Premio OzieriPremio Ozieri di Letteratura Sarda 

STORIA

di Gian Gabriele Cau

 

Leggi la Prima Parte.

 

Di sicuro interesse è la postura della gamba destra appena levata e il piede giacente su un’entità vinta, come lo è il leone in spalla al Mariano di Zuri, di cui quasi non resta traccia per la probabile azione di fedeli iconoclasti, e il pugno sinistro chiuso volto al basso, in segno esorcistico di minaccia agli inferi[69]. La calcatio colli rimanda alla nota iconografia del S. Michele che trafigge il drago sotto i suoi piedi, già documentata nel bracciolo della cattedra vescovile del santuario di S. Michele in Monte Gargano della fine dell’XI secolo. Il Mariano-Ercole di Zuri parrebbe qui presentarsi come un Mariano-San Michele, ripetendone in parte gli atteggiamenti, perché schierato con il Principe della Milizia celeste nella lotta al Maligno. Nell’inedito ritratto il sovrano è tra quattro figure, due per parte, contenute nei tre rincassi contigui, di cui la prima a bassorilievo e le altre ad altorilievo, scandite da una cornicetta a losanghe ai margini laterali. Ognuna è vestita di una tunica più o meno lunga che si apre a campana, da cui fuoriescono esili gambette. Nel capovolto si è riconosciuto Lucifero l’angelo caduto, ancora con il braccio sinistro levato e la mano aperta in memoria di una disponibilità ad accogliere lo Spirito ormai lontana. Nel secondo rincasso, filologicamente, è un femmineo San Michele con cappelli lunghi, anche lui come Lucifero privo di ali. Il patrono della chiesa e vincitore del Maligno è a sinistra del presunto Mariano ii, secondo un modello attestato a Dolianova, dove lo stesso giudice, in segno di ossequio e deferenza, si colloca a destra del S. Pantaleo[70]. Nel quarto sono Adamo ed Eva, secondo certa tradizione abbinati a S. Michele perché da lui stesso cacciati dal Paradiso Terrestre, dopo la tentazione dell’angelo ribelle[71].

Ritornando ora ai partiti decorativi interni dell’abside di Zuri, a sinistra di Mariano II, nello stesso mensolone di imposta dell’arco trionfale, si rileva una foglia d’acqua sulla quale giace, supina, una figura femminile, con l’avambraccio destro, il solo superstite seppure lacunoso, sull’addome. Veste una tunica lunga fino ai piedi, appena stretta in vita con pieghe ‘a canne d’organo’ e ampio scollo ‘a barchetta’ che espone la camicia; la manica è ‘a sbuffo’ con avambraccio fasciato. Ha lunghi capelli sulle orecchie e il volto deturpato da una vasta frattura della pietra che ha cancellato la fronte. I rapporti fisionomici sono falsati da un mento di una misura più che doppia del naso e dalla bocca stirata in un improbabile, funesto sorriso. Il suo decesso è confermato da una postura orizzontale e da un secondo ramo della stessa palma interposta tra il suo capo e quello di Mariano, che, associata al momento funebre, allude alla vita eterna[72]. Completa il quadro iconografico una foglia di acànto posta all’altro lato di un presumibile capezzale, forse simbolo di forza, in memoria delle virtù caratteriali della trapassata, ma anche di resurrezione[73]. Per la freschezza del lutto non può che essere la prima, anonima Moglie di Mariano II, figlia di Andreotto Saraceno Caldera[74] e di una sconosciuta, morta, secondo la genealogia sin qui nota, ante 1293[75], termine che deve essere aggiornato quantomeno ante 1291, anno della chiusura della fabbrica di Zuri.

Se nella collocazione e nei pattern distintivi la figura di Mariano rientra nei noti canoni dell’iconografia régia medioevale isolana, d’altro canto mostra più elementi di originalità meritevoli di considerazione. La rappresentazione del sovrano al fianco della consorte defunta non corrisponde solo alla vanità del committente di essere riconosciuto e immortalato, ma include sentimenti di pietas per l’amata, enfatizzati in un quel che appare come un piccolo monumento funerario, che anticipa il bassorilievo del sarcofago della sua nipotina Giovanna[76], la cui figuretta è tra un angelo orante e uno incensante[77]. Vano il tentativo di un raffronto in termini fisionomici tra il Mariano di Zuri e il Mariano di Dolianova. Per quella tendenza di matrice bizantina alla rappresentazione dell’uomo destinato al governo della res pubblica per il tramite dei simboli dell’imperium, lo scettro, la corona e la sfera[78], a prescindere dal realismo dei tratti somatici, si potrebbe dubitare che possa trattarsi dello stesso soggetto, se non fosse per le conferme epigrafiche a cui è consegnata la memoria documentale del giudice committente a Dolianova e a Zuri.

 

Anselmo da Como, Mariano II de Bas-Serra giudice di Arborea e sua moglie N. Saraceno Caldera, 1291, trachite, altorilievo, Zuri chiesa di S. Pietro, particolare del fregio di facciata.

 

Vaghe corrispondenze o, quantomeno, delle compatibilità fisionomiche si intuiscono, invece, tra il volto rotondo e pieno, con orecchie piccole e alte, del Mariano II di Siddi e quello di un altro suo inedito ritratto nella facciata del S. Pietro di Zuri. Sono, infatti, di Mariano II e N. Saraceno Caldera i ritratti di due mezze figure, una maschile e una femminile, sulla parasta d’angolo destra del portale principale, nella mensola di imposta della terza arcata del prospetto di facciata. I tratti somatici corrispondono agli stessi di lei defunta del cennato rilievo absidale: fronte molto bassa, naso minuto e mento esageratamente pronunciato. Veste una semplice tunica stretta al petto, con scollo circolare bordato da una doppia marcatura e ha in testa un velo che trattiene un cappellino, che ne ingentilisce il volto. Il cranio del sovrano, devastato al punto da rendere pressoché impossibile l’analisi fisionomica, mostra la parte superiore completamente piana come calzata da un copricapo a basso cilindro, che può essere una corona stilizzata. Ha collo taurino, volto forse imberbe e padiglioni auricolari ben segnati a rilievo. Difetta dello scettro, forse cancellato, semmai vi è stato, da una vasta lacuna che investe la mano destra e parte dell’addome, sul quale convergono le braccia, nella stessa postura del suo ritratto absidale. Indossa una tunica stretta da una vistosa cintura simbolo di fedeltà coniugale[79] come, si indovina, possa essere quella del ritratto absidale, intuibile per l’evidente strozzatura del giro vita.

La doppia figurazione del giudice committente ha numerosi precedenti nel Mariano IV del S. Serafino di Ghilarza, nello stesso Mariano II di Dolianova, dove una è a sinistra del prospetto principale, in uno spazio architettonico simmetricamente opposto ma di pari prestigio di questa parasta d’angolo e a Bisarcio, dove, come in questo caso, il capo di Barisone II è sul presbiterio e in facciata. Il ritratto esterno, nella fattispecie di Zuri, non pare la vanitosa replica di quello absidale. Alla rappresentazione in posizione eretta, non consegue, ipso facto, che Mariano e consorte fossero in vita quando Anselmo li ritraeva. Tutt’altro: le foglie da cui sorgono i due personaggi e le foglie di acànto alludono ad una condizione extratemporale, ad una elevazione nella gloria del Signore[80], non di meno dei motivi fitomorfici dello sfondo che prefigurano un Giardino dell’Eden.

 

Anselmo da Como, a sx: Giovanni o Chiano de Bas-Serra, a dx: Giacomina della Gherardesca, 1291, trachite, altorilievo, Zuri, chiesa di S. Pietro, mensola del catino absidale.

 

Dal matrimonio tra Mariano II e la Saraceno Caldera nacque un solo maschio, Giovanni o Chiano, donnicello del regno di Arborea in quel 1291 e judike de iure dalla morte del padre, nel 1297, fino alla sua prematura uccisione tra il 1304 e il 1307, in occasione di una sommossa popolare[81]. Esclusa qualsiasi altra ipotesi, per rilievo architettonico accordatogli a destra di Mariano, si ha ragione di riconoscerlo nel giovane imberbe, monco di entrambe le braccia (del destro, in antico, è stato tracciato il profilo con una tinta di un tono rosso brunito), rappresentato a mezza figura, ad altorilievo, sulla prima mensola del tamburo absidale di Zuri. Indossa una abbondante sottotunica aperta anteriormente, ha cappelli ‘a zazzera’ con una corta frangetta sulla fronte, naso e orecchie minuti e occhi che concordano con il sorriso, come può esserlo quello di un giovane pasciuto, coniugato dal 1287 con la pisana Giacomina della Gherardesca[82] figlia di Ildebrandesca Pannocchieschi e del celeberrimo Ugolino della Gherardesca conte di Donoratico, capitano del popolo della Repubblica di Pisa, vicario di Enzo re di Sardegna, signore della Terza parte del Cagliaritano (Sesta dal 1282), fondatore di Villa di Chiesa (Iglesias)[83], consegnato all’immortalità letteraria dell’Inferno di Dante[84].

Nella mensola seguente, forse rimaneggiata per sospetti danni a seguito del cedimento absidale, è rappresentata a altorilievo la stessa Giacomina della Gherardesca forse accovacciata, più che seduta, corpulenta e stretta in un ampio sottano. Ha lunghe e massicce trecce che calano sulle spalle, la mano destra al petto e la sinistra appena più in basso. Nella terza mensola sono due singolari leoni oranti e addossati, che richiamano quelli rampanti e affrontati sul prospetto principale dell’ex cattedrale di S. Pantaleo di Dolia, esito della stessa committenza. Hanno criniera con ciocche a fiamma e una plastica assai distante dall’altorilievo, certamente di Anselmo, delle stesse fiere del capitello della settima lesena del prospetto orientale. Scartata l’ipotesi di una valenza araldica, di un «simbolo dell’autorità»[85], di una inedita insegna di uso strettamente personale di Mariano II, in quanto estranea alla bandiera dell’Arborea, si ha ragione di crede che si tratti di una teofania dell’apocalittico Cristo Leone della tribù di Giuda[86].

La perdita della quarta mensola è stata risarcita con una aniconica, ben prima dell’anastilosi del 1925. Per la compatibilità delle dimensioni, per la pari lesione da crollo sul capo e sul braccio destro, e per il precedente riscontrato nel prospetto nord della cattedrale di Dolia (anche qui il vescovo affianca il giudice), si sospetta – se ne è fatto cenno in precedenza – che possa essere questa l’originaria collocazione del rilievo del Giovanni vescovo di Santa Giusta oggi sul campanile. Se accolta, l’ipotesi costituisce un nuovo termine per stabilire una probabile cronologia dell’edificazione del campanile, in coincidenza con la ricostruzione dell’abside, ante 1336. Sull’opposto mensolone di imposta dell’arco trionfale, il Tetramorfo marca un confine tra lo spazio privilegiato dei depositari del potere temporale, della teofania e il mondo esterno. Da sinistra a destra sono rappresentati: l’Uomo alato con un nimbo anulare e il Vangelo con il nome di «mathe / us», simile a quello della acquasantiera romanica della chiesa di Santa Vittoria di Sarroch[87], l’Aquila e il Toro decapitati, e per ultimo il Leone. Tutte le creature sono alate e in posizione eretta, antropomorfica. Il Toro mostra gli attributi sessuali, mentre quelli del Leone sarebbero stati scalpellati in antico, forse perché confuso con la lonza (o leonza) emblema della lussuria. La loro rappresentazione assume un significato non differente da quello degli angeli in gesto di «veglia, custodia e riconoscimento», che sovrastano l’immagine di Mariano ii e del Vescovo che gli è accanto a Dolianova[88], del S. Michele che affianca Mariano ii a Siddi, degli Angeli e Profeti su Barisone ii e Costantino ii di Torres e del Bue/Cristo immolato sui Figli di Barisone ii, tutti a Bisarcio, di cui si dirà più avanti.

 

Anselmo da Como, Allegoria dell’albero araldico di Arborea/albero genealogico delle presunte figlie di Mariano II, 1291, trachite, altorilievo, Zuri, chiesa di S. Pietro, capitello della semicolonna presbiteriale destra.

 

Oltre, sul capitello della semicolonna a destra dell’abside, lesionate e parzialmente mutile, sono quattro figure femminili osannanti, con le braccia protese al cielo e le mani aperte ad accogliere lo Spirito e, con esso, la volontà divina. Vestono una tunica molto costruita, stretta in vita, con strascico, manica ‘a sbuffo’ e ampio scollo sulla sottotunica plissettata. Stazionano al riparo, o meglio pendono da un albero deradicato, palese insegna del rennu de Arborée, che sorge tra i due gruppi di donne. Di questo avanzano parte del fusto con la radichetta e alcune fronde interposte tra di loro, che giungono fino a terra con tre sole foglie apicali. Altre fronde sono naturalmente voltate all’alto e si confondono con il capo di ciascuna di esse, anche questo raccordato al ramo da un picciolo, come le foglie viciniori. La strepitosa soluzione plastica, nella quale l’albero araldico di Arborea è anche allegoria del loro stesso albero genealogico, una sorta – si passi la parafrasi – di ‘albero dei natali’, autorizza a credere che, comunque, siano tutte membri della famiglia reale.

L’assunto, già di per sé valido e significante, si carica di una ulteriore valenza semantica per il confondersi delle vicende dell’araldica statale con quelle del casato regnante, in quel determinato momento storico. «Dalle fonti documentarie e dall’iconografia nota sappiamo che» – scrive Francesco Cesare Casula – «da Mariano II a Mariano IV, ovverosia tra la seconda metà del Duecento e la prima metà del Trecento, nel regno superindividuale di Arborea vi erano due insegne araldiche distinte: una dello stato, con albero verde deradicato in campo argento o bianco («vexilla alba hunciam intus pictam arborem viridem que arma ab antiquo sunt arma regno Arboree»)[89]; l’altra della dinastia regnante dei Bas-Serra, di lontana ascendenza catalana. I Bas-Serra, in ricordo di questa origine iberica, innalzavano, appunto, un proprio stendardo formato dal simbolo dello stato sardo da loro governato – l’albero deradicato – con annesse a sinistra o a destra le «armi» dei conti-re di Barcellona («que abent annexa arma regalia»)[90]»[91]. Nel 1339 quando Mariano iv venne nominato dal sovrano di Aragona conte del Goceano, quindi automaticamente suddito-vassallo del re di Sardegna e Corsica, le insegne palate furono poste sopra l’albero deradicato in gesto di personale sottomissione. Viceversa, nel 1352, in periodo di guerra fredda con i Catalano-Aragonesi (appena un anno prima dello scoppio delle ostilità) «un testimone oculare dei famosi «processos contra los Arborea» disse di aver visto nella città giudicale di Bosa le bandiere di Mariano IV che avevano le armi regali sotto l’albero deradicato, in segno di ribellione […]. Infine il 13 ottobre 1353 un quartese, Gomita de Mahins, riferì ai commissari aragonesi inquirenti che in Oristano le insegne giudicali non avevano più alcun segnale regio, ma solo l’albero deradicato statale»[92].

Ora, se lo stesso Mariano II, sotto tutela di Guglielmo di Capraia, per primo adottò lo stendardo bipartito, si ha ragione di credere che, nell’essenzialità dei quattro lunghi rami sguarniti come aste, che scandiscono il perimetro capitellare possa ravvisarsi una allusione ai pali di Aragona, in una compenetrazione inedita, assoluta e geniale di insegne domestiche e statali. Nell’iconografia sin qui nota, inclusa quella di almeno tre graffiti sul paramento esterno della stessa chiesa[93], la chioma dell’albero dell’Arborea, un sorbo (sorbus domestica)[94], volge naturalmente sempre verso l’alto e questo sarebbe stato sufficiente per portare a compimento quel progetto grafico di discendenza parentale immaginato. Difficile, invece, trovare una ragione – che non sia questa proposta – per la forzatura di inusuali fronde spoglie verso il basso di questo che, allo stato degli studi, è la più antica figurazione dell’insegna giudicale arborense, superstite.

Potrebbero essere, queste in esame, le sorelle di Giano, figlie anonime della stessa prima moglie di Mariano, di cui non si conserva altra memoria se non quella che nel 1305, ancora minorenni, sono sotto tutela di Vanni Gualandi[95]. La notizia meriterebbe una verifica e la proposta identificativa avrebbe senso solo se le si considerasse quasi coetanee del fratello, già sposato nel 1287, e almeno in età tardopuberale, come le fanciulle dotate di seno del capitello in quel 1291, salvo ammettere un riadattamento del rilievo con aggiornamento dell’iconografia, in occasione della ristrutturazione dell’abside nel 1336. La loro marginale collocazione è da porre in relazione con la consuetudine che le donne in Sardegna non potessero regnare[96] e perciò confinate in un’area prossima ma comunque esterna a quella privilegiata absidale, riservata al regnante, al donnicello e loro rispettive consorti, presumibilmente al vescovo in carica, alla teofania e al Tetramorfo.

Mariano ii, figura cardine intorno alla quale ruotano i ritratti di Zuri, sedette sul trono di Arborea complessivamente per quasi mezzo secolo, dal 1250 circa al 1264 circa sotto tutela di Guglielmo di Capraia giudice di Arborea per riconoscimento papale; dal 1264 al 1273 come giudice in ‘consorte’ con Nicolò figlio di Guglielmo e in seguito, fino alla sua morte, nel 1297, come giudice unico. Rimasto vedovo sposò in seconde nozze anche lui una Gherardesca, un’anonima figlia di Guelfo della Gherardesca conte dei Donoratico, fratello della nuora Giacomina. Astuto sovrano, godeva di fama di uomo colto, arguto e sottile politico anche oltre Tirreno. Di lui, ricorda Pietro Martini, ne scrive lo storico fiorentino Giovanni Villani in Cronache fiorentine, dalla Torre di Babele al 1336 come «uno dei più possenti cittadini d’Italia tenente a Pisa numerosa corte, e codazzo di cavalieri che seco lui rumoreggiava per quelle vie»[97]. Nel corso di un lungo regno il giudice mecenate portò a compimento importanti opere architettoniche e di riassetto urbanistico della capitale giudicale. Il nome del più effigiato di tutti i giudici di ogni tempo della Sardegna (quattro, forse cinque ritratti), compare, oltre che nelle epigrafi di Zuri e di Dolianova, anche in quelle che a Oristano ricordano la costruzione della Torre e della muraglia della Porta Ponti (1290), della Torre e muraglia di Porta a Mari (1293)[98], abbattuta nel 1907 e, nella Nurra, in quella del Castello di Monteforte, conquistato e restaurato nel 1274[99]. Le iscrizioni delle due porte cittadine, pur nella loro essenzialità, rivelano il carattere di un Mariano credente e con una precisa aspirazione: «q(ui) felix diu [vi]vat et p(ost) obitu(m) i(n) Chr(ist)o q(ui)escat»[100]. Così, col sorriso sulle labbra, come lui e tutta la famiglia si era fatto  ritrarre nei rilievi absidali di Zuri.

Sono dunque queste di Dolianova, Zuri e Siddi le più antichi effigi di sovrani arborensi, sempre riscontrate in chiese romaniche di cui, spesso documentalmente, sono i mecenati. Il fenomeno della rappresentazione del giudice committente trova pari riscontro nel Giudicato di Torres, dove l’attività edilizia régia nei secoli xi e xii fu molto intensa[101]. Nel Capo di Logudoro le figurazioni  dei  primi sovrani, seppure riconducibili a commissioni degli inizi del XII secolo, sono databili al 1250 circa. In quegli anni, regnante Barisone ii, si portava a compimento la decorazione dell’archivolto dell’arcata centrale del porticato della basilica della SS. Trinità di Saccargia (ante 1116 – metà sec. XII).

 

A sx: Costantino I de Lacon-(Gunale) giudice di Torres, a dx: Gonario II de Lacon-(Gunale) giudice di Torres, metà sec. XIII circa, attr. a maestranza di formazione pisano-pistoiese, marmo, bassorilievo, Codrongianus, basilica campestre della SS. Trinità di Saccargia, dettaglio dell’archivolto dell’arcata centrale del porticato.

 

Qui, nel fregio della Caccia al cinghiale, si inseriscono due teste coronate, nelle quali si riconoscono i ritratti dei giudici di Torres Costantino I de Lacon-(Gunale) (ante 1082 – † post 1124 ante 1127)[102] e di suo figlio Gonario II de Lacon-(Gunale) (1110 ca. – † post 1153)[103]. La loro rappresentazione in un contesto di eterno conflitto tra il Bene e il Male è iconologicamente giustificata dell’essere entrambi sostenitori della Chiesa universale nel contrasto al demoniaco, così come lo sono i loro discendenti: Barisone II nel cennato capitello del pilastro presbiteriale nord di Bisarcio, testimone di un episodio salvifico, descritto nel Trionfo di Cristo sul basilisco[104], gli inediti Figli di Barisone ii in prima linea tra mascheroni demoniaci nel capitello già nella bifora destra del portico ancora a  Bisarcio, il Mariano ii di Siddi al fianco del S. Michele che debella Lucifero e il Mariano iv a fronte dell’Agnus Dei che sottomette Lucifero del S. Serafino di Ghilarza, tutti sottostanti ad un arco esplicito richiamo della volta celeste.

Secondo quanto riferito nel Condaghe della solenne consacrazione della chiesa della SS. Trinità di Saccargia[105], Costantino i de Lacon-(Gunale) e la moglie Marcusa de Gunale, a seguito della visione in sogno di Dio e della Vergine Maria, espressero un voto col quale si erano impegnati a costruire un tempio nella vallata di Saccargia, se avessero avuto un figlio o una figlia erede al trono di Torres. Conseguita la grazia, la basilica fu edificata in più fasi: un nucleo originario, identificabile con la cappella absidale sinistra, già eretta nel 1112 quando il monastero di Saccargia fu donato ai camaldolesi, sarebbe stato ampliato e completato in un impianto con transetto triabsidato e un’aula di medie dimensioni entro il primo trentennio del 1100. Una quarantina di anni appresso il nipote Barisone ii avrebbe ultimata la fabbrica nelle forme note, con l’allungamento dell’aula, l’edificazione della torre campanaria e, per ultimo, del portico[106]. È intuitivo che i ritratti del portico siano di Costantino I e del giovane figlio Gonario II, in quegli anni associato al padre nel governo del Giudicato di Torres, ancorché privi di qualsiasi connotazione generazionale, quale la barba, che nei ritratti di Bisarcio distingue Barisone ii dal figlio Costantino II e, a Zuri, Mariano II dal figlio Chiano. La perfetta corrispondenza dei tratti fisionomici dei due volti in esame colloca, infatti, i due sovrani in una dimensione extratemporale, compatibile con lo status esistenziale di Costantino i e di Gonario ii intorno alla metà del XIII secolo. All’epoca della costruzione del portico padre e figlio sono ormai trapassati ma fruitori di una stessa grazia, di cui si volle perpetuare la memoria votiva nella facciata della basilica – è bene ricordarlo – comunque fondata da Costantino e consorte e presumibilmente solo ampliata dal nipote. La rappresentazione di qualsiasi altro giudice, oltre che irrispettosa, avrebbe vanificato il profondo significato di religiosa gratitudine che giustifica l’edificazione del tempio, nel luogo stabilito da Dio e dalla Vergine rivelatisi in sogno a Marcusa.

 

Ex voto di Gonario de Lacon-(Gunale) donnicello di Torres figlio di Costantino I, età tardo romana, rimaneggiata in epoca medioevale, basilica della SS. Trinità di Saccargia, marmo, altorilievo, paramento interno dell’aula, in prossimità del transetto sinistro.

 

Il sapore di un ex voto ha la protome in marmo bianco di un giovinetto, incassata nel paramento interno dell’aula della basilica di Saccargia, in prossimità dell’arco del transetto sinistro, ragionevolmente, in quanto priva di corona, dello stesso Gonario ii donnicello. Non si esclude che possa trattarsi di materiale di spoglio di età tardoromana, derivante da Torres; secondo Fernanda Poli «la lavorazione medievale è comunque patente nella forma della bocca appena socchiusa, di tipo etiope come quelle del grande scultore pisano Biduino»[107]. Lo stesso tratto anatomico si rileva in una seconda figurazione ad altorilievo del capo di Barisone ii de Lacon-(Gunale), che fa coppia con quello, anch’esso inedito, del figlio Costantino II de Lacon-(Gunale) (giudice di Torres dal 1170 ca. – † 1198)[108], nella mensola su cui scaricano gli archi della bifora sinistra del portico di Bisarcio, sotto l’archivolto degli Angeli e Profeti.

 

Barisone II e Costantino II de Lacon-(Gunale) giudici di Torres, ultimo quarto del sec. XII, attr. a maestranza pisana, vulcanite, altorilievo, Ozieri, chiesa campestre di S. Antioco di Bisarcio, mensola di imposta degli archi della bifora sinistra della galilea.

 

Barisone II de Lacon-(Gunale) giudice di Torres, ultimo quarto del sec. XII, attr. a maestranza borgognona, vulcanite, altorilievo, Ozieri, chiesa campestre di S. Antioco di Bisarcio, dettaglio del capitello del pilastro presbiteriale nord.

 

Barisone ha tratti fisionomici meno realistici di quelli della sua stessa effigie del rilievo presbiteriale, ma sufficienti a descrivere un uguale profilo identitario e a stabilire, in quanto rappresentative di uno stesso modello, un confronto tra modo di concepire un ritratto romanico, idealizzato e aulico, e un ritratto più autentico che preannuncia la sconvolgente evoluzione dal romanico al gotico. Il sovrano ha volto ovaloide e in capo una interessante corona a sezione rettangolare, dalla quale emerge frontalmente, con poco slancio e minimo aggetto, una gemma. Seppure poco percepibili per il forte degrado, in questa sono ancora leggibili labili tracce del graffito del profilo stilizzato della torre emblema del Giudicato di Torres, con residua merlatura bifida ghibellina, in aggetto[109]. È la più antica figurazione superstite dello stemma turritano, databile agli anni 1173-90, quando veniva portata a compimento la galilea dell’ex cattedrale bisarchiense[110]. A destra, Costantino è come un giovane dal volto ben levigato e imberbe, cinto di una semplice corona a sezione circolare, simile a quella del Mariano II di Siddi e del Mariano IV del S. Serafino di Ghilarza, per essenzialità accostabile al circulus ferri che anima la Corona Ferrea, forgiata, secondo tradizione, con uno dei chiodi della crocifissione del Cristo e considerata l’immagine stessa del concetto teocratico di «rex gratia Dei»[111].

La corrispondenza dei generi (due maschi e una femmina) e l’originaria pertinenza del capitello alla colonna della bifora destra del portico di S. Antioco[112], inducono all’identificazione, nelle tre figure a mezzobusto tra mostruose entità demoniache, dei ritratti degli altri tre Figli di Barisone ii. Emergono tutte da un giro di palmette allusive alla vittoria e al trionfo sul male, che conferiscono una lieve nota di regalità[113].  La «probabile primogenita» Susanna (post 1153 – †  ante 1186)[114], del cui viso non resta che una labile traccia del perimetro facciale, ha lunghi cappelli, che ricadono anteriormente su di una tunichetta con castigata scollatura sul piccolo seno e maniche più elaborate. Il suo ritratto è tra quelli dei fratelli effigiati anch’essi ad altorilievo, su facce contrapposte del capitello. Ittocorre, documentato nel 1203[115], e Comita[116], giudice di Torres dopo la scomparsa di Costantino tra il 1198 fino alla morte nel 1218, vestono una tunichetta a girocollo e lunghi cappelli con scriminatura centrale, tirati dietro l’orecchio sinistro e cadenti sul destro. Hanno tutti visi quadrangolari con guance paffute e occhi grandi a mandorla con palpebre ben segnate, di cui la superiore appena più estesa, come quelle di Barisone e Costantino.

 

Di sicuro interesse è la postura della gamba destra appena levata e il piede giacente su un’entità vinta, come lo è il leone in spalla al Mariano di Zuri, di cui quasi non resta traccia per la probabile azione di fedeli iconoclasti, e il pugno sinistro chiuso volto al basso, in segno esorcistico di minaccia agli inferi[69]. La calcatio colli rimanda alla nota iconografia del S. Michele che trafigge il drago sotto i suoi piedi, già documentata nel bracciolo della cattedra vescovile del santuario di S. Michele in Monte Gargano della fine dell’XI secolo. Il Mariano-Ercole di Zuri parrebbe qui presentarsi come un Mariano-San Michele, ripetendone in parte gli atteggiamenti, perché schierato con il Principe della Milizia celeste nella lotta al Maligno. Nell’inedito ritratto il sovrano è tra quattro figure, due per parte, contenute nei tre rincassi contigui, di cui la prima a bassorilievo e le altre ad altorilievo, scandite da una cornicetta a losanghe ai margini laterali. Ognuna è vestita di una tunica più o meno lunga che si apre a campana, da cui fuoriescono esili gambette. Nel capovolto si è riconosciuto Lucifero l’angelo caduto, ancora con il braccio sinistro levato e la mano aperta in memoria di una disponibilità ad accogliere lo Spirito ormai lontana. Nel secondo rincasso, filologicamente, è un femmineo San Michele con cappelli lunghi, anche lui come Lucifero privo di ali. Il patrono della chiesa e vincitore del Maligno è a sinistra del presunto Mariano ii, secondo un modello attestato a Dolianova, dove lo stesso giudice, in segno di ossequio e deferenza, si colloca a destra del S. Pantaleo[70]. Nel quarto sono Adamo ed Eva, secondo certa tradizione abbinati a S. Michele perché da lui stesso cacciati dal Paradiso Terrestre, dopo la tentazione dell’angelo ribelle[71].

Ritornando ora ai partiti decorativi interni dell’abside di Zuri, a sinistra di Mariano II, nello stesso mensolone di imposta dell’arco trionfale, si rileva una foglia d’acqua sulla quale giace, supina, una figura femminile, con l’avambraccio destro, il solo superstite seppure lacunoso, sull’addome. Veste una tunica lunga fino ai piedi, appena stretta in vita con pieghe ‘a canne d’organo’ e ampio scollo ‘a barchetta’ che espone la camicia; la manica è ‘a sbuffo’ con avambraccio fasciato. Ha lunghi capelli sulle orecchie e il volto deturpato da una vasta frattura della pietra che ha cancellato la fronte. I rapporti fisionomici sono falsati da un mento di una misura più che doppia del naso e dalla bocca stirata in un improbabile, funesto sorriso. Il suo decesso è confermato da una postura orizzontale e da un secondo ramo della stessa palma interposta tra il suo capo e quello di Mariano, che, associata al momento funebre, allude alla vita eterna[72]. Completa il quadro iconografico una foglia di acànto posta all’altro lato di un presumibile capezzale, forse simbolo di forza, in memoria delle virtù caratteriali della trapassata, ma anche di resurrezione[73]. Per la freschezza del lutto non può che essere la prima, anonima Moglie di Mariano II, figlia di Andreotto Saraceno Caldera[74] e di una sconosciuta, morta, secondo la genealogia sin qui nota, ante 1293[75], termine che deve essere aggiornato quantomeno ante 1291, anno della chiusura della fabbrica di Zuri.

Se nella collocazione e nei pattern distintivi la figura di Mariano rientra nei noti canoni dell’iconografia régia medioevale isolana, d’altro canto mostra più elementi di originalità meritevoli di considerazione. La rappresentazione del sovrano al fianco della consorte defunta non corrisponde solo alla vanità del committente di essere riconosciuto e immortalato, ma include sentimenti di pietas per l’amata, enfatizzati in un quel che appare come un piccolo monumento funerario, che anticipa il bassorilievo del sarcofago della sua nipotina Giovanna[76], la cui figuretta è tra un angelo orante e uno incensante[77]. Vano il tentativo di un raffronto in termini fisionomici tra il Mariano di Zuri e il Mariano di Dolianova. Per quella tendenza di matrice bizantina alla rappresentazione dell’uomo destinato al governo della res pubblica per il tramite dei simboli dell’imperium, lo scettro, la corona e la sfera[78], a prescindere dal realismo dei tratti somatici, si potrebbe dubitare che possa trattarsi dello stesso soggetto, se non fosse per le conferme epigrafiche a cui è consegnata la memoria documentale del giudice committente a Dolianova e a Zuri.

 

Anselmo da Como, Mariano II de Bas-Serra giudice di Arborea e sua moglie N. Saraceno Caldera, 1291, trachite, altorilievo, Zuri chiesa di S. Pietro, particolare del fregio di facciata.

 

Vaghe corrispondenze o, quantomeno, delle compatibilità fisionomiche si intuiscono, invece, tra il volto rotondo e pieno, con orecchie piccole e alte, del Mariano II di Siddi e quello di un altro suo inedito ritratto nella facciata del S. Pietro di Zuri. Sono, infatti, di Mariano II e N. Saraceno Caldera i ritratti di due mezze figure, una maschile e una femminile, sulla parasta d’angolo destra del portale principale, nella mensola di imposta della terza arcata del prospetto di facciata. I tratti somatici corrispondono agli stessi di lei defunta del cennato rilievo absidale: fronte molto bassa, naso minuto e mento esageratamente pronunciato. Veste una semplice tunica stretta al petto, con scollo circolare bordato da una doppia marcatura e ha in testa un velo che trattiene un cappellino, che ne ingentilisce il volto. Il cranio del sovrano, devastato al punto da rendere pressoché impossibile l’analisi fisionomica, mostra la parte superiore completamente piana come calzata da un copricapo a basso cilindro, che può essere una corona stilizzata. Ha collo taurino, volto forse imberbe e padiglioni auricolari ben segnati a rilievo. Difetta dello scettro, forse cancellato, semmai vi è stato, da una vasta lacuna che investe la mano destra e parte dell’addome, sul quale convergono le braccia, nella stessa postura del suo ritratto absidale. Indossa una tunica stretta da una vistosa cintura simbolo di fedeltà coniugale[79] come, si indovina, possa essere quella del ritratto absidale, intuibile per l’evidente strozzatura del giro vita.

La doppia figurazione del giudice committente ha numerosi precedenti nel Mariano IV del S. Serafino di Ghilarza, nello stesso Mariano II di Dolianova, dove una è a sinistra del prospetto principale, in uno spazio architettonico simmetricamente opposto ma di pari prestigio di questa parasta d’angolo e a Bisarcio, dove, come in questo caso, il capo di Barisone II è sul presbiterio e in facciata. Il ritratto esterno, nella fattispecie di Zuri, non pare la vanitosa replica di quello absidale. Alla rappresentazione in posizione eretta, non consegue, ipso facto, che Mariano e consorte fossero in vita quando Anselmo li ritraeva. Tutt’altro: le foglie da cui sorgono i due personaggi e le foglie di acànto alludono ad una condizione extratemporale, ad una elevazione nella gloria del Signore[80], non di meno dei motivi fitomorfici dello sfondo che prefigurano un Giardino dell’Eden.

 

Anselmo da Como, a sx: Giovanni o Chiano de Bas-Serra, a dx: Giacomina della Gherardesca, 1291, trachite, altorilievo, Zuri, chiesa di S. Pietro, mensola del catino absidale.

 

Dal matrimonio tra Mariano II e la Saraceno Caldera nacque un solo maschio, Giovanni o Chiano, donnicello del regno di Arborea in quel 1291 e judike de iure dalla morte del padre, nel 1297, fino alla sua prematura uccisione tra il 1304 e il 1307, in occasione di una sommossa popolare[81]. Esclusa qualsiasi altra ipotesi, per rilievo architettonico accordatogli a destra di Mariano, si ha ragione di riconoscerlo nel giovane imberbe, monco di entrambe le braccia (del destro, in antico, è stato tracciato il profilo con una tinta di un tono rosso brunito), rappresentato a mezza figura, ad altorilievo, sulla prima mensola del tamburo absidale di Zuri. Indossa una abbondante sottotunica aperta anteriormente, ha cappelli ‘a zazzera’ con una corta frangetta sulla fronte, naso e orecchie minuti e occhi che concordano con il sorriso, come può esserlo quello di un giovane pasciuto, coniugato dal 1287 con la pisana Giacomina della Gherardesca[82] figlia di Ildebrandesca Pannocchieschi e del celeberrimo Ugolino della Gherardesca conte di Donoratico, capitano del popolo della Repubblica di Pisa, vicario di Enzo re di Sardegna, signore della Terza parte del Cagliaritano (Sesta dal 1282), fondatore di Villa di Chiesa (Iglesias)[83], consegnato all’immortalità letteraria dell’Inferno di Dante[84].

Nella mensola seguente, forse rimaneggiata per sospetti danni a seguito del cedimento absidale, è rappresentata a altorilievo la stessa Giacomina della Gherardesca forse accovacciata, più che seduta, corpulenta e stretta in un ampio sottano. Ha lunghe e massicce trecce che calano sulle spalle, la mano destra al petto e la sinistra appena più in basso. Nella terza mensola sono due singolari leoni oranti e addossati, che richiamano quelli rampanti e affrontati sul prospetto principale dell’ex cattedrale di S. Pantaleo di Dolia, esito della stessa committenza. Hanno criniera con ciocche a fiamma e una plastica assai distante dall’altorilievo, certamente di Anselmo, delle stesse fiere del capitello della settima lesena del prospetto orientale. Scartata l’ipotesi di una valenza araldica, di un «simbolo dell’autorità»[85], di una inedita insegna di uso strettamente personale di Mariano II, in quanto estranea alla bandiera dell’Arborea, si ha ragione di crede che si tratti di una teofania dell’apocalittico Cristo Leone della tribù di Giuda[86].

La perdita della quarta mensola è stata risarcita con una aniconica, ben prima dell’anastilosi del 1925. Per la compatibilità delle dimensioni, per la pari lesione da crollo sul capo e sul braccio destro, e per il precedente riscontrato nel prospetto nord della cattedrale di Dolia (anche qui il vescovo affianca il giudice), si sospetta – se ne è fatto cenno in precedenza – che possa essere questa l’originaria collocazione del rilievo del Giovanni vescovo di Santa Giusta oggi sul campanile. Se accolta, l’ipotesi costituisce un nuovo termine per stabilire una probabile cronologia dell’edificazione del campanile, in coincidenza con la ricostruzione dell’abside, ante 1336. Sull’opposto mensolone di imposta dell’arco trionfale, il Tetramorfo marca un confine tra lo spazio privilegiato dei depositari del potere temporale, della teofania e il mondo esterno. Da sinistra a destra sono rappresentati: l’Uomo alato con un nimbo anulare e il Vangelo con il nome di «mathe / us», simile a quello della acquasantiera romanica della chiesa di Santa Vittoria di Sarroch[87], l’Aquila e il Toro decapitati, e per ultimo il Leone. Tutte le creature sono alate e in posizione eretta, antropomorfica. Il Toro mostra gli attributi sessuali, mentre quelli del Leone sarebbero stati scalpellati in antico, forse perché confuso con la lonza (o leonza) emblema della lussuria. La loro rappresentazione assume un significato non differente da quello degli angeli in gesto di «veglia, custodia e riconoscimento», che sovrastano l’immagine di Mariano ii e del Vescovo che gli è accanto a Dolianova[88], del S. Michele che affianca Mariano ii a Siddi, degli Angeli e Profeti su Barisone ii e Costantino ii di Torres e del Bue/Cristo immolato sui Figli di Barisone ii, tutti a Bisarcio, di cui si dirà più avanti.

 

Anselmo da Como, Allegoria dell’albero araldico di Arborea/albero genealogico delle presunte figlie di Mariano II, 1291, trachite, altorilievo, Zuri, chiesa di S. Pietro, capitello della semicolonna presbiteriale destra.

 

Oltre, sul capitello della semicolonna a destra dell’abside, lesionate e parzialmente mutile, sono quattro figure femminili osannanti, con le braccia protese al cielo e le mani aperte ad accogliere lo Spirito e, con esso, la volontà divina. Vestono una tunica molto costruita, stretta in vita, con strascico, manica ‘a sbuffo’ e ampio scollo sulla sottotunica plissettata. Stazionano al riparo, o meglio pendono da un albero deradicato, palese insegna del rennu de Arborée, che sorge tra i due gruppi di donne. Di questo avanzano parte del fusto con la radichetta e alcune fronde interposte tra di loro, che giungono fino a terra con tre sole foglie apicali. Altre fronde sono naturalmente voltate all’alto e si confondono con il capo di ciascuna di esse, anche questo raccordato al ramo da un picciolo, come le foglie viciniori. La strepitosa soluzione plastica, nella quale l’albero araldico di Arborea è anche allegoria del loro stesso albero genealogico, una sorta – si passi la parafrasi – di ‘albero dei natali’, autorizza a credere che, comunque, siano tutte membri della famiglia reale.

L’assunto, già di per sé valido e significante, si carica di una ulteriore valenza semantica per il confondersi delle vicende dell’araldica statale con quelle del casato regnante, in quel determinato momento storico. «Dalle fonti documentarie e dall’iconografia nota sappiamo che» – scrive Francesco Cesare Casula – «da Mariano II a Mariano IV, ovverosia tra la seconda metà del Duecento e la prima metà del Trecento, nel regno superindividuale di Arborea vi erano due insegne araldiche distinte: una dello stato, con albero verde deradicato in campo argento o bianco («vexilla alba hunciam intus pictam arborem viridem que arma ab antiquo sunt arma regno Arboree»)[89]; l’altra della dinastia regnante dei Bas-Serra, di lontana ascendenza catalana. I Bas-Serra, in ricordo di questa origine iberica, innalzavano, appunto, un proprio stendardo formato dal simbolo dello stato sardo da loro governato – l’albero deradicato – con annesse a sinistra o a destra le «armi» dei conti-re di Barcellona («que abent annexa arma regalia»)[90]»[91]. Nel 1339 quando Mariano iv venne nominato dal sovrano di Aragona conte del Goceano, quindi automaticamente suddito-vassallo del re di Sardegna e Corsica, le insegne palate furono poste sopra l’albero deradicato in gesto di personale sottomissione. Viceversa, nel 1352, in periodo di guerra fredda con i Catalano-Aragonesi (appena un anno prima dello scoppio delle ostilità) «un testimone oculare dei famosi «processos contra los Arborea» disse di aver visto nella città giudicale di Bosa le bandiere di Mariano IV che avevano le armi regali sotto l’albero deradicato, in segno di ribellione […]. Infine il 13 ottobre 1353 un quartese, Gomita de Mahins, riferì ai commissari aragonesi inquirenti che in Oristano le insegne giudicali non avevano più alcun segnale regio, ma solo l’albero deradicato statale»[92].

Ora, se lo stesso Mariano II, sotto tutela di Guglielmo di Capraia, per primo adottò lo stendardo bipartito, si ha ragione di credere che, nell’essenzialità dei quattro lunghi rami sguarniti come aste, che scandiscono il perimetro capitellare possa ravvisarsi una allusione ai pali di Aragona, in una compenetrazione inedita, assoluta e geniale di insegne domestiche e statali. Nell’iconografia sin qui nota, inclusa quella di almeno tre graffiti sul paramento esterno della stessa chiesa[93], la chioma dell’albero dell’Arborea, un sorbo (sorbus domestica)[94], volge naturalmente sempre verso l’alto e questo sarebbe stato sufficiente per portare a compimento quel progetto grafico di discendenza parentale immaginato. Difficile, invece, trovare una ragione – che non sia questa proposta – per la forzatura di inusuali fronde spoglie verso il basso di questo che, allo stato degli studi, è la più antica figurazione dell’insegna giudicale arborense, superstite.

Potrebbero essere, queste in esame, le sorelle di Giano, figlie anonime della stessa prima moglie di Mariano, di cui non si conserva altra memoria se non quella che nel 1305, ancora minorenni, sono sotto tutela di Vanni Gualandi[95]. La notizia meriterebbe una verifica e la proposta identificativa avrebbe senso solo se le si considerasse quasi coetanee del fratello, già sposato nel 1287, e almeno in età tardopuberale, come le fanciulle dotate di seno del capitello in quel 1291, salvo ammettere un riadattamento del rilievo con aggiornamento dell’iconografia, in occasione della ristrutturazione dell’abside nel 1336. La loro marginale collocazione è da porre in relazione con la consuetudine che le donne in Sardegna non potessero regnare[96] e perciò confinate in un’area prossima ma comunque esterna a quella privilegiata absidale, riservata al regnante, al donnicello e loro rispettive consorti, presumibilmente al vescovo in carica, alla teofania e al Tetramorfo.

Mariano ii, figura cardine intorno alla quale ruotano i ritratti di Zuri, sedette sul trono di Arborea complessivamente per quasi mezzo secolo, dal 1250 circa al 1264 circa sotto tutela di Guglielmo di Capraia giudice di Arborea per riconoscimento papale; dal 1264 al 1273 come giudice in ‘consorte’ con Nicolò figlio di Guglielmo e in seguito, fino alla sua morte, nel 1297, come giudice unico. Rimasto vedovo sposò in seconde nozze anche lui una Gherardesca, un’anonima figlia di Guelfo della Gherardesca conte dei Donoratico, fratello della nuora Giacomina. Astuto sovrano, godeva di fama di uomo colto, arguto e sottile politico anche oltre Tirreno. Di lui, ricorda Pietro Martini, ne scrive lo storico fiorentino Giovanni Villani in Cronache fiorentine, dalla Torre di Babele al 1336 come «uno dei più possenti cittadini d’Italia tenente a Pisa numerosa corte, e codazzo di cavalieri che seco lui rumoreggiava per quelle vie»[97]. Nel corso di un lungo regno il giudice mecenate portò a compimento importanti opere architettoniche e di riassetto urbanistico della capitale giudicale. Il nome del più effigiato di tutti i giudici di ogni tempo della Sardegna (quattro, forse cinque ritratti), compare, oltre che nelle epigrafi di Zuri e di Dolianova, anche in quelle che a Oristano ricordano la costruzione della Torre e della muraglia della Porta Ponti (1290), della Torre e muraglia di Porta a Mari (1293)[98], abbattuta nel 1907 e, nella Nurra, in quella del Castello di Monteforte, conquistato e restaurato nel 1274[99]. Le iscrizioni delle due porte cittadine, pur nella loro essenzialità, rivelano il carattere di un Mariano credente e con una precisa aspirazione: «q(ui) felix diu [vi]vat et p(ost) obitu(m) i(n) Chr(ist)o q(ui)escat»[100]. Così, col sorriso sulle labbra, come lui e tutta la famiglia si era fatto  ritrarre nei rilievi absidali di Zuri.

Sono dunque queste di Dolianova, Zuri e Siddi le più antichi effigi di sovrani arborensi, sempre riscontrate in chiese romaniche di cui, spesso documentalmente, sono i mecenati. Il fenomeno della rappresentazione del giudice committente trova pari riscontro nel Giudicato di Torres, dove l’attività edilizia régia nei secoli xi e xii fu molto intensa[101]. Nel Capo di Logudoro le figurazioni  dei  primi sovrani, seppure riconducibili a commissioni degli inizi del XII secolo, sono databili al 1250 circa. In quegli anni, regnante Barisone ii, si portava a compimento la decorazione dell’archivolto dell’arcata centrale del porticato della basilica della SS. Trinità di Saccargia (ante 1116 – metà sec. XII).

 

A sx: Costantino I de Lacon-(Gunale) giudice di Torres, a dx: Gonario II de Lacon-(Gunale) giudice di Torres, metà sec. XIII circa, attr. a maestranza di formazione pisano-pistoiese, marmo, bassorilievo, Codrongianus, basilica campestre della SS. Trinità di Saccargia, dettaglio dell’archivolto dell’arcata centrale del porticato.

 

Qui, nel fregio della Caccia al cinghiale, si inseriscono due teste coronate, nelle quali si riconoscono i ritratti dei giudici di Torres Costantino I de Lacon-(Gunale) (ante 1082 – † post 1124 ante 1127)[102] e di suo figlio Gonario II de Lacon-(Gunale) (1110 ca. – † post 1153)[103]. La loro rappresentazione in un contesto di eterno conflitto tra il Bene e il Male è iconologicamente giustificata dell’essere entrambi sostenitori della Chiesa universale nel contrasto al demoniaco, così come lo sono i loro discendenti: Barisone II nel cennato capitello del pilastro presbiteriale nord di Bisarcio, testimone di un episodio salvifico, descritto nel Trionfo di Cristo sul basilisco[104], gli inediti Figli di Barisone ii in prima linea tra mascheroni demoniaci nel capitello già nella bifora destra del portico ancora a  Bisarcio, il Mariano ii di Siddi al fianco del S. Michele che debella Lucifero e il Mariano iv a fronte dell’Agnus Dei che sottomette Lucifero del S. Serafino di Ghilarza, tutti sottostanti ad un arco esplicito richiamo della volta celeste.

Secondo quanto riferito nel Condaghe della solenne consacrazione della chiesa della SS. Trinità di Saccargia[105], Costantino i de Lacon-(Gunale) e la moglie Marcusa de Gunale, a seguito della visione in sogno di Dio e della Vergine Maria, espressero un voto col quale si erano impegnati a costruire un tempio nella vallata di Saccargia, se avessero avuto un figlio o una figlia erede al trono di Torres. Conseguita la grazia, la basilica fu edificata in più fasi: un nucleo originario, identificabile con la cappella absidale sinistra, già eretta nel 1112 quando il monastero di Saccargia fu donato ai camaldolesi, sarebbe stato ampliato e completato in un impianto con transetto triabsidato e un’aula di medie dimensioni entro il primo trentennio del 1100. Una quarantina di anni appresso il nipote Barisone ii avrebbe ultimata la fabbrica nelle forme note, con l’allungamento dell’aula, l’edificazione della torre campanaria e, per ultimo, del portico[106]. È intuitivo che i ritratti del portico siano di Costantino I e del giovane figlio Gonario II, in quegli anni associato al padre nel governo del Giudicato di Torres, ancorché privi di qualsiasi connotazione generazionale, quale la barba, che nei ritratti di Bisarcio distingue Barisone ii dal figlio Costantino II e, a Zuri, Mariano II dal figlio Chiano. La perfetta corrispondenza dei tratti fisionomici dei due volti in esame colloca, infatti, i due sovrani in una dimensione extratemporale, compatibile con lo status esistenziale di Costantino i e di Gonario ii intorno alla metà del XIII secolo. All’epoca della costruzione del portico padre e figlio sono ormai trapassati ma fruitori di una stessa grazia, di cui si volle perpetuare la memoria votiva nella facciata della basilica – è bene ricordarlo – comunque fondata da Costantino e consorte e presumibilmente solo ampliata dal nipote. La rappresentazione di qualsiasi altro giudice, oltre che irrispettosa, avrebbe vanificato il profondo significato di religiosa gratitudine che giustifica l’edificazione del tempio, nel luogo stabilito da Dio e dalla Vergine rivelatisi in sogno a Marcusa.

 

Ex voto di Gonario de Lacon-(Gunale) donnicello di Torres figlio di Costantino I, età tardo romana, rimaneggiata in epoca medioevale, basilica della SS. Trinità di Saccargia, marmo, altorilievo, paramento interno dell’aula, in prossimità del transetto sinistro.

 

Il sapore di un ex voto ha la protome in marmo bianco di un giovinetto, incassata nel paramento interno dell’aula della basilica di Saccargia, in prossimità dell’arco del transetto sinistro, ragionevolmente, in quanto priva di corona, dello stesso Gonario ii donnicello. Non si esclude che possa trattarsi di materiale di spoglio di età tardoromana, derivante da Torres; secondo Fernanda Poli «la lavorazione medievale è comunque patente nella forma della bocca appena socchiusa, di tipo etiope come quelle del grande scultore pisano Biduino»[107]. Lo stesso tratto anatomico si rileva in una seconda figurazione ad altorilievo del capo di Barisone ii de Lacon-(Gunale), che fa coppia con quello, anch’esso inedito, del figlio Costantino II de Lacon-(Gunale) (giudice di Torres dal 1170 ca. – † 1198)[108], nella mensola su cui scaricano gli archi della bifora sinistra del portico di Bisarcio, sotto l’archivolto degli Angeli e Profeti.

 

Barisone II e Costantino II de Lacon-(Gunale) giudici di Torres, ultimo quarto del sec. XII, attr. a maestranza pisana, vulcanite, altorilievo, Ozieri, chiesa campestre di S. Antioco di Bisarcio, mensola di imposta degli archi della bifora sinistra della galilea.

 

Barisone II de Lacon-(Gunale) giudice di Torres, ultimo quarto del sec. XII, attr. a maestranza borgognona, vulcanite, altorilievo, Ozieri, chiesa campestre di S. Antioco di Bisarcio, dettaglio del capitello del pilastro presbiteriale nord.

 

Barisone ha tratti fisionomici meno realistici di quelli della sua stessa effigie del rilievo presbiteriale, ma sufficienti a descrivere un uguale profilo identitario e a stabilire, in quanto rappresentative di uno stesso modello, un confronto tra modo di concepire un ritratto romanico, idealizzato e aulico, e un ritratto più autentico che preannuncia la sconvolgente evoluzione dal romanico al gotico. Il sovrano ha volto ovaloide e in capo una interessante corona a sezione rettangolare, dalla quale emerge frontalmente, con poco slancio e minimo aggetto, una gemma. Seppure poco percepibili per il forte degrado, in questa sono ancora leggibili labili tracce del graffito del profilo stilizzato della torre emblema del Giudicato di Torres, con residua merlatura bifida ghibellina, in aggetto[109]. È la più antica figurazione superstite dello stemma turritano, databile agli anni 1173-90, quando veniva portata a compimento la galilea dell’ex cattedrale bisarchiense[110]. A destra, Costantino è come un giovane dal volto ben levigato e imberbe, cinto di una semplice corona a sezione circolare, simile a quella del Mariano II di Siddi e del Mariano IV del S. Serafino di Ghilarza, per essenzialità accostabile al circulus ferri che anima la Corona Ferrea, forgiata, secondo tradizione, con uno dei chiodi della crocifissione del Cristo e considerata l’immagine stessa del concetto teocratico di «rex gratia Dei»[111].

La corrispondenza dei generi (due maschi e una femmina) e l’originaria pertinenza del capitello alla colonna della bifora destra del portico di S. Antioco[112], inducono all’identificazione, nelle tre figure a mezzobusto tra mostruose entità demoniache, dei ritratti degli altri tre Figli di Barisone ii. Emergono tutte da un giro di palmette allusive alla vittoria e al trionfo sul male, che conferiscono una lieve nota di regalità[113].  La «probabile primogenita» Susanna (post 1153 – †  ante 1186)[114], del cui viso non resta che una labile traccia del perimetro facciale, ha lunghi cappelli, che ricadono anteriormente su di una tunichetta con castigata scollatura sul piccolo seno e maniche più elaborate. Il suo ritratto è tra quelli dei fratelli effigiati anch’essi ad altorilievo, su facce contrapposte del capitello. Ittocorre, documentato nel 1203[115], e Comita[116], giudice di Torres dopo la scomparsa di Costantino tra il 1198 fino alla morte nel 1218, vestono una tunichetta a girocollo e lunghi cappelli con scriminatura centrale, tirati dietro l’orecchio sinistro e cadenti sul destro. Hanno tutti visi quadrangolari con guance paffute e occhi grandi a mandorla con palpebre ben segnate, di cui la superiore appena più estesa, come quelle di Barisone e Costantino.

 

Donnicello Comita de Lacon-(Gunale) di Torres figlio di Barisone ii di Torres, ultimo quarto del sec. XII, attr. a maestranza pisana, vulcanite, altorilievo, lato a del capitello della bifora destra della galilea della chiesa di S. Antioco di Bisarcio, Ozieri, Museo diocesano di Arte sacra.

 

Susanna de Lacon-(Gunale) figlia di Barisone II, lato c del capitello della bifora destra della galilea di S. Antioco di Bisarcio, Ozieri, Museo diocesano di Arte sacra.

 

Ittocorre de Lacon-(Gunale) figlio di Barisone II, lato b del capitello della bifora destra della galilea di S. Antioco di Bisarcio, Ozieri, Museo diocesano di Arte sacra.

 

Nonostante il forte degrado, resta traccia più o meno evidente delle braccia tese che si allacciavano dietro i mascheroni per rimarcare il vincolo familiare ma, soprattutto, per ‘transennare’, ‘fare cerchio’ e allontanare entità negative, rappresentate da demoniaci mascheroni e altre mostruosità ai quattro angoli del manufatto, solo in parte sopravvissute. Si crede che nella quarta faccia del capitello, oggi completamente abrasa, fosse il ritratto di Preziosa de Orrù (doc. 1158-78) moglie di Barisone[117]. L’ipotesi appare più che probabile ove si consideri che il soggetto perduto volgeva ad ovest, a vista sul prospetto di facciata[118], simmetrico e quasi con pari dignità e rilievo architettonico dei ritratti di Barisone e Costantino, ad un livello appena inferiore perché, come i figli, gerarchicamente ‘sotto-messa’ al sovrano[119]. Contrapposto, ad est, nel lato meno in luce, era il ritratto della figlia Susanna, l’ultima, in quanto figlia femmina, dell’intera corte reale, anche questo scalpellato per incassare i cantonetti dei murazzi di occlusione della bifora. Su tutti, nella mensola su cui scaricano i due archi, vigila e protegge, ancora in situ, la protome di un Bue «animale sacrificale per eccellenza, [che] rappresenta Cristo immolato sulla croce»[120]. La sua vittoria sulla morte è rimarcata da una teoria di altre palmette nella ghiera esterna dell’archivolto e nei due archi minori della bifora. Con il rilievo di Costantino ii associato al trono paterno almeno dal 1170 al 1190 poi re fino al 1198 e di Comita ii suo successore, si estende e si chiude nella quarta generazione, la genealogia dei ritratti dei cinque ‘giudici-committenti’ di Torres, avviata a Saccargia. La più lunga, senza soluzione di continuità, di tutta la vicenda giudicale.

 

La vittoria del Verbo di Dio sulla bestia e sul falso profeta, ante XI sec., attr. a maestranze di cultura romano-barbarica, marmo, Olbia, basilica minore di S. Simplicio, facciata, testata anteriore navatella sinistra, sottarco destro.

 

Piace concludere questo itinerario di storia ma anche di tangibili testimonianze di devozione e fede con un rimando al Giudicato di Gallura, sinora esente da esplicite, documentate, figurazioni litiche di un giudice. L’autorità régia in questo caso è solo evocata in tre formelle di marmo, entro le lunette degli archetti (la volta celeste) nella facciata della basilica minore di San Simplicio di Olbia. Nella testata anteriore della navatella sinistra, il sottarco destro ne contiene due: nel primo a sinistra, all’interno di una cornice a rilievo scavata nello spessore stesso della lastra (cm 40 x 30 circa), un antropomorfo in sella ad un cavallo trattiene con la mano sinistra le briglie e con la destra impugna uno scettro che calca un piccolo tino. In alto a sinistra, un secondo antropomorfo, trasversale e di una taglia inferiore, stringe nella destra un grosso dardo estratto da un’anca ormai perduta. Nella sezione ad esso sottostante un quadrupede con corna appena accennate, si erge sugli arti posteriori.

Il bassorilievo è opera dello stesso artefice dei due pilastrini della trifora, lo dichiara la perfetta corrispondenza del volto a cono inverso del cavaliere con la protome del rilievo a metà del fusto del pilastrino polistilo sinistro. Si tratta di un manufatto di spoglio dove, è stato scritto, «la tipica disarticolazione compositiva rimanda direttamente alle scene istoriate nelle fibbie metalliche di produzione mediterranea, per il cui tramite poté aversi una qualche eco dei modi correnti nella figurazione romano-barbarica»[121]. Quel che qui interessa, al di là di una più precisa cronologia del manufatto, è il valore semantico assegnatogli dall’architetto ma anche e soprattutto dal committente giudice di Gallura, nel momento del recupero della formella in facciata. Nel brano in esame si è riconosciuto, per quanto male interpretato[122], un rimando diretto ad un passaggio dell’Apocalisse di S. Giovanni: la Vittoria del Verbo di Dio «il Re dei re e il Signore dei signori»[123], ergo il Giudice dei giudici, sulla bestia e sul falso profeta[124]. Il cavaliere è il Cristo Giudice «Fedele e Veritiero» che monta un «cavallo bianco», «giudica e combatte con giustizia»[125] e incarna quegli stessi ideali nei quali il committente – forse Manfredi de Gallura, (U)baldo i de Gallura, Costantino i della Gherardesca o Torchitorio de Zori succedutisi sul trono tra il 1050 e il 1113, anni della costruzione della fabbrica – si riconosceva. Il quadrupede catturato e stretto da un laccio ad una colonnetta è la bestia che sale dalla terra «con due corna simili a quelle di un agnello»[126]. Lo scettro di ferro che pigia «nel tino il vino dell’ira furiosa di Dio, l’Onnipotente»[127], castiga  e ‘mette da parte’ il falso profeta che precipita, vinto da un dardo, come un demonio zoppo. Dell’originaria campitura di un tono rosso bruno, lo stesso del «mantello intriso di sangue»[128] del Cristo, sopravvivono lacerti al margine superiore e inferiore sinistro, e nel breve spazio mediano tra il piede e il capo dei due antropomorfi.

In rapporto di continuità iconologia con questa, si pone l’attigua formella minore quadrata e l’altra nel sottarco sinistro degli archetti in simmetria, di simili dimensioni (15 x  15 cm circa) e pari  gusto pisano[129]. Nella prima, un quadrato inscritto in un cerchio allude ad un astro ‘pulsante’, un sole raggiante; nella seconda, una rosa di triangoli a fasce concentriche intorno ad un disco centrale richiama lo stesso Cristo/Sole di Giustizia ricordato degli antichi Padri in relazione al ritorno del Signore nel dies irae[130]. Si ribadisce così, per emblemi ed allegorie, uno stesso ideale di giustizia cristiana, a cui il giudice, rex gratia Dei, protendeva e come tale amava proporsi.

Donnicello Comita de Lacon-(Gunale) di Torres figlio di Barisone ii di Torres, ultimo quarto del sec. XII, attr. a maestranza pisana, vulcanite, altorilievo, lato a del capitello della bifora destra della galilea della chiesa di S. Antioco di Bisarcio, Ozieri, Museo diocesano di Arte sacra.

 

Susanna de Lacon-(Gunale) figlia di Barisone II, lato c del capitello della bifora destra della galilea di S. Antioco di Bisarcio, Ozieri, Museo diocesano di Arte sacra.

 

Ittocorre de Lacon-(Gunale) figlio di Barisone II, lato b del capitello della bifora destra della galilea di S. Antioco di Bisarcio, Ozieri, Museo diocesano di Arte sacra.

 

Nonostante il forte degrado, resta traccia più o meno evidente delle braccia tese che si allacciavano dietro i mascheroni per rimarcare il vincolo familiare ma, soprattutto, per ‘transennare’, ‘fare cerchio’ e allontanare entità negative, rappresentate da demoniaci mascheroni e altre mostruosità ai quattro angoli del manufatto, solo in parte sopravvissute. Si crede che nella quarta faccia del capitello, oggi completamente abrasa, fosse il ritratto di Preziosa de Orrù (doc. 1158-78) moglie di Barisone[117]. L’ipotesi appare più che probabile ove si consideri che il soggetto perduto volgeva ad ovest, a vista sul prospetto di facciata[118], simmetrico e quasi con pari dignità e rilievo architettonico dei ritratti di Barisone e Costantino, ad un livello appena inferiore perché, come i figli, gerarchicamente ‘sotto-messa’ al sovrano[119]. Contrapposto, ad est, nel lato meno in luce, era il ritratto della figlia Susanna, l’ultima, in quanto figlia femmina, dell’intera corte reale, anche questo scalpellato per incassare i cantonetti dei murazzi di occlusione della bifora. Su tutti, nella mensola su cui scaricano i due archi, vigila e protegge, ancora in situ, la protome di un Bue «animale sacrificale per eccellenza, [che] rappresenta Cristo immolato sulla croce»[120]. La sua vittoria sulla morte è rimarcata da una teoria di altre palmette nella ghiera esterna dell’archivolto e nei due archi minori della bifora. Con il rilievo di Costantino ii associato al trono paterno almeno dal 1170 al 1190 poi re fino al 1198 e di Comita ii suo successore, si estende e si chiude nella quarta generazione, la genealogia dei ritratti dei cinque ‘giudici-committenti’ di Torres, avviata a Saccargia. La più lunga, senza soluzione di continuità, di tutta la vicenda giudicale.

 

La vittoria del Verbo di Dio sulla bestia e sul falso profeta, ante XI sec., attr. a maestranze di cultura romano-barbarica, marmo, Olbia, basilica minore di S. Simplicio, facciata, testata anteriore navatella sinistra, sottarco destro.

 

Piace concludere questo itinerario di storia ma anche di tangibili testimonianze di devozione e fede con un rimando al Giudicato di Gallura, sinora esente da esplicite, documentate, figurazioni litiche di un giudice. L’autorità régia in questo caso è solo evocata in tre formelle di marmo, entro le lunette degli archetti (la volta celeste) nella facciata della basilica minore di San Simplicio di Olbia. Nella testata anteriore della navatella sinistra, il sottarco destro ne contiene due: nel primo a sinistra, all’interno di una cornice a rilievo scavata nello spessore stesso della lastra (cm 40 x 30 circa), un antropomorfo in sella ad un cavallo trattiene con la mano sinistra le briglie e con la destra impugna uno scettro che calca un piccolo tino. In alto a sinistra, un secondo antropomorfo, trasversale e di una taglia inferiore, stringe nella destra un grosso dardo estratto da un’anca ormai perduta. Nella sezione ad esso sottostante un quadrupede con corna appena accennate, si erge sugli arti posteriori.

Il bassorilievo è opera dello stesso artefice dei due pilastrini della trifora, lo dichiara la perfetta corrispondenza del volto a cono inverso del cavaliere con la protome del rilievo a metà del fusto del pilastrino polistilo sinistro. Si tratta di un manufatto di spoglio dove, è stato scritto, «la tipica disarticolazione compositiva rimanda direttamente alle scene istoriate nelle fibbie metalliche di produzione mediterranea, per il cui tramite poté aversi una qualche eco dei modi correnti nella figurazione romano-barbarica»[121]. Quel che qui interessa, al di là di una più precisa cronologia del manufatto, è il valore semantico assegnatogli dall’architetto ma anche e soprattutto dal committente giudice di Gallura, nel momento del recupero della formella in facciata. Nel brano in esame si è riconosciuto, per quanto male interpretato[122], un rimando diretto ad un passaggio dell’Apocalisse di S. Giovanni: la Vittoria del Verbo di Dio «il Re dei re e il Signore dei signori»[123], ergo il Giudice dei giudici, sulla bestia e sul falso profeta[124]. Il cavaliere è il Cristo Giudice «Fedele e Veritiero» che monta un «cavallo bianco», «giudica e combatte con giustizia»[125] e incarna quegli stessi ideali nei quali il committente – forse Manfredi de Gallura, (U)baldo i de Gallura, Costantino i della Gherardesca o Torchitorio de Zori succedutisi sul trono tra il 1050 e il 1113, anni della costruzione della fabbrica – si riconosceva. Il quadrupede catturato e stretto da un laccio ad una colonnetta è la bestia che sale dalla terra «con due corna simili a quelle di un agnello»[126]. Lo scettro di ferro che pigia «nel tino il vino dell’ira furiosa di Dio, l’Onnipotente»[127], castiga  e ‘mette da parte’ il falso profeta che precipita, vinto da un dardo, come un demonio zoppo. Dell’originaria campitura di un tono rosso bruno, lo stesso del «mantello intriso di sangue»[128] del Cristo, sopravvivono lacerti al margine superiore e inferiore sinistro, e nel breve spazio mediano tra il piede e il capo dei due antropomorfi.

In rapporto di continuità iconologia con questa, si pone l’attigua formella minore quadrata e l’altra nel sottarco sinistro degli archetti in simmetria, di simili dimensioni (15 x  15 cm circa) e pari  gusto pisano[129]. Nella prima, un quadrato inscritto in un cerchio allude ad un astro ‘pulsante’, un sole raggiante; nella seconda, una rosa di triangoli a fasce concentriche intorno ad un disco centrale richiama lo stesso Cristo/Sole di Giustizia ricordato degli antichi Padri in relazione al ritorno del Signore nel dies irae[130]. Si ribadisce così, per emblemi ed allegorie, uno stesso ideale di giustizia cristiana, a cui il giudice, rex gratia Dei, protendeva e come tale amava proporsi.

 

 


 

[69] Sulla valenza esorcistica del pugno chiuso nell’«homo religiosus», si veda lo studio di V. Messori, Pensare la storia. Una lettura cattolica dell’avventura umana, Milano 1992, pp. 534-535. L’iconografia mostra delle corrispondenze anche con la Discesa agli inferi, l’anastasi bizantina, del ciclo di affreschi della SS. Trinità di Saccargia di Codrongianus (seconda metà XII sec.) dove il Cristo col pugno chiuso minaccia gli inferi e pratica la calcatio colli sul Maligno.

[70] M.C. Cannas 1991, p. 224.

[71] La proposta identificativa delle altre figure è di M. Botteri, Guida alle chiese medievali di Sardegna, Sassari 1978, p. 141 e condivisa da R. Coroneo, Chiese romaniche della Sardegna. Itinerari turistico-culturali, Cagliari 2005.

[72] E. Urech, v. “palma”, in Dizionario …, cit., pp. 188-190.

[73] C. Gatto Trocchi, v. “acànto”, in Enciclopedia illustrata dei simboli, Roma 2004, p. 15. «Presente dall’antichità nella decorazione architettonica come simbolo di immortalità; nel cristianesimo [l’acànto] è segno di resurrezione», cfr. C. Muscolino, Il Tempio Malatestiano di Rimini, Ravenna 2000, p. 81.

[74] L.L. Brook, M. Tangheroni (a cura di), v. “Andreotto Saraceno Caldera”, “Saraceno Caldera, Ebriaci”, in Genealogie…, cit., pp. 104-105, tav. XVI; p. 263, XVI, 21.

[75] L.L. Brook, M.M. Costa (a cura di), v. “Mariano ii de Bas-(Serra)”, cit.; L.L. Brook, M. Tangheroni (a cura di), v. “Andreotto Saraceno Caldera”, cit.

[76] L.L. Brook, M.M. Costa (a cura di), v. “Giovanna (de Bas-Serra)”, “Bas-Serra Giudici di Arborea (1)”, cit., pp. 136-137, tav. XXXII; p. 385, XXXII, 12.

[77] Sarcofago della piccola Giovanna de Bas-Serra, figlia del Giudice Chiano di Arborea e di Giacomina della Gherardesca, marmo, 1308, Oristano, episcopio.

[78] Per l’iconografia e la bibliografia dell’immagine sovrana in alcuni sigilli sardi e catalani del XII-XIV secolo, si veda il saggio di M.C. Cannas, “Alcuni aspetti …”, cit., pp. 209-210. Tra le rare testimonianze superstiti della figurazione di una corte regia bizantina in Sardegna nei secc. X-XI, merita attenzione l’ipotesi di Antonio Taramelli (1906) e Alberto Boscolo (1978) ripresa da Roberto Coroneo, che riconosce nel protospataro regio Torchitorio e in sua moglie Nispella accompagnati da musici e almeno un guerriero i personaggi rappresentati a bassorilievo in due frammenti marmorei, provenienti dalla basilica di S. Antioco a Sant’Antioco, cfr. R. Coroneo, “Frammenti scultorei del VI al XI secolo”, in L. Porru, R. Serra, R. Coroneo, “Sull’iconografia di alcune sculture sulcitane altomedievali, in relazione all’epigrafe greca di Sant’Antioco”, in  Archivio Storico Sardo, XXXVI (1989), pp. 91-99, figg. 1-9. Per una bibliografia completa su questi rilievi si rimanda al citato saggio di Coroneo.

[79] J. Hall, v. “cintola”, Dizionario…, cit., p. 104. Non si esclude che la simbologia della cinghia affondi  la sua origine nel versetto del Libro di Isaia XI, 4, quando in riferimento al Messia profetizza: «Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia, cintura dei suoi fianchi la fedeltà».

[80] M. Feuillet, v. “acànto”, Lessico dei simboli cristiani, Roma 2006, p. 7.

[81] La prima menzione di Giovanni è del 1287, quando sposò Giacomina. Da questa unione nacque Giovanna. Da una lunga precedente relazione con Vera Cappai ebbe due figli: Andreotto e Mariano. Quest’ultimo gli successe al trono quando Giovanni morì un 23 marzo tra il 1304 e il 1307, a seguito di una sommossa popolare, cfr. L.L. Brook, M.M. Costa (a cura di), v. “Giovanni o Chiano de Bas-(Serra)”, “Bas-Serra Giudici di Arborea (1)”, cit., pp. 136-137, tav. XXXII; pp. 383-384, XXXII, 8.

[82] Alla morte di Chiano, Giacomina sposò in seconde nozze Tedice della Gherardesca conte di Donoratico e rivendicò i diritti  sul Giudicato d’Arborea in quanto erede della figlia Giovanna, nata dal precedente matrimonio e morta nel 1308; ottenne un vano riconoscimento giuridico sul giudicato dall’imperatore Ludovico il Bavaro nel 1329, cfr. L.L. Brook, M. Tangheroni (a cura di), v. “Giacomina della Gherardesca”, “Donoratico della Gherardesca”, pp. 94-95, tav. xi; p. 236, XI,17; pp. 136-137, tav. XXXII; in Genealogie…, cit.

[83] Ivi,  v. “Ugolino della Gherardesca”, pp. 94-95, tav. XI; p. 234-235, XI, 9.

[84] Inferno XXXIII, 67-78.

[85] E. Urech, v. “leone”, in Dizionario …, cit., p. 149.

[86] Libro dell’Apocalisse, v, 5.

[87] Acquasantiera con il Tetramorfo, prima metà del XI secolo, altorilievi in marmo bianco, cm 42, Sarroch, parrocchiale di S. Vittoria.

[88] M.C. Cannas, “Alcuni aspetti …”, cit., pp. 212-213.

[89] «A.C.A., P.A., vol. V, f. 76», cfr. F.C. Casula, “La scoperta dei busti di pietra …”, cit., p. 11 nota 8.

[90] «F.C. Casula, Profilo storico della Sardegna catalano-aragonese. 1° ediz., Cagliari 1982 […]», ivi nota 10.

[91] «Archivio della Corona d’Aragona di Barcellona, Real Audiencia, Processos de Arborea, voll. I-X; F.C. Casula, Cultura e scrittura dell’Arborea al tempo della Carta de Logu, Cagliari 1979, p. 71 e ss.; F.C. Casula, La Sardegna giudicale (secc. X-XV, in aa. vv., Genealogie medioevali di Sardegna, [cit.], pp. 50-51. Per l’iconografia vedi, ad esempio, lo stemma e la campana della torre di Mariano a Oristano e la lapide funeraria di Costanza di Saluzzo riportata anche in R. Carta Raspi, Ugone III d’Arborea e le due ambasciate di Luigi d’Anjou, Cagliari 1936, p. 88», ivi, nota 7.

[92] F.C. Casula, “La scoperta dei busti di pietra ”, cit., p. 11.

[93] «Hanno particolare importanza le rappresentazioni dell’albero deradicato, simbolo dei giudici d’Arborea: ve ne sono due, uno dei quali perfettamente leggibile, sullo stesso concio del lato destro, seconda arcata», terzo filare, cfr. A.L. Sanna, San Pietro di Zuri. Una chiesa…, cit., pp. 8 fig. 1, 48, fig. 2, 49. Un terzo, inedito e spoglio, è graffito nel terzo filare della terza arcata del fianco est.

[94] A.L. Sanna, San Pietro di Zuri. Una chiesa…, cit., p. 12. Lo stemma dell’albero deradicato appartenente alla famiglia catalana dei Cervera, è acquisito come insegna statale dell’Arborea nel 1157 a seguito del matrimonio di Barisone i con Agalbursa figlia di Poncio de Cervera e di Ugo dei Bas fratello di Agalbursa con Ispella de Serra figlia di Barisone. «In catalano cervera, o servera, significa sorbo, albero di sorbe», cfr. L. Fadda, S. Serafino…, cit., p. 79, nota 18.

[95] L.L. Brook, M.M. Costa (a cura di), v. “n n n (de Bas-Serra)”, “Bas-Serra Giudici di Arborea (1)”, cit., pp. 136-137, tav. XXXII; p. 383, XXXII, 7. L.L. Brook, M. Tangheroni (a cura di), v. “Vanni o Giovanni o ‘Vannuccio’ Gualandi-Cortevecchia”, “Gualandi Cortevecchia”, in Genealogie…, cit., p. 256, XI, 13.

[96] A.M. Oliva, “La successione dinastica femminile nei troni giudicali sardi”, in Miscellanea di studi medioevali sardo-catalani, Cagliari 1981.

[97] «Gio. Villani, Stor. fiorent. lib. VII, cap. 45», cfr. G. Manno, Storia di Sardegna, Torino 1835, VIII, pp. 374 nota 2.

[98] T. Casini, “Iscrizioni sarde del Medioevo”, in Archivio storico sardo, I, fasc. 4,1905, p. 309, n. 2, pp. 332, 334-335, nn. 31-34. Per una più completa bibliografia sulle iscrizioni marianiane si rimanda a M.C. Cannas, “Alcuni aspetti …”, cit., p. 219, nota 41.

[99] G. Spiga, “Il Castello di Monteforte nella Nurra attraverso la lettura di un’epigrafe medievale”, in Miscellanea di studi medievali…, cit. L’epigrafe della Porta di S. Cristoforo è conservata a Oristano presso l’Antiquarium Arborense, quella del castello di Monteforte a Sassari nel Museo Nazione ‘G.A. Sanna’.

[100] F. Nissardi, “Una oscura pagina di storia sarda sul Giudicato di Arborea, in relazione ad alcuni monumenti epigrafici”, in Bullettino Bibliografico Sardo, III (1903), p. 72; F. Fois, M.E. Cadeddu, Castelli della Sardegna medioevale, Cinisello Balsamo 1992, p. 115. Nella seconda, assai simile alla prima, Mariano domanda una prece a chiunque leggesse l’epigrafe, cfr. C. Aru, S. Pietro di Zuri, cit., p. 20; T. Casini, “Iscrizioni sarde….”, cit., pp. 334-335.

[101] «Gonario I Comita dava inizio intorno al 1030-40 alla basilica di San Gavino a Porto Torres, ultimata dopo la sua morte dal figlio Barisone I Torchitorio († 1066?); Giorgia, sorella di Gonario, gettava le fondazioni intorno al 1050 della chiesa protoromanica di Santa Maria del Regno di Ardara; Mariano I (not. 1065-82), figlio del giudice Andrea Tanca († ante 1065?), costruiva (o ricostruiva), nella seconda metà del secolo XI, il monastero di San Michele di Plaiano a Sassari e la Santa Maria di Castro a Oschiri (forse restaurò anche il San Michele di Salvenero a Ploaghe); Costantino i († ante 1127) erigeva la basilica di Saccargia consacrata nel 1116, ma ovviamente cominciata almeno un decennio prima, e poco più tardi era nuovamente costretto a mettere nuovamente mano alla chiesa ardarese di cui, per probabili dissesti statici, fu necessario restaurare la navatella destra e ricostruire la facciata», cfr. F. Poli, “La decorazione scultorea del Sant’Antioco di Bisarcio. Nuovi dati per vecchie attribuzioni”, in Sacer, VI(1999), p. 171. Lo stesso Gonario ii di Torres di ritorno da un pellegrinaggio in Terrasanta «incontrò Bernardo di Chiaravalle e a lui chiese l’invio di monaci per una fondazione cistercense nella ricca curtis di Cabu Abbas, dove sorse S. Maria di Corte, cfr. R. Serra, La Sardegna, cit., p. 414.

[102] L.L. Brook, F.C. Casula (a cura di), v. “Costantino i de Lacon-(Gunale)”, “Casate indigene dei giudici di Torres”, in Genealogie …, cit., pp. 82-83, tav. v; pp. 191-192, v, 14.

[103] Ivi, v. “Gonario II de Lacon-(Gunale)”, pp. 82-83, tav. v; p. 195, v, 26. L.L. Brook, F.C. Casula (a cura di), v. “Gonario II de Lacon-(Gunale)”, “Casate indigene dei giudici di Torres (2)”, in Genealogie…, cit., pp. 82-83, tav. v; pp. 84-85, tav. vi; p. 198, vi, 1. Il riconoscimento sarebbe in Gonario I, ove non si accettasse che la linea dinastica dei giudici di Torres inizi con il Gonnario I-Comita, la cui esistenza storica non è in realtà comprovata da nessun documento coevo (cfr. M.G. Sanna, “La cronotassi dei giudici di Torres”, in La civiltà giudicale in Sardegna nei secoli XI-XIII. Fonti e documenti scritti, atti del Convegno nazionale di studi, Sassari, Aula magna dell'Università, 16-17 marzo 2001; Usini, Chiesa di Santa Croce, 18 marzo 2001, a cura dell’Associazione «Condaghe S. Pietro in Silki», Sassari 2002, pp. 97-113). Delle due protomi, solo quella a sinistra, con un’iride ancora piombata, è della seconda metà del XII secolo, l’altra è copia ottocentesca; il rilievo originale è conservato all’interno della basilica. La notizia dell’identificazione dei ritratti giudicali di Saccargia è stata anticipata in G.G. Cau, “Architrave gotico-aragonese…”, cit., pp. 23-24.

[104] G.G. Cau, “Il Santo Stefano barbato ”, cit., pp. 159-178.

[105] P. Tola, Codex diplomaticus Sardiniae, Torino 1861, I, p. 192.

[106] F. Poli, Saccargia. L’abbazia della SS. Trinità, Roma 2008, pp. 16-28.

[107] Ivi, pp. 71-72.

[108] L.L. Brook, F.C. Casula (a cura di), v. “Costantino II de Lacon-(Gunale)”, “Casate indigene dei giudici di Torres”, in Genealogie…, cit., pp. 84-85, tav. VI; p. 200, VI, 6; M.G. Sanna, La cronotassi dei giudici di Torres, cit., pp. 97-113.

[109] Il disegno della torre riecheggia quello più tardo dello scudo retto dall’angelo della mensola dell’arco del portale gotico-aragonese sud-est (XV sec.), della basilica di San Gavino a Porto Torres, con quattro merli bifidi, ghibellini.

[110] R. Serra, La Sardegna, cit., p. 268; G.G.  Cau, “Il Santo Stefano barbato ”, cit., p. 178.

[111] Lo stesso titolo fu adottato, per primo tra i giudici di Torres, dal nonno di Barisone II, Costantino I, proprio nell’atto con il quale riconfermava alla cattedrale bisarchiense i suoi possedimenti, stante la perdita della copia originale, in un incendio dell’archivio episcopale, cfr. P. Tola (a cura di), Codex diplomaticus Sardiniae, I, Torino 1861, pp. 183-184, n. IX.

[112] A causa del deterioramento, il capitello fu ritirato in occasione dei lavori di restauro del 1958 e solo di recente esposto presso il Museo diocesano di Arte sacra di Ozieri.

[113] E. Urech, v.  “palma”, in Dizionario …, cit.,  pp. 188-190.

[114] L.L. Brook, F.C. Casula (a cura di), v. “Susanna (de Lacon-Gunale)”, “Casate indigene dei giudici di Torres”, cit., pp. 84-85, tav. VI; p. 200, VI, 7.

[115] Ivi, v. “Ittocorre (de Lacon-Gunale)”, pp. 84-85, tav. VI; pp. 200-201, VI, 8.

[116] Ivi, v. “Comita (de Lacon-Gunale)”, pp. 84-85, tav. VI; p. 201, VI, 9.

[117] Ivi, v. “Barisone II de Lacon-(Gunale)”, pp. 84-85, tav. VI; p. 199, VI, 2.

[118] L’immagine con il capitello in situ è pubblicata in R. Delogu, L’architettura…, cit., tav. CXXXVII.

[119] Ulteriore riscontro della consueta rappresentazione di altri reali, fino alla seconda e terza generazione, si ha nel S. Pietro di Zuri con le Figlie di Mariano II  nella semicolonna del presbiterio e nel S. Gavino di Monreale, dove oltre ai già ricordati Ugone III ed Eleonora sono, su lesena del retro della finestra gotica dell’abside, i ritratti di Eleonora  con i figli Federico e Mariano, cfr. F.C. Casula, “La scoperta dei busti in pietra ”, cit., p. 16.

[120] M. Feuillet, v. “bue”, Lessico…, cit., p. 22.

[121] R. Coroneo – R. Serra, Patrimonio Artistico Italiano. Sardegna preromanica e romanica, S. Egidio alla Vibrata 2004, p. 117.

[122] L. Agus,Un bassorilievo del VII secolo nella facciata della basilica minore di San Simplicio ad Olbia”, ISSN 1127-4883 in BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, dvii/2008, http://www.bta.it/txt/a0/05/bta00507.html

[123] Apocalisse, XIX, 16

[124] Ivi, XIX, 11-21.

[125] Ivi, XIX, 11.

[126] Ivi, XIX, 11.

[127] Ivi, XIX, 15.

[128] Ivi, XIX, 13

[129] R. Coroneo – R. Serra, Patrimonio …, cit., p. 117.

[130] Malachia IV, 1-2; Isaia XXX, 26 e LXII, 1; Sapienza V, 6.

 

STORIA

di Gian Gabriele Cau

 

 

 

Estratto da: «Theologica & Historica Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna», n. XXIII (2013) , pp. 265-308.

 

 

Poco distante dallo svincolo di Ghilarza della ss. 131, presso il villaggio di Zuri (frazione di Ghilarza), la chiesa di San Pietro domina il lago Omodeo, al cui invaso fu sottratta con ricostruzione anastilotica più a monte, nel triennio 1923-25. Raro esempio di architettura tardoromanico lombarda, fu edificata sul volgere del xiii secolo in una Sardegna dominata dal romanico pisano, per il patronato di una committenza giudicale di alte pretese, che nelle mani esperte di un maestro di Como aveva posto uno dei progetti più significativi di un ampio piano di riqualificazione architettonica del Giudicato di Arborea. Sono gli anni in cui era stato appena portato a compimento il San Francesco di Stampace di Cagliari, la prima chiesa sarda nella quale si riscontra l’eco diretta di aule fortemente allungate come questa di Zuri e come quelle che andavano diffondendosi nella stessa epoca nel Continente. Tuttavia, nonostante le grandi monofore che pure danno all’interno una luminosità tra le più alte di tutto l’intero sviluppo dell’architettura medioevale isolana[1] e l’innovativa pianta, la chiesa – scrive Raffaello Delogu – appare ancora come un «compromesso tra sensibilità gotica e un modo di sentire lo spazio romanico», poiché l’impianto mononavale è caratterizzato da proporzioni modulate tra i due stili: alla misura gotica (lunghezza 4: larghezza 1) si accompagna una cubatura ancora romanica (larghezza 1: altezza 1), che soffoca l’aula.

Gli aspetti architettonici della parrocchiale, edificata in una bella vulcanite rosso-bruno delle cave di Ghiarzu nell’agro di Bidonì, sono stati ampiamente indagati da numerosi studiosi. Alcuni si sono soffermati con qualche attenzione, talvolta non senza fraintendimenti, sull’analisi dei decori esterni[2]; tutti hanno dimenticato quelli delle mensole del tamburo absidale[3]. Da questi ultimi, in questa sede, si avvierà lo studio iconografico e iconologico di taluni ritratti litici di giudici sovrani, committenti di un certo numero di chiese romaniche nei Giudicati di Arborea e di Torres tra XII e XIV secolo, per una proposta identificativa delle figure rappresentate, alla luce delle fonti documentali rilevate in situ, delle fonti letterarie e delle vicende storiche giudicali, nel momento in cui dette fabbriche giungevano a compimento[4].

Una prima illuminante traccia per l’avvio dell’indagine è nell’epigrafe consacratoria sul prospetto principale della chiesa, che in una eterogeneità di caratteri onciali e capitali, introdotti da una canonica croce a raggi patenti, con una breve, significativa, attestazione dal sapore notarile, in un latino tardo certifica:

«+ Anno d(omi)ni MCCXCI / fabricata e(st) h(aec) eccl(es)ia et co(n)se/crata in hono(r)e beati petri / ap(osto)li de roma sub (tem)p(o)r(e) iu/dici(s) mar(iani) iudi(cis) arboree et / fra(tr)e ioha(nne)s e(pisco)p(u)s s(an)c(ta)e iust(a)e eo/de(m) t(em)p(o)r(e) er(a)t op(er)aria abadissa dom(in)a sardigna d(e) laco(n) / mag(iste)r a(n)selem(us) d(e) cumis fab(r)icavit»[5].

Si apprende così che la fabbrica, opera dell’architetto e scultore mastro Anselmo di Como[6], è stata ultimata e consacrata nell’anno 1291, all’epoca di Mariano ii de Bas-Serra giudice di Arborea e della terza parte del Cagliaritano[7], quando era vescovo di Santa Giusta il frate Giovanni[8] e badessa Sardinia, seconda moglie del giudice Pietro II[9] e madre di Mariano II[10]. Ad un esame più attento, il testo rivela anche il casato, sin qui  non colto dagli storiografi[11], della committente «sardigna d(e) laco(n)», dell’antica famiglia giudicale documentata sin dall’xi secolo ai vertici dell’Arborea. Il santo titolare della chiesa è omonimo di Pietro II, padre di Mariano e marito di Sardinia, la quale per un affetto coniugale sempre vivo e nutrito, assume il ruolo di «op(er)aria», cioè di persona impegnata nella raccolta delle offerte per l’edificazione della chiesa[12].

Autore dell’epigrafe è un inedito scrivano lapicida, che lascia la sua firma in uno spazio in basso a sinistra, esterno allo specchio epigrafico. Per ragioni di economia grafica la sigla, stretta da più abbreviature, ha uno sviluppo su quattro-cinque righe. Nella prima è una ‘g’; nella seconda, legate da un doppio nesso, sono in sequenza da destra a sinistra: una ‘v’ (con valore di ‘u’), una ‘r’ e una ‘n’ inversa come quella del ‘d(omi)ni’dell’incipit del corpus epigrafico; in una terza riga, guadagnata sulla destra tra la prima e la seconda, è una ‘s’ di un corpo minore; nella quarta è un ‘sc’ e nella quinta un ‘rns’. Decodificati tutti i nessi e le abbreviature, la scritta «g/vrn/s / sc/rns» è così sciolta: «g/u(a)rn(eriu)/s / sc/r(i)n(iariu)s (vel)  sc/r(iba)n(u)s»[13].

L’incontrastata prevalenza, seppure odierna, del cognome ‘Guarnerio’ nel centro-ovest della Lombardia depone per una più che probabile origine lombarda, forse proprio comasca, dello scrivano scalpellino, facilmente uno dei più stretti collaboratori di mastro Anselmo, in virtù dell’autorizzazione a siglare, per quanto marginalmente, il lapideo atto di consacrazione. Pur in assenza delle consuete formule «anno ab incarnatione Domini, Dominicae incarnationis, trabeationis ecc.»[14], l’epigrafe è datata secondo lo stile dell’Incarnazione, nella variante pisana, in quell’epoca in uso nel Giudicato di Arborea[15]. La data della consacrazione corrisponde, quindi, al periodo compreso tra il 25 marzo 1290 e il 24 marzo 1291 dello stile moderno, tra la quarta (25 marzo – 23 settembre) e la quinta indizione bedana (24 settembre – 24 marzo).

Non si ha notizia di ulteriori opere del magister Anselemus, tuttavia Renata Serra pone in evidenza, nella nicchia interna all’abside, «un pilastrino polistilo ofitico, che indurrebbe a riferire ad Anselmo anche l’edicola e la facciata gotica di S. Pietro a Bosa, dove pure si vedono identici archetti a semicerchio intrecciati»[16], che rimandano direttamente al romanico lombardo di San Pietro in Ciel d’oro di Pavia (XII sec.) e della cattedrale dell’Assunta di Parma (XII sec.). La sua incidenza sulla storia dell’arte isolana non va oltre questo esempio e talune riprese da parte di tardi seguaci locali, quali l’artefice del Fonte battesimale di Sorradile (1697), forse certo Gioacchino Pau o Francesco Pi[17], e l’anonimo lapicida che operò sull’Architrave di Boroneddu (1634)[18], che in piena epoca gotico-aragonese, si rifà a modelli romanici palesemente informati alla plastica di Anselmo, seppur con esiti di gran lunga inferiori, per un fenomeno ampiamente dibattuto e conosciuto dagli studiosi come ‘costante residenziale sarda’[19].

Per la corrispondenza della città natale, del mestiere e per l’omonimia – da tempo immemorabile è consuetudine perpetuare la memoria genitoriale nel nome di figli e nipoti, al fine di garantire nel susseguirsi delle generazioni la continuità della tradizione della maestranza – potrebbero benissimo essere suoi parenti o, comunque, membri di uno stesso clan, unito da interessi professionali, l’«Anselmus de Cumis» censito tra i «magistri pichantes lapides» e l’«Anselmolo de Cumis mag(ister) seritii» (maestro nella lavorazione del serizzo) tutti impegnati nel 1387-88, presso la fabbrica del duomo di Milano[20]. Un significativo precedente, in questo senso, si ha con i ‘Guidi’, singolare appellativo coniato agli inizi del Novecento, con cui viene generalmente indicato un multiforme ed articolato gruppo di maestri – da Guidetto (fine XII sec.- inizi XIII sec.) a Guido Bigarelli (anni Trenta e Cinquanta del xiii sec.) – originari delle aree dell’arco alpino centro-occidentale (il Canton Ticino e la regione comasca). I Guidi appartengono al più vasto insieme dei cosiddetti ‘maestri comacini o lombardi’, in attività in varie regioni italiane per tutto il Medioevo, della cui taglia anche gli ‘Anselmi’ documentati a Milano e l’Anselmo e collaboratori attivi a Zuri sono degni rappresentanti. Semmai vi potessero essere dubbi sulla cultura e sulla formazione di queste maestranze, rivelatrice di una appartenenza corporativa è la Rosa comacina, vero e proprio marchio dei ‘Magistri comacini’[21], più volte graffita sul paramento esterno dei fianchi e dell’abside di questa chiesa[22].

Occorre premettere che l’assenza di fondamenta nella chiesa di Zuri determinò presto la rovina dell’abside, che fu riedificata con il reimpiego, per quanto in parte lesionate, delle stesse mensole, come dimostra il sodo plasticismo della massima parte dei rilievi absidali, concordante con quelli di Anselmo degli ornati esterni. L’annotazione non è priva di importanza, perché la contemporaneità dei ritratti litici e dell’epigrafe recante i nomi dei committenti è condizione necessaria della loro identificazione.

Sardinia, la madre superiora che si assume sia stata la più motivata e motivante committente della più interessante tra le emergenze romaniche della curatoria del Guilcer, rimasta vedova varcò la soglia del convento dopo il 1241[23] ma morì ante 1282[24], circa un decennio prima del compimento della fabbrica. Non si hanno notizie circa l’ordine di appartenenza della badessa, tuttavia non sarebbe insensato credere che possa trattarsi delle monache di Santa Chiara di Oristano. Il sospetto nasce dai contenuti della lettera apostolica del 22 settembre 1343 di Clemente vi a Pietro III, con la quale si concedeva la rifondazione nel capoluogo giudicale di un monastero di clarisse, evidentemente preesistente[25]. Per certo, già nel 1324 il giurista oristanese Filippo Mameli era ‘rector Sancte Clare’[26]. L’affezione dei giudici nei confronti della chiesa di S. Chiara  (1343-48), «vera e propria cappella palatina della famiglia regnante dei Bas-Serra»[27], è testimoniata da un affresco alla base dell’arco trionfale con Donnicello Mariano che affida il figlioletto alla protezione di S. Chiara, dalla rappresentazione di numerose insegne familiari dei Bas-Serra, dai presunti ritratti dei committenti della fabbrica sulle mensole di imposta della crociera absidale, ma anche dall’esservisi ritirata e fatta seppellire – forse sull’esempio di Sardinia, si oserebbe dire – Costanza di Saluzzo ormai vedova di Pietro III. L’omissione nella cennata epigrafe dell’ordine monastico sottintende una notorietà, una immediata identificabilità agli occhi dei contemporanei, vuoi perché ad esso aveva aderito la moglie del sovrano vuoi perché, ragionevolmente, non ce ne sarebbe stato un secondo su cui equivocare.

 

Anselmo da Como, S. Pietro e altri apostoli, la Vergine con il Bambino e la badessa Sardinia de Lacon, 1291, trachite, altorilievo, Zuri (Ghilarza), chiesa di S. Pietro, architrave del portale principale. 

 

La madre di Mariano è rappresentata nell’architrave del portale di facciata, vestita di un abito monacale, prona e orante al cospetto di San Pietro (monco del braccio destro, forse benedicente), della Vergine con il Bambinello e di altre cinque figure nimbate, si crede una rappresentanza degli Apostoli, una delle quali le impone ieraticamente le mani sul dorso. Stazionano tutte, come dei minuti simulacri, su di un piccolo basamento circolare e hanno corpo a botticella, secondo uno stereotipo ricorrente in altri soggetti degli ornati esterni, su cui «si definiscono cortissime braccia e le pieghe delle vesti»[28]. Taluni mostrano panneggi dall’andamento tortile che riprende il movimento del torciglione del portale, sicché, per il Delogu, può «constatarsi, per questa come per altre correlazioni, l’esistenza di una continua osmosi tra scultura ed architettura»[29].

 

Anselmo da Como, Giovanni vescovo di Santa Giusta, 1291, trachite, altorilievo, Zuri, chiesa di S. Pietro, angolo sud-ovest del secondo ordine di vele del campanile.

 

Si ha ragione di riconoscere in Giovanni vescovo di Santa Giusta il ritratto ad altorilievo di una figura intera orante con una fluente barba – di certo un prelato opera di Anselmo – all’angolo sud-ovest del secondo ordine di vele del campanile. In origine verosimilmente posizionato in una mensola tra le figure del tamburo absidale, sarebbe stato ricollocato, con ritaglio perimetrale e riadattamento del modesto basamento angolare, sul campanile elevato molto probabilmente intorno al 1336, in occasione di taluni importanti lavori di restauro dell’abside[30]. Difetta dei canonici attributi pastorali, piviale, mitria, bastone e pettorale, ma veste una talare segnata anteriormente da una lunga fila di bottoni e, così si intuisce, da una rarissima cuffia episcopale in capo che, insieme, ne sostengono l’ipotesi identificativa[31].

La rappresentazione del committente ecclesiastico accanto ad un giudice di Arborea non è di per sé una novità. In quegli anni lo stesso Mariano II de Bas-Serra – «fra tutte le numerose sculture che decorano i muri esterni della chiesa di San Pantaleo [di Dolianova] la più significativa»[32] ­– si affianca al Vescovo di Dolia nel prospetto nord della basilica, forse Gonario de Milii che sedeva in cattedra in quegli anni a Dolia[33]. Appena qualche decennio appresso un suo discendente, Mariano IV, si genuflette, ‘in abisso’, ai piedi della Madonna con Bambino della cuspide della Pala di Ottana, in simmetria con il monaco Silvestro vescovo di Ottana[34], e si abbina con un anonimo vescovo a fronte del santo patrono, nel rilievo dell’architrave del San Serafino di Ghilarza. La compartecipazione iconografica, in ogni caso, è specchio di una realtà comunitaria, di una socialità condivisa e partecipata tra il rappresentante del potere spirituale e il delegato del potere temporale, testimoniata dall’intervento del vescovo alle adunanze della Corona de Logu.

Sardinia è la più anziana e la sola sin qui riconosciuta tra i ritratti della famiglia giudicale, regnante al tempo dell’edificazione della chiesa[35]. La memoria iconografica si completa nell’area absidale interna in un quadro che giunge fino alla terza generazione, con la rappresentazione di una maestà e di una corte di ben otto ‘altezze reali’, esempio unico nell’Isola, che anticipa di qualche decennio quello della cappella di San Gavino a San Gavino Monreale (1347-1387/88), messo in luce da Francesco Cesare Casula, dove sono i ritratti di sei personaggi, identificati, per inequivocabili attributi, nei giudici di Arborea Mariano IV, Ugone III ed Eleonora con Brancaleone Doria e i figli Federico e Mariano[36].

 

Anselmo da Como, Mariano II de Bas-Serra giudice di Arborea e sua moglie N. Saraceno Caldera, 1291, trachite, altorilievo, Zuri, chiesa di S. Pietro, mensolone di imposta dell’arco trionfale.

 

All’angolo del mensolone sinistro dell’imposta dell’arco trionfale, fratturato in due tronconi per un antico crollo, un monumentale, corpulento Mariano II de Bas-Serra a mezza figura, tunica plissettata a girocollo e manica lunga, con la destra impugna la clava o matzuca[37], lo scettro dei sovrani sardi, e ostenta sulla spalla sinistra uno splendido leone abbattuto, emblema della potenza avversaria soggiogata[38]. L’altorilievo difetta della corona, che di norma accompagna la matzuca, della calotta cranica e dell’occhio sinistro, si credere rovinati a terra e dispersi. Il capo ovaloide è incorniciato da una folta barba segnata da poche ciocche, che nasce dagli zigomi e nasconde interamente il collo; sul retrocollo una lunga e vaporosa chioma cela l’orecchio destro e lambisce la spalla. I tratti somatici sono appena scavati, poco più che incisi sulla sfera facciale. Il naso è minuto e l’occhio superstite, sbarrato ha palpebre ben segnate. La perdita del mento e del labbro inferiore non hanno, tuttavia, cancellato il sorriso aperto del sovrano cacciatore di leoni, celebrato da un primo ramo di palma a sinistra, allusiva alla vittoria e al trionfo[39].

Il leone in spalla rimanda al mito del leone di Nemea vinto da Eracle, ben rappresentato nella statuaria romana dall’Heracles con clava e leone in spalla della collezione del Louvre. Le raffigurazioni di Ercole in età cristiana compaiono specialmente sulle facciate di alcune cattedrali romaniche, da San Marco di Venezia (xi sec.), al duomo di San Donnino di Fidenza (XII-XIII sec.), dal San Trofimo di Arles (XII sec.) al Santo Stefano di Auxerre (XIII-XVI sec.). Si tratta di splendidi rilievi nei quali Ercole appare come vincitore, come controfigura del biblico Sansone capace di superare ogni ostacolo. Il prestito iconografico non deve tuttavia intendersi come  una persistenza di una narrazione mitica, piuttosto come il recupero del mito non più pagano di Ercole, la cui figura si carica nel Medioevo di significati morali ed è associata a quella di Cristo per la perseveranza, la lotta contro il male e la sopportazione, fino a diventarne una sorta di prefigurazione[40]. Di un certo interesse è il rilievo ciclo delle Fatiche di Ercole della facciata della cattedrale di Fidenza, a sinistra del protiro minore destro, attribuito al  Maestro di Abdon e Sennen seguace di Benedetto Antelami (Val d’Intelvi, 1150 circa – 1230 circa) uno dei massimi rappresentanti della scultura romanica lombarda. Per la prossimità tra Como e la Val d’Intelvi, è più che probabile che l’intero ciclo dedicato al mitologico eroe fosse noto ad Anselmo, che nello stesso avrebbe trovato motivo di ispirazione.

La riconoscibilità del personaggio – come è consuetudine dell’iconografia medioevale, salvo rare eccezioni, quale quella assai realistica di Barisone ii de Lacon-(Gunale) (giudice di Torres dal 1147 ca. – † ante 1191)[41] del pilastro presbiteriale sinistro del Sant’Antioco di Bisarcio (ante 1090; ante 1164; post 1174)[42] – prescinde dalla caratterizzazione fisionomica e privilegia la descrizione degli attributi di potere, in questo caso lo scettro e la perduta corona, insegne della regalità[43], ma anche la palma e il leone, quali strumenti per l’identificazione[44]. Così è raffigurato il cennato Mariano II coronato dell’ex cattedrale di S. Pantaleo di Dolianova: nella «mano destra tiene lo scettro, la sinistra regge la sfera. Noto è anche il simbolismo di questi due attributi: lo scettro (matzuca o clava) è l’equivalente del «bastone» del comando, sintesi estrema dell’uomo destinato al governo della «res pubblica»; la sfera (il globo terrestre) è, invece, l’affermazione della sovranità sul regno, la totalità giuridica del potere assoluto»[45].

Ai pattern distintivi si associa la collocazione architettonica del ritratto: il giudice committente è spesso figurato sull’area presbiteriale, su di un capitello o sulla mensola dell’imposta dell’arco absidale in cornu evangelii: così a  Zuri, a Bisarcio, a San Gavino Monreale e a Oristano nella chiesa di S. Chiara, dove «le effigi di quattro personaggi laici, due dei quali, a ridosso dell’arco trionfale, potrebbero essere[, si è detto in precedenza,] quelle del committente Pietro iii di Bas-Serra e di sua moglie Costanza di Saluzzo»[46]. Altre volte – se ne dirà caso per caso – il giudice è sul prospetto di facciata o di un fianco della chiesa, ma quasi sempre sottostante, talvolta incluso o alla base, di un arco o in una nicchia. «Bisogna considerare che per tutto il Medioevo e oltre» – scrive Maria Cristina Cannas – «la nicchia viene identificata come uno spazio particolare, altamente simbolico associato come le cupole architettoniche e i catini absidali all’idea della sfera celeste, del cosmo e dove si collocano le immagini sacre o di personaggi storici»[47].

Non a caso, emerge all’interno dei due archi (uno a tutto sesto e uno a sesto acuto) dei portali della chiesa campestre di San Serafino presso Ghilarza, non distante da Zuri, l’articolata duplice rappresentazione a bassorilievo del giudice committente. L’identificazione del sovrano anche in questa fattispecie non può prescindere dalle vicende costruttive della chiesa, indicate dal Delogu nel primo quarto del XIV[48] e anticipate dal Coroneo alla fine del XIII secolo[49]. Entrambe le proposte devono, tuttavia, essere respinte per la figurazione al di sopra di entrambi gli archi di uno scudo con l’albero deradicato, l’insegna statale del regno di Arborea. Per una serie di vicissitudini, di cui si dirà dettagliatamente nel corso della trattazione, tra la seconda metà del Duecento e la prima metà del Trecento, l’antico stemma è abbinato ai pali di Aragona. Solo nel 1353, in segno di ribellione contro i Catalano-Aragonesi, si ritornò gradualmente all’antica bandiera dello stato indigeno[50]. Ne consegue un possibile termine post quem per l’edificazione del S. Serafino, credibilmente – per non discostarsi troppo dai limiti fissati dagli storici dell’arte – non oltre il regno di Mariano IV, tra il 1353 e il 1376[51].

 

Architrave della celebrazione della promulgazione del Codice rurale, con S. Serafino, Mariano IV de Bas-Serra giudice di Arborea, altri reali e vescovo, 1360 circa, attr. a maestranza di cultura catalana, trachite, bassorilievo, cm 154 x 34 (specchio cm 143 x 25), Ghilarza, chiesa campestre di S. Serafino, portale laterale.

 

Nell’architrave riquadrata da cornice a listello del portale del fianco meridionale, si rappresenta la Celebrazione della promulgazione del Codice rurale di Mariano iv, con la figurazione di cinque personaggi, scanditi da rosette[52], e inquadramento isocefalo. Sono, due per parte, genuflessi a fronte di un San Serafino benedicente, con sei ali, il Codice rurale stretto al petto e una foglia di vite pendente all’altezza dei fianchi. Nel mentre, Mariano IV de Bas-Serra (ante 1329 – † 1376)[53] – afferma Giorgio Farris – «offre alla Chiesa (all’Arcangelo Serafino) i frutti della sua legge agraria: un grappolo d’uva»[54].

 

Architrave del S. Serafino di Ghilarza, dettaglio di Mariano IV de Bas-Serra giudice di Arborea e S. Serafino.

 

Si ha così conferma dell’identificazione del giudice nel personaggio inginocchiato su di un cuscino a destra del santo patrono, con l’inedito attributo regale della corona in capo e della dalmatica[55], che rimanda all’iconografia di Federico II di Svevia nel sigillo prodotto dopo la nomina a re di Germania[56]. Tra il sovrano e il Serafino nessuna rosetta, forse a significare un dialogo diretto e privilegiato.

 

Architrave del S. Serafino di Ghilarza, dettaglio del Donnicello Ugone de Bas-Serra.

 

 Gli succede, in senso iconografico e iconologico, ergo dinastico, un robusto personaggio maschile con un lungo mantello sulle spalle, identificabile – per quella consuetudine che spesso portava a rappresentare con il regnante anche l’erede al trono (si vedano gli esempi di Saccargia, di Bisarcio, di Zuri, di San Gavino Monreale e di S. Chiara di Oristano) – nel donnicello, futuro Ugone III de Bas-Serra.

 

Architrave del S. Serafino di Ghilarza, dettaglio di Timbora de Rocabertì.

 

Ragionevolmente, sarebbe sua moglie Timbora de Rocabertì[57] (morta dopo il 1361) figlia di Dalmazzo iv de Rocabertì e di Beatrice Serralonga erede della baronia di Cabrenys[58] e madre della ‘juyghissa’ Eleonora, la figura femminile a sinistra dell’Angelo, la stessa forse effigiata nella cappella delle clarisse di Oristano. Veste una tunica lunga stretta in vita, sovrastante guarnacca e cappuccio sulle spalle, e un velo in capo, chiuso da un soggolo quasi monacale, simile alla bandella delle Figlie di Mariano ii di Zuri, di cui si dirà più avanti.

 

Architrave del S. Serafino di Ghilarza, dettaglio del Vescovo forse di Oristano o di Santa Giusta.

 

A sinistra è il solo estraneo al presunto clan familiare, per questo iconograficamente distinto da una postura frontale, volto verso il riguardante piuttosto che al santo. Un piviale gli copre le spalle, mentre genuflesso si associa alla preghiera comune. Rappresenta un vescovo, forse il Vescovo di Oristano o di Santa Giusta in cattedra al momento della costruzione o della consacrazione della chiesa[59].

 

Formella gotico-aragonese dell’Agnus Dei che sottomette Lucifero tra S. Serafino e Mariano IV de Bas-Serra giudice d’Arborea, 1360 circa, attr. a maestranza di cultura catalana, trachite, bassorilievo, cm 26 x 42,5, Ghilarza, chiesa campestre di S. Serafino, lunetta del portale principale.

 

Il secondo ritratto è sull’ingresso principale, incluso in una lunetta delimitata da un sopraciglio a punte di diamante, sgusciate nelle quattro parti[60]. La formella quadrangolare con il rilievo che lo contiene, superato l’isocefalismo dell’architrave, mostra un gusto per le proporzioni e la costruzione scenica che richiama una tavola dipinta. Il concio è molto consumato ma nella parte superiore è ancora leggibile il profilo di una semplice cornice lineare ad archetti, in parte celata a sinistra dal sopravanzare delle figure. Il modello è proprio del gotico-aragonese come quello coevo dell’Annunciazione del Retablo del Rimedio di Oristano[61], mentre le tipologie dei personaggi sono ancora romaniche. La figura di San Serafino[62], con un frammento superstite dell’aureola in capo e sei ali, sovrasta una ruota crociata, simbolo solare e cosmico, che «associata al Serafino può essere intesa come simbolo di luce»[63]. Nella sinistra trattiene ancora il Codice agrario e con la destra levata glorifica e benedice un Agnus Dei con gli attributi della croce commissa, come l’icnografia della stessa chiesa, e del vessillo pasquale. Un Lucifero giacente sul fianco sinistro, con le braccia al petto e la stessa ruota solare ai piedi, sola eredità di un trascorso luminoso, è vittima di una calcatio colli da parte dell’Agnello. Sulla destra, orante e genuflesso anche qui su di un cuscino, chiude la rappresentazione un inedito, snello Mariano iv, il solo filologicamente legittimato in un ruolo così elevato[64]. Ha la corona in capo e un taglio dei cappelli assai simile a quello con fronte e orecchio scoperti, e abbondante zazzera sul retrocollo del Mariano dell’affresco dell’arco trionfale di S. Chiara di Oristano[65].

A questo stereotipo architettonico del richiamo della volta celeste, si conforma il Mariano ