, con il 2 agosto anniversario dell’ultima apparizione. Qualcosa di simile accade appena qualche decennio dopo (post 1472) nella Firenze laurenziana, allorché Domenico Ghirlandaio affresca nella lunetta della cappella di Amerigo Vespucci, giurista e cancelliere sotto Cosimo De’ Medici tra il 1434 e il 1470, nella chiesa di San Salvatore di Ognissanti (nota come ‘chiesa di Ognissanti’) una non dichiarata, e forse a ragion di ciò sin qui misconosciuta, Madonna della Misericordia di Monte Berico con committenti e veggente, in prossimità, o forse in coincidenza, del cinquantennale di quella prima rivelazione mariana[13]. La conferma giunge dalla rappresentazione, al margine destro del riguardante, dell’anziana Vincenza Pasini della tela di Girolamo Tonici, con lo stesso fazzoletto bianco sul capo, calante sulle spalle. Strettamente coevo è invece il polittico della Misericordia allogato a Piero della Francesca l’11 febbraio 1445 dalla compagnia della Misericordia di Borgo San Sepolcro, con un termine di consegna al massimo di tre anni.  Di fatto l’opera fu consegnata solo tre lustri dopo, ma ciò non annulla il sospetto che, così come ad Ardara, si intendesse celebrare il ventennale dell’apparizione di Monte Berico con il ritratto, qui riconosciuto, della veggente sotto il manto protettivo della Vergine[14].

Talune consonanze iconografiche tra l’immagine pittorica attribuita a Giovanni da Gaeta e il simulacro in pietra policromata della Madonna della Misericordia (cm 170 x 140) di Niccolò da Venezia (1404-1414), traslato a Monte Berico nel 1476 dalla chiesa di S. Marcello[15], ne attestano la conoscenza e l’apprendimento. La cromia della veste della Vergine è di uno stesso giallo senape, e di un eguale tono verde è la cortina sostenuta dagli angeli nell’originale litico, qui assunta ad uso di manto ma parimenti trattenuta da due creature celesti.

 

 

 

Stemma mediceo, particolare della Madonna della Misericordia attr. a Giovanni da Gaeta.

 

Lo scudo in alto a sinistra rappresenta sei palle ombrate, su campo di un tono verde molto cupo, poste in cinta 1, 2, 2, 1, di cui cinque di rosso e una sesta in capo, d’azzurro. In questo si riconosce, qui per la prima volta, lo stemma dei Medici Signori di Firenze, dopo che il re Luigi xi di Francia, con un decreto emanato a Montluçon nel maggio del 1465, concesse a Piero il Gottoso e ai suoi eredi e successori legittimi di armeggiare di Francia, d’azzurro, caricata di tre fiordalisi d’oro, posti 2, 1 (qui non figurati), una palla[16]. In origine, l’arma della famiglia dei Medici mostrava sei palle rosse in campo oro, ma con una certa licenza espressiva, almeno fino per tutto il xv secolo, vennero realizzate varianti dello scudo che presentano da tre a undici palle, diversamente disposte[17]. L’assunzione di un campo di un tono differente da quello canonico aureo è dettata dalla necessità di contrastare un blasone che rischiava di perdersi nel fondo oro della tavola. Il verde cupo adottato rimanda all’alloro del broncone, emblema mediceo di cui si dirà più avanti, ed è uno dei colori delle divise dello stesso casato. La palla azzurra, in un’opera datata 1448, si giustificherebbe con una ripresa del testo pittorico, per un adeguamento a seguito del privilegio concesso dal sovrano. La maggiore efficacia della resa volumetrica di questa rispetto alle altre, induce a considerare una ridipintura, ad opera di altra mano (credibilmente un maestro locale), di una preesistente sfera rossa.

 

 

 

Insegna di Piero De’ Medici detto ‘il Gottoso’, particolare della  Madonna della Misericordia attr. a Giovanni da Gaeta.

 

In simmetria, nello scudo in alto a destra, su di un campo dello stesso tono, è rappresentata un’aquila coronata che, con le altre imprese dell’anello diamantato e dello svolazzo con il motto mediceo ‘Semper’[18] (qui assenti) costituisce l’insegna di uso strettamente personale di Piero il Gottoso. Il rapace, in questo caso, stringe con gli artigli un tronco di alloro mozzato, detto ‘broncone’, emblema di Cosimo il Vecchio, ma fatto proprio anche dagli eredi, perché allusivo all’alterna fortuna dei Medici[19]. Il legno è in tutto simile a quello ghermito dalle quattro aquile angolari del Basamento con stemma e imprese medicee del Cortile delle Colonne di Palazzo Medici Riccardi, singolare summa di tutte le insegne dei membri del nobile casato fiorentino tra Quattrocento e primo Cinquecento[20]. Un ulteriore accostamento di insegne medicee differenti si coglie nella parete Ovest dell’affresco della Cavalcata dei Magi di Benozzo Bozzoli[21]; al suolo, in primo piano, tra il patriarca di Costantinopoli e Giuliano De’ Medici a cavallo, accanto ad un broncone sul quale svetta un germoglio è un falco che sventra una lepre, da intendersi quali traduzioni in chiave naturalistica delle imprese di Cosimo e Piero committenti dell’opera.

