di Gian Gabriele Cau

 

Sulla figura di Giuseppe Antonio Lonis, il più rappresentativo scultore sardo, attivo a Cagliari tra la seconda metà del Settecento e i primissimi dell’Ottocento, si è concentrata l’attenzione di numerosi studiosi. Di lui già scrive Antonio Vincenzo Sebastiano Porqueddu suo compaesano senorbiese, in De su tesoru de Sardigna del 1779, quando il Lonis è nel pieno della sua attività, per attestare una sua formazione partenopea, presso la bottega di «Gennaro Frances e Giuseppe Pigano, l’ultimo dei quali era in quei tempi uno dei più bravi scultori napoletani». Pasquale Tola lo considera tra gli uomini illustri di Sardegna del suo Dizionario biografico (1838) e afferma che «le sue statue sono tutte di legno, né si ha notizia che abbia adoperato lo scalpello sopra il marmo od altra materia». Vittorio Angius ne scrive nel Dizionario del Casalis (1840) a proposito della parrocchiale di Guasila. Sulla biografia e sulle opere dello scultore – una sorta di Benvenuto Cellini, alto di persona, ben tarchiato e sempre ornato di spada – si sofferma anche il canonico Giovanni Spano in Guida della città e dintorni di Cagliari (1868), arricchendola di alcuni, improbabili aneddoti sul suo carattere eccentrico.

 

 

Per lo storico dell’arte Carlo Aru (1937) lo scultore di Senorbì «riesce ad imporre il suo gusto italiano con statue lignee ora di solida fattura michelangiolesca ora di aggraziate movenze berniniane». Declassato da Corrado Maltese a livello di modesto artigiano (1962), è presto riabilitato da Giuseppe Della Maria quale robusto artista, il cui «nome potrebbe ben essere annoverato nella storia della scultura lignea nazionale» (1968). Notevole per l’interesse suscitato intorno alla sua figura  è il contributo di Antioco Piseddu, anche lui di Senorbì, schematizzato in Vita e opere di Giuseppe Antonio Lonis scultore sardo del XVIII secolo (1974). Per Maria Grazia Scano, che nel 1991 gli dedica un capitolo del volume sulla Pittura e scultura del ‘600 e ‘700 della collana sulla Storia dell’Arte in Sardegna, il Lonis non è un artista imponente ma certamente «il principale interprete di una continuità con la cultura campano-iberica… ed è di gran lunga il più prolifico e dotato tra gli scultori locali della seconda metà del secolo».

 

 

 

È, tuttavia, la monografia Giuseppe Antonio Lonis, vita e opere di uno scultore nella Sardegna del XVIII secolo (2004) di Francesco Virdis il lavoro più completo, sistematico e aggiornato sul senorbiese. Con puntigliosa precisione l’attento ricercatore traccia un lungo, dettagliato profilo biografico generazionale dei Lonis pittori e scultori, attestati tra Guasila, Senorbì e Cagliari tra la fine del Seicento e i primi dell’Ottocento. Si ha così notizia, attraverso un’appendice densa di apparati iconografici e documentari in larga parte inediti, del capostipite Giuseppe ( † 1731), sposato a Guasila, e dei suoi tre figli scultori, talvolta impegnati in uno stesso progetto artistico, Michele (1686 † 1755), Sisinnio (1695 † 1756) e Salvatore (1699 † 1757). Quindi di una terza generazione, rappresentata dai nipoti di Giuseppe: Francesco Ignazio Bardilio (1725 † 1780), Giuseppe Ignazio (1728 † ?), Giuseppe Domenico (1740 † ante 1793), fino al più illustre Giuseppe Antonio Vincenzo figlio di Michele, nato a Senorbì  nel 1720  e morto, dopo almeno 55 anni di attività, nel 1805 a Cagliari, dove aveva bottega in Stampace storico quartiere dei maestri dell’arte.

Al Virdis si riconosce anche il merito della attribuzione a Giuseppe Antonio Lonis di due simulacri del patrimonio di arte sacra di Ozieri, di cui per sua gentile concessione si da qui inedita anticipazione. La maniera del senorbiese trova riscontro nel maestoso S. Agostino (h. cm 137, base h. cm 13) credibilmente dall’altare maggiore dell’omonima, distrutta chiesa e del tutto simile al manichino dello stesso santo del S. Agostino vecchio di Cagliari, attribuito al  Lonis, e nella gloriosa Madonna del Rosario con Bambino (h. cm 103) ancora oggi portata in processione dai confratelli nel giorno della sua festa. A questo primo nucleo – in questa sede – chi scrive ha ragione di associare altri tre inediti: il S. Paolo eremita (h. cm 106, base h. cm 12) dalla chiesa dei SS. Cosma e Damiano, la Madonna del Rosario con Bambino e S. Domenico dell’altare maggiore della piccola chiesa di Donnigazza, che mostra convincenti raffronti fisionomici e cromatici con la Vergine Assunta di Guasila e, nella costruzione del gruppo, con la Vergine del Rimedio di Cagliari, tutte attribuite al Lonis, e, si crede, anche il S. Francesco d’Assisi (h. cm 112, base h. cm 12) della stessa chiesa del Rosario.

 

 

Si è parlato di attribuzioni, perché il numero degli atti di committenza è esiguo e appena sufficiente per stabilire una base di confronto per la maggior parte delle opere che gli sono riconosciute. «Bisogna inoltre considerare – scrive la Scano – che il Lonis, morto nel 1805 a ottantaquattro anni d’età, nell’arco della sua lunga operosità ebbe modo di modificare via via il suo stile e che quindi le differenze tra le opere giovanili e quelle della tarda maturità possono essere notevoli». La coerenza del corpus delle opere ozieresi, tutte di alto e altissimo livello, indurrebbe a ricondurle, con qualche distinguo, ad uno stesso momento, quello della piena maturità, indicativamente individuato nell’ultimo quarantennio circa del XVIII secolo. Lo attestano precise corrispondenze plastiche e cromatiche tra il S. Francesco e il Cristo alla colonna datato 1758, di Cagliari, tra la Madonna del Rosario con Bambino e S. Domenico e la Vergine Assunta di Guasila del 1772, tra il S. Agostino, il S. Paolo eremita, il S. Francesco e il S. Francesco d’Assisi di Selegas del 1788, e tra la Madonna del Rosario e la Vergine d’Itria di Selegas del 1794, tutte assegnate per via documentale al senorbiese.

 

 

La fisionomia del volto delle Madonne del Lonis è distinta dalla pienezza dei tratti levigati ed esaltati da un incarnato ricco di morbide sfumature rosate, che si accendono sulle gote, sulla punta del naso e sulla fossetta del mento, e conferiscono alla plastica una consistenza quasi porcellanosa. Nelle figure maschili questa sorta di make-up spalmato su visi scavati esalta lo stupore e l’espressione mistica di un campionario di variegata umanità, composta e sobria, seppure vestita di un lacerato giunco intrecciato come il S. Paolo eremita. Tanto nelle figure femminili che in quelle maschili il capo è, di norma, incorniciato da riconoscibilissime acconciature spesso simmetriche, morbidamente ondulate in ampie ciocche, solcate da una larga sgorbia.

 

 

Un riccio svetta sulla fronte dei molti grandi santi, quasi una fiammella dello Spirito avvolta in un turbine di vento, mentre una corposa corona di cappelli rasi alla base e quasi sempre tirati dal basso all’altezza delle temporali, cinge un’ampia chierica dei santi religiosi, confondendosi con una incipiente calvizie. La barba fluente è spesso segnata da vorticose, serrate volute con movimenti convergenti o divergenti al basso, dal sapore vagamente barocco. I baffi sono radi nella regione subnasale e le labbra dischiuse; le sopracciglia di norma distinte da un regolare, sottile arco ribassato, appena inflesso. Le mani sono sapientemente modellate, anatomicamente ben descritte nel rilievo vascolare del dorso, quelle dei santi, rotonde e carezzevoli, con dita affusolate quelle delle Madonne. A questo modello si sottrae il S. Francesco, che mostra una barbetta e una capigliatura scolpita con sgorbia fine. La soluzione, forse obbligata per indisponibilità materica per un presunto difetto del legno o per un maldestro colpo di scalpello vibrato dal maestro, giustificherebbe l’insolito disegno dei due ricci sul mento, forzatamente convergenti verso l’alto, dove solo una misura inferiore dello strumento avrebbe potuto operare con esiti realistici.

 

 

La documentazione di cinque simulacri ad Ozieri attesta l’espandersi di un orizzonte di notorietà nel Settentrione dell’Isola, ben oltre i confini dei Campidani sin qui documentati, e conferma le pretese di una committenza colta ed esigente, presumibilmente quella della Confraternita del Rosario proprietaria dell’oratorio di Donnigazza e delle famiglie nobili locali, titolari del patronato di numerose cappelle nelle chiese ozieresi.

Differente, da pezzo a pezzo, è lo stato di conservazione dei cinque legni. Ineccepibile e fresco di restauro è il S. Paolo eremita. In attesa di disinfestazione è, invece, il S. Agostino monco della mano destra. Una crepa longitudinale corre sul dorso della Madonna del Rosario che conserva, nel braccio destro e nella cintola, sotto una vernice posticcia di un tenue tono celestino, evidenti tracce di un rosso carminio, secondo un modello riscontrabile nella Vergine d’Itria di Selegas, dello stesso Lonis. L’intero gruppo della Madonna del Rosario con Bambino e S. Domenico è invece crivellato dall’azione preoccupante di insetti xilofagi, e pesanti, rozze ridipinture, talvolta autentiche imbrattature, guastano la nube che la sostiene, il volto del piccolo Gesù e l’abito del santo. Mutilo di alcune dita delle mani e interamente e grossolanamente ritinteggiato è, infine, il S. Francesco d’Assisi. Su tutti è auspicabile un maggiore riguardo, sapendoli, oggi, del più insigne scultore sardo del XVIII secolo.

L’articolo è stato pubblicato su «Voce del Logudoro», Ozieri, 22 gennaio 2012