L’accoppiata stemma mediceo aquila ha rarissime occorrenze, soltanto tre accertate oltre questa[22], e tutte a Firenze, su opere commissionate o beni appartenuti al Gottoso: in un coevo tondo in marmo nella Cappella del Crocifisso (1447-48) a San Miniato al Monte di Michelozzo, di Bartolomeo Michelozzi detto ‘Michelozzo’; in un rilievo sulla lunetta del Lavabo della sacrestia vecchia di S. Lorenzo (1464-1469 circa), di Andrea di Michele detto ‘il Verrocchio’, e in un fregio sulla carta Ir del Pluteo 40.3 della Commedia dantesca della Biblioteca Medicea Laurenziana[23]. In questo codice trecentesco si pone in evidenza l’abbinamento di un’aquila, che ha nidificato su una ceppaia dalle cui radici rinascono nuovi germogli, con un broncone gemmato ed un blasone policromato con sei palle in cinta, cinque di rosso e una d’azzurro in capo, l’unico precedente noto di un modello iconografico assai simile a quello coevo ardarese.

 

 

Piero De’ Medici detto ‘il Gottoso’, particolare della Madonna della Misericordia attr. a Giovanni da Gaeta.

                                                   

Superfluo rimarcare che gli scudi debbano riferirsi al committente, nella fattispecie, per l’esclusività dell’insegna, a Piero De’ Medici il Gottoso (1416-1469), che nel 1464 erediterà il governo di Firenze dal padre Cosimo il Vecchio e lo trasmetterà alla sua morte ai figli Giuliano e Lorenzo il Magnifico. L’affermazione trova convalida nella figura genuflessa e plorante vestita di un sobrio abito patrizio, il cui elemento caratterizzante è il berretto rosso, trattenuto sul ginocchio sinistro, di foggia uguale a quello ‘a fungo’ che distingue i membri del nobile casato[24], e in particolare quello del Gottoso, nella parete Est della Cavalcata dei Magi del Gozzoli[25]. Anche l’età mostrata è compatibile con quella di un trentaduenne qual era Piero nel 1448[26]. La fisionomia del volto, nel profilo massiccio della mandibola, ricalca il ritratto postumo del Bronzino, esemplato sul busto marmoreo di Mino da Fiesole; talune consonanze, nel dettaglio delle labbra e del mento, si rilevano anche nel confronto con l’ormai quasi cinquantenne Signore di Firenze, dell’olio su tavola di Cristofano dell’Altissimo[27].

Stabilito il committente, restano da individuare le ragioni che sostengono la donazione del quadro alla parrocchiale di S. Maria del Regno di Ardara, il maggiore tempio della antica diocesi dopo il duomo di Bisarcio, con funzioni straordinarie di cattedrale supplente[28]. La cronotassi dei vescovi sardi attesta che il 21 ottobre del 1448 papa Niccolò v nomina nuovo presule bisarchiense Sissino o Sisinnio[29]. Il prelato giungeva vescovo da quella Sulci che fino al 1615 conservava le spoglie del S. Antioco patrono della nuova diocesi di cui assumeva la guida. La sua prima elezione era stata lungamente osteggiata dal re di Aragona Alfonso v il Magnanimo e per questo, dopo soli sette mesi, era stato nominato vescovo di Ampurias, da dove fu rimosso, ancora una volta, forse per sottrarlo alle antipatie del sovrano, in quello stesso 1448 in cui Castel Genovese (oggi Castelsardo), centro emergente della sua diocesi, dopo un decennio di assedio consegnava le armi alle truppe aragonesi. Al contrario, il presule uscente Antonio Canu (o Cano), nominato arcivescovo di Sassari, era entrato nelle grazie del Magnanimo, che nel 1420 aveva avuto modo di udirlo predicare quando ancora era parroco a Giave, presso Sassari. Affascinato dalla brillante eloquenza lo volle oratore ufficiale di corte e consigliere del Re[30].

 

 

Particolare delle figure clericali sotto il manto della Madonna della Misericordia.

 

La proposta identificativa è supportata da un preciso riscontro iconografico: sotto il manto della Vergine sono due vescovi a fronte di un solo pastorale. Il sospetto che questa possa non essere una coincidenza nasce dalla constatazione che il massimo emblema della guida della diocesi sia affidato ad un terzo soggetto, vestito di un’alba, un semplice chierico individuato per la tonsura, prestato complice della transizione del comando. Uno dei due prelati si pone in evidenza perché il suo sguardo non è rivolto alla Vergine ma è ‘fuori quadro’ e ammicca lo spettatore. Evidentemente, ed è anche questa una novità, è Sisinnio l’unico per il quale, in quanto surrogante, si trovi giustificazione di un dono di circostanza di Piero quale la Madonna di Monte Berico sarebbe stato per la sua intronizzazione a Bisarcio. Il condizionale è d’obbligo perché le ragioni addotte non sarebbero da sole sufficienti a giustificare una attenzione di così alto rango. Si sospetta – e il dubbio è fortissimo – che questa seconda motivazione che segue quella formale epigrafica, sia pretestuosa e ne celi una terza non dichiarata in modo esplicito, eppure più realistica.

Per comprendere che spirito animasse il committente, chi fosse il vero destinatario e quale il fine ultimo del munifico dono, è utile tralasciare la Sardegna e inquadrare la vicenda in un più ampio contesto politico-religioso, nel quale la sottile diplomazia medicea ha dimostrato, anche in occasioni ben più importanti, di avvalersi di strumenti efficaci. Il decreto di nomina di Sisinnio e di Antonio Canu, si è detto, è del 21 ottobre 1448, ma è statisticamente credibile, perché prassi comune, che l’intronizzazione sia avvenuta qualche tempo dopo, nei primi mesi dell’anno seguente, per dare modo al novello pastore di organizzare materialmente la presa di possesso della diocesi. Nel mentre sarebbero giunte a compimento quelle condizioni nelle quali si trova una giustificazione indiretta ma, alla luce della strettissima sequenza degli eventi che verranno, più che attendibile di tanta insolita liberalità.

Appena l’anno prima, nel 1447, Tomaso Parentucelli cardinale e arcivescovo di Bologna era stato eletto al soglio pontificio con il nome di Niccolò v, all’età  di soli 49 anni. A Firenze aveva portato il suo contributo al Concilio Ecumenico, trasferito nel 1439 da Ferrara nel capoluogo fiorentino su pressione del lungimirante Cosimo il Vecchio, che in quello straordinario evento aveva intravisto una occasione di crescita politica ed economica della città[31]. Nel singolare avvenimento aveva investito ben 4.000 fiorini per ospitare papa Eugenio iv, i vescovi al seguito e una nutrita delegazione bizantina che accompagnava l’imperatore Giovanni viii Paleologo e il patriarca Giuseppe. L’arrivo degli illustri personaggi consacrò l’importanza di Firenze a livello europeo e l’esotico corteo di dignitari stranieri fu immortalato nella Cappella dei Magi dal Gozzoli. Il legame tra i Medici e il nuovo Papa, d’altra parte, era antico e consolidato. Quando Cosimo il Vecchio decise di fondare la Biblioteca di San Marco, il libraio umanista Vespasiano da Bisticci lo consigliò e gli spedì, per il tramite dello stesso Parentucelli, un catalogo sistematico che diventò la base della nuova collezione della nascente biblioteca medicea. Last but not least, tra le prime personalità ricevute in udienza pubblica dal neoeletto Santo Padre furono sei ambasciatori fiorentini, tra i quali era il giovane Piero[32]. Per rinsaldare quella influente amicizia di famiglia, il Gottoso avrebbe raccomandato a Giovanni da Gaeta la raffigurazione, tra i più prossimi alla Vergine, dello stesso Pontefice e di un porporato che gli regge il pastorale, forse suo fratello uterino Filippo Calandrini (1403-1476), nominato cardinale e arcivescovo di Bologna appena il 20 dicembre 1448[33].

Determinante per la commissione della Madonna di Monte Berico ardarese sarebbe stato l’annuncio dell’Anno Santo del 1450, indetto il 4 gennaio 1449. E’ credibile che Piero, sull’esempio paterno, abbia fatto dono a Sisinnio, per una fortunata coincidenza nominato vescovo da Niccolò v in quegli stessi mesi, del quadro della Madonna della Misericordia al fine di coltivare e ingraziarsi la già forte simpatia del Parentucelli. Il donativo sarebbe lo si afferma qui per la prima volta il solo noto di una credibile più ampia strategia in esecuzione di un medesimo progetto, nel quale devozione[34], amicizia, diplomazia, politica e finanza si confondono, mirato alla raccolta dei consistenti proventi dell’imminente Giubileo. Le aspettative economiche non restarono deluse: secondo i cronisti del tempo il successo sarebbe stato superiore, per numero di pellegrini e per offerte, a quello indetto da Bonifacio viii, nonostante una virulente epidemia di peste avesse colpito la capitale della cristianità. Del consuntivo e dei risvolti politici di quell’Anno Santo scrive lo stesso Vespasiano da Bisticci nelle sue biografie di uomini illustri: «Di poi [Niccolò v] mi si rivolse e disse: [“]tu sai quanti benefizi m’ha fatto Cosimo de’ Medici ne’ mia bisogni[[35]], e perciò ne lo voglio remunerare, e domattina lo farò mio depositario. Non si può errare essere liberale inverso gli uomini grati[”]. Fu volta conclude l’umanista fiorentino che il banco de’ Medici ebbe della Chiesa nelle mani più di cento migliaja di fiorini, secondo che io ho udito da persone degne di fede che istavano con loro. Dissemi poi: [“]io voglio fare uno grande onore a’ Fiorentini: domattina darò loro udienza in concistoro pubblico, dove si dà a’ re e agl’imperadori, per dare loro questo principio e fare loro questo onore[”]»[36].

Nella stessa epoca la mensa vescovile di Sisinnio non arrivava a cento fiorini annui[37] e, per la persistente carenza di rendite, nel 1503 con la bolla æquum reputamus Giulio ii sopprimeva la Diocesi di Bisarcio e la univa, con quelle di Castro e di Ottana, alla nascente di Alghero. A ragion di ciò nel 1505 Giovanni Catazzolu, arciprete di Bisarcio con prebenda di Ardara, dismetteva l’antica icona di «Sancte Marie de Regno» altrimenti Madonna di Monte Berico ‘Medici’ e finanziava il magnificente retablo di Giovanni Muru e aiuti, nel tentativo di far recedere il Pontefice da quegli intendimenti, tratteggiando, nel suo disperato viaggio a Roma, l’improbabile profilo di una diocesi florida e opulenta, al quale Giulio ii non poté credere[38].

 

 

 


[1] Cracovia, Castello Reale del Wawel, inv. n. 1436. Per la bibliografia sulla tavola, cfr. R. Serra, Pittura e scultura dall’età Romanica alla fine del ‘500, coll. ‘Storia dell’arte in Sardegna’ diretta da Corrado Maltese, Sassari 1990, p. 302, sch. 40. Si ringrazia  il prof. Jan Ostrowski direttore del Castello Reale del Wawel, per la concessione delle immagini di corredo.

[2] Nel 1950 lo Zeri definì col nome convenzionale di «Maestro del 1456», dalla cronologia del trittico della Incoronazione della Vergine della chiesa di S. Lucia a Gaeta, un anonimo pittore attivo prevalentemente in ambito campano, a metà del xv secolo (cfr. F. Zeri, Perché il Maestro del 1456, «Paragone», n. 3, 1950, pp. 51-53). Intorno a questa figura prese forma un corpus di opere stilisticamente omogenee, riconosciute, in un successivo intervento dello stesso Zeri, a Giovanni da Gaeta (cfr. F. Zeri, Perché Giovanni da Gaeta e non Giovanni Sagitano, «Paragone», n. 129, 1960, pp. 51-53). Per una sintesi sulla figura di Giovanni, uno dei maestri più rappresentativi nell’arte della seconda metà del Quattrocento nel Centro Italia, cfr. F. Navarro, Giovanni da Gaeta, in ‘La pittura in Italia. Il Quattrocento’, vol. 2, Milano 1986, p. 640.

[3] Giovanni Muru e aiuti, retablo di S. Maria del Regno (1505), polittico, tempera e oro su tavola, m 10 x 6 circa, Ardara (ss), parrocchiale di N.S. del Regno; cfr. R. Serra, Pittura e scultura dall’età romanica alla fine del ‘500, cit., p. 148, sch. 67; W. Paris, Santa Maria del Regno in ‘La chiesa di Santa Maria del Regno di Ardara. Corredo artistico e restauri’, Muros 1997, pp. 21-63. Nell’ultimo decennio si è avviato un dibattito per una ridefinizione cronologica del polittico ardarese, fino al 2001 improbabilmente assegnato, sulla base della trascrizione di una dubbia epigrafe sul ciborio del retablo, al 1515 (m[d]vxv), cfr. G. G. Cau, Ardara. Retablo Maggiore di N.S. del Regno. Note per una corretta datazione, «Voce del Logudoro», a. l, Ozieri 1 luglio 2001, p. 3. Di recente Maria Grazia Scano (Presències catalanes a la pintura de Sardenya in ‘L’art gòtic a Catalunya’, Pintura: Darreres manifestacions, Enciclopèdia Catalana vol. 3, Barcelona 2006, pp. 251-252), ha rilevato che le ultime due cifre della data riferita nell’epigrafe – ‘xv’ – sono in minuscolo corsivo e indicherebbero il mese e il giorno, a fronte di quelle precedenti – ‘m[d]v’ – in capitale romana maiuscola, relative all’anno. Da questa oggettiva discrepanza discende una interessante rilettura, per la quale il retablo, afferma la studiosa, sarebbe stato ultimato nel 1505, nel  decimo mese (‘x’), il quinto giorno (‘v’): domenica 5 ottobre. L’ipotesi di per sé sensata e meritevole di considerazione, non colpisce giusto nel segno ed è qui corretta, per l’inversione interpretativa mese-giorno delle stesse unità numeriche, in un inedito quanto risolutivo decimo giorno del quinto mese, da intendersi quale dies consacrationis et dedicationis del retablo. Si ha ragione di privilegiare la seconda lettura in quanto sostenuta dal riscontro che il 10 maggio 1505 fu di sabato (giorno dedicato alla Vergine sin dall’epoca carolingia) e, soprattutto, il primo dopo la commemorazione della consacrazione della chiesa di S. Maria del Regno (7 maggio 1107, cfr. R. Serra, La Sardegna, coll. ‘Italia Romanica’, vol. 10, Milano 1989, p. 217), evento che, da tempo immemorabile, si celebra nel festoso triduo seguente, per giungere a compimento giusto il 10 maggio. Se può costituire un ulteriore elemento di convalida, appena trentaquattro anni dopo, l’11 maggio 1539 il vescovo di Alghero Durante De’ Duranti è in visita pastorale nel paese, credibilmente a seguito della stessa ricorrenza, cfr. Archivio Storico Diocesano di Alghero, Registro delle visite pastorali 1539-1550, Visita di Durante De’ Duranti ad Ardara del 1539, ff. 2r, 8r-9r.

[4] Ivi, f. 8v.

[5] Il titolo di «Sancte Marie de Regno» è attestato per la prima volta nel giuramento del 6 gennaio 1365 di don Guido abate dell’abbazia camaldolese di Saccargia, presso Codrongianos (ss), cfr. F. Amadu, I monaci camaldolesi ad Ardara. Il Monastero di Ardarello, «Voce del Logudoro», a. lvii, Ozieri 2 novembre 2008, p. 3. Il regno, nella fattispecie, non è solo dei Cieli, quanto quello più terreno del Giudicato di Torres, nella cui giurisdizione Ardara ricadeva.

[6] Talune anticipazione sul ruolo avuto da Enrico Castagnino nella storia del depauperamento ottocentesco del patrimonio artistico della Sardegna sono in: D. Pescarmona, Considerazioni in margine ad alcuni problemi offerti in discussione dalla mostra, in ‘Cultura quattro-cinquecentesca in Sardegna. Retabli restaurati e documenti’, Cagliari 1985, pp. 43, 46; Eodem, La pittura in Sardegna nel Quattrocento, in ‘La Pittura in Italia. Il Quattrocento’, Venezia 1987, vol. 2, pp. 491-492.

[7] R. Coroneo, Madonna della Misericordia, in Renata Serra, ‘Pittura e scultura dall’età Romanica alla fine del ‘500’, cit., p. 97, sch. 40.

[8] V. Sangiovanni, Storia della Madre di Dio Maria Vergine Santissima del Monte Berico del suo santo tempio, e d’altro di Vicenza con alcune nuove notizie. Composta dal sig.co: Vittorio Sangiovanni nobile vicentino, dottor di legge, Vicenza 1766, pp. 6-7.

[9] F. A. Disconzi, Notizie intorno al celebre santuario di Maria Vergine posto sul Monte Berico di Vicenza raccolte da irrefragabili documenti dal p.m. Filippo Antonio Disconzi dell’Ordine de' Servi di Maria consacrate agl’illustrissimi signori deputati alle cose utili della città medesima, Vicenza 1820, p. 27.

[10] V. Sangiovanni, Storia della madre di Dio Maria Vergine Santissima del Monte Berico, cit., p. 16.

[11] La tela, recita una nota didascalica in calce alla stessa, è opera di «Giovanni Girolamo Tonisi pittor senese», sanato miracolosamente dalla peste assieme alla moglie, per intercessione della Pasini. Cessata l’epidemia nel 1428, ancora vivente la veggente, defunta circa il 1431, ne aveva rilevato il ritratto, «essendo la buona donna di età di anni settanta», cfr. F. A. Disconzi, Notizie intorno al celebre santuario di Maria Vergine, cit., tav. iii (post p. 30). La tela è oggi conservata presso il Museo di Monte Berico.

[12] La tradizione attesta che fu Maria stessa a disegnare, con una piccola croce d’ulivo, la forma che l’edificio avrebbe dovuto assumere. A ragion di ciò la posa della prima pietra ebbe una certa importanza, e fu subito seguita da segni prodigiosi. Tutto questo avvenne alla seconda apparizione, in quanto alla prima nessuno volle credere alla Pasini, che fu presa per pazza, cfr. V. Sangiovanni, Storia della madre di Dio Maria Vergine Santissima del Monte Berico, cit., pp. 7-10.

[13] Domenico Ghirlandaio, Madonna della Misericordia di Monte Berico con committenti e veggente, 1434-1470, affresco, Firenze, chiesa di San Salvatore di Ognissanti; cfr. Domenico Ghirlandaio: restauro e storia di un dipinto, Fiesole 1983. Il titolo della Vergine e della chiesa, e una certa affinità cromatica dell’abito e della cortina della Madonna sostenuta da due figure angeliche rimandano direttamente alla vicenda di Monte Berico.

[14] Piero della Francesca, Polittico della Misericordia (1445-62), tavola della Madonna della Misericordia di Monte Berico con fedeli e veggente (1460 ?), cm 134 x 91, Sansepolcro (ar), Pinacoteca Comunale; cfr. La pala della Madonna della Misericordia a Borgo San Sepolcro, Arezzo 1988.

[15] Arte in Europa: scritti di storia dell’arte in onore di Edoardo Arslan, Milano 1966, vol. 1, p. 356.

 

[16] Nello stemma miniato sul diploma di concessione del privilegio di Luigi xi, le palle erano poste 3, 2, 1 e quella armeggiata di Francia era la centrale della riga superiore; tuttavia, soprattutto a partire dal Cinquecento, durante i pontificati di Leone x (1513-1521) e Clemente vii (1523-1534), si andò affermando sempre di più la disposizione delle palle in cinta e quella armeggiata di Francia si trovò ad occupare una posizione prominente; cfr. A. Offman, Blasonature e note di commento agli stemmi dei Cavalieri Costantiniani, in Michele Basile Crispo (a cura di), ‘L'Ordine Costantiniano di San Giorgio. Storia, stemmi e Cavalieri’, Parma 2002, p. 530.

[17] L’ipotesi più accreditata vuole che lo stemma, che nella forma più antica sarebbe stato un campo d’oro seminato di bisanti vermigli (o, meglio, tondi vermigli, essendo i bisanti per definizione smaltati d’oro o d’argento), sia derivato, mediante inversione degli smalti, dall’insegna dell’Arte del Cambio (di rosso, seminata di bisanti d’oro), alla quale i Medici si erano iscritti dopo essersi stabiliti a Firenze; cfr. F. Cardini, Le insegne laurenziane, in Paola Ventrone (a cura di), ‘Le tems revient 'l tempo si rinuova: feste e spettacoli nella Firenze di Lorenzo il Magnifico: Firenze, Palazzo Medici Riccardi, 8 aprile - 30 giugno 1992’, catalogo della mostra, Cinisello  Balsamo 1992, pp. 58-59.

[18] L’aquila, simbolo della Parte Guelfa, rappresenta l’incarnazione del fiero animo fiorentino già dai tempi di Dante e la corona, unica attestazione nota tra le insegne riferibili a Piero, sarebbe da porre in relazione con la concessione del Re di Francia e quindi anche questa posticcia. L’anello con il diamante tagliato a piramide si presenta da solo, oppure incrociato con altri due ma spesso è associato a piume di pavone (interpretate come una delle insegne di Piero), di falco o di struzzo. Alcuni vedono nell’impresa con le tre piume, un simbolo trinitario che allude al Concilio di Firenze del 1439-42, in occasione del quale si restaurò l’ortodossia trinitaria. Oltre che simbolo di fedeltà e di unione, gli anelli, con la loro forma circolare, alludevano all’eternità ed al continuo rinnovamento sintetizzato nel motto mediceo ‘Semper’; cfr. F. Cardini, Le insegne laurenziane, cit., pp. 55-74. Simbolo di perfezione, le imprese medicee sono presenti un po’ in tutta Firenze: sulle chiavi di volta di chiese e palazzi, sugli stipiti ed architravi delle porte, sui capitelli di chiostri e chiese, sui cibori, sui lavabi, su affreschi e pale d’altare.

[19] Leonardo da Vinci disegna e descrive il broncone in un manoscritto databile al 1494, come un albero «tagliato che rimette» cioè rinasce, tornando a germogliare, nel quale si coglie un rimando al rinascimento mediceo; cfr. C. Pedretti, Studi Vinciani, Documenti, Analisi, e Inediti leonardeschi, Ginevra 1957, p. 101. Il ritratto di Cosimo il Vecchio del Pontormo (1518-19, olio su tavola, cm 87 x 65, Firenze, Uffizi) raffigura simbolicamente, alla destra del banchiere e politico fiorentino, una ceppaia d’alloro, dal cui ramo principale, troncato di netto, si sviluppa un ampio e frondoso pollone; cfr. A. Conti, Pontormo, Milano 1995, fig. 17.

[20] Basamento con stemma e imprese medicee, (1515-1519), committente cardinale Giulio de’ Medici, ambito di Benedetto da Rovezzano (1474-post 1552) e Simone Mosca (1492-1553), marmo, cm 228 x 105 (fronte rettangolare più ampia, est e ovest),  Firenze, Palazzo Medici Riccardi, cortile delle Colonne, inv. Bargello Marmi nn. 262-263; cfr. F. Caglioti, Donatello e i Medici. Storia del David e della Giuditta, Firenze 2000, p. 147, fig. 161.

[21] Benozzo Gozzoli, Cavalcata dei Magi, affresco, Firenze, cappella del Palazzo Medici Riccardi, parete Ovest; cfr. C. Acidini Luchinat  (a cura di), La Cappella dei Magi, in ‘Benozzo Gozzoli. La Cappella dei Magi’, Milano 1993, pp. 7-26.

[22] Rebecca Bruni, rifacendosi ad una citazione dello studioso americano Francis Ames Lewis, porta altri due esempi («sul basso rilievo in bronzo, Baccanale di Putti, di Donatello, al Bargello; su uno degli scanni intarsiati nella cappella di Palazzo Medici»), dimostratisi privi di reale riscontro; cfr. R. Bruni, Per un censimento dei codici fiorentini della Commedia. Biblioteca Medicea Laurenziana Plutei 40.1-40.21, tesi di laurea, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1996-97.

[23] Lo stemma mediceo del Pluteo 40.3 è di qualche decennio posteriore al codice e al resto della decorazione. Francis Ames Lewis non esclude l’identificazione di questo pluteo con uno censito nei due inventari dei libri di Piero, il primo risalente al 1456, il secondo al 1464/65 (ivi).

[24] «Portavano tutti lo stesso berretto paonazzo, trapunto di cordoncini di pelle, pietre preziose e penne d’oro che era l’emblema dei Medici», cfr. W. Ingeborg,  Lorenzo il Magnifico e il suo tempo, Roma 2005, p. 84.

[25] Benozzo Gozzoli, Cavalcata dei Magi, op. cit., parete Est. Piero è sul cavallo bianco alla sinistra del padre Cosimo. La ricca bardatura dell’animale è la risultante di un procedere alternato e interlacciato di fregi d’oro propri delle insegne medicee, rappresentanti, nel collare superiore, tre piume  e anelli diamantati includenti sette palle e, in quello sottostante, il motto ‘s  –  e  –  m – p  –  e   –  r’ scandito ciclicamente da caratteri inclusi in altrettanti anelli diamantati, concatenati. Nei festoni sono altre piume, stavolta di pavone; cfr. L. Ricciardi, Simboli medicei: “palle” e imprese nel Quattrocento, in Francesco Cardini, ‘I re Magi di Benozzo a Palazzo Medici’, Firenze 2001, pp. 65-93.

[26] Non sarebbe questo, peraltro, il solo caso della raffigurazione di un membro del casato De’ Medici nella pittura in Sardegna. Lo stesso Cosimo il Vecchio è strumento dell’allegoria della data e della firma di Andrea Sanna detto ‘il Maestro di Ozieri’, nella tavola della Prova della vera croce del retablo di S. Elena imperatrice (1585) di Benetutti (ss); cfr. R. Coroneo, Maestro di Ozieri, Retablo di S. Elena, in Renata Serra ‘Pittura e scultura dall’età Romanica alla fine del ‘500’, cit., p. 244, sch. 125. Sulle ragioni dell’identificazione di Cosimo, cfr. G. G. Cau, Allegoria nel retablo di Sant’Elena Imperatrice a Benetutti, «Sardegna Antica», a. xi, n. 22, Nuoro 2002, pp. 35-38.

[27] Agnolo di Cosimo detto ‘il Bronzino’, Ritratto di Piero De’ Medici (1550-1570), olio su tavola cm 58,4 x 45,1, Londra, National Gallery, inv. n. 1323; cfr. A. Paolucci, Bronzino, Firenze 2002. Mino da Fiesole, Piero De’ Medici (1453-54), busto di marmo, h. cm 55, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. ‘Sculture’ n. 75; cfr. G. C.  Sciolla, La scultura di Mino da Fiesole, Torino 1970. Cristofano dell’Altissimo, Piero il Gottoso (1562-1565), olio su tavola, cm 58 x 44, Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, inv. OA 1911 n. 749; cfr. M. Chiarini, S. Padovani  (a cura di), Gli appartamenti reali di Palazzo Pitti: una reggia per tre dinastie: Medici, Lorena e Savoia tra Granducato e Regno d’Italia, Firenze 1993.

[28] Taluni aspetti dello stretto rapporto tra la storia della chiesa di Ardara e quella di Bisarcio sono stati esaminati in F. Amadu, La Diocesi medioevale di Bisarcio, Cagliari 1963.

[29] P. Tola, Codex Diplomaticus Sardiniae, vol. 2,  pp. 114-116. L’Eubel, propone la data del 23 ottobre, cfr. G. Eubel, Hierarchia Cattolica Medii Aevi, vol. 2, Munster 1898-1901, 1 c. Di recente Raimondo Turtas ha prospettato come termine ante quem il 23 settembre, cfr. R. Turtas, Storia della Chiesa in Sardegna dalle origini al Duemila, Roma 1999, p. 863.

[30] Per un approfondimento sulle figure dei due prelati si rimanda a F. Amadu, La Diocesi medioevale di Bisarcio, cit., pp. 117-120, 126-131.

[31] «Venuti al potere quattro anni innanzi [al Concilio di Firenze] (non senza il sospetto di complicità papale) […] i Medici approfittavano del ritorno di Eugenio iv in città per la consacrazione solenne del regime recentemente impiantato», cfr. R. Fubini, Italia quattrocentesca. Politica e diplomazia nell’età di Lorenzo il Magnifico, Milano 1994, p. 62.

[32] A. Mai, Spicilegium romanum. Vite di uomini illustri del xv secolo, Scritte da Vespasiano Fiorentino contemporaneo. Parte  i. Pontefici Re, e Principi Sovrani, Roma 1839, p. 43.

[33] Niccolò v nel suo breve papato (1447-1455) nominò tre nuovi porporati, tutti nello stesso 1448: oltre Filippo Calandrini (1403-1476), Nicola Cusano (1401-1464) cardinale, filosofo, matematico e astronomo tedesco, naturalizzato italiano e Latino Orsini (1411-1477) elevato a cardinale il 4 dicembre 1448. Tra tutti si privilegia qui, per ovvie ragioni affettive e di fiducia, il Calandrini.

[34] Della speciale venerazione di Piero verso la Vergine è testimone il nome dato alla sua primogenita Maria, appena nel 1445.

[35] Vespasiano racconta un episodio di cui lui stesso fu testimone, sul solido rapporto di amicizia tra il Parentucelli e Cosimo il Vecchio. Trovatosi a Firenze in difficoltà economiche durante un viaggio diplomatico in Francia su incarico di Eugenio iv, Tomaso, racconta il Fiorentino, «mi si rivolse e disse: è bisogna che tu vada a Cosimo, e preghino che mi serva di cento ducati per di qui alla tornata, e digli la cagione. Andai a Cosimo, e disse: io voglio fare meglio che quello che mi domanda; e subito mandò Roberto Martelli a lui, e disse avere commissione da Cosimo de’ Medici di fargli una lettera generale a tutte le compagnie e corrispondenti che pagassimo quella somma che maestro Tomaso volesse. Parve a maestro Tomaso troppo grande liberalità, e disse a Roberto che ringraziasse Cosimo per sua parte. Usogli Roberto molto umane parole, dimostrandogli la buona disposizione di Cosimo inverso la sua Signoria», cfr. A. Mai, Spicilegium romanum… cit., p. 36. Al ritorno Tomaso necessitava di altro denaro per proseguire verso Roma. Trovato Cosimo sul sagrato di S. Giovanni in Firenze «dissegli de’ cento fiorini che voleva, oltre a’ dugento che aveva avuti in sul la lettera generale. Rispuosegli [Cosimo], e cento e tutta la somma che voi volete saranno al piacere vostro» (ivi, p. 38).

[36] Ivi, p. 42.

[37] Qualche anno appresso il Papa, compreso il disagio economico della mensa di Bisarcio, diede facoltà al vescovo di Grasse in Francia di assegnare a Sisinnio due qualsiasi benefici, appena si fossero resi vacanti, cfr. F. Amadu, La Diocesi medioevale di Bisarcio, cit., pp. 130-131.

[38] La notizia del viaggio romano di Giovanni Catazzolu è riferita, priva di riferimento archivistico, in G. Spano, Chiesa cattedrale dell’antica Bisarchio, «Bullettino Archeologico Sardo» a. vi, n. 6, Cagliari 1860, p. 88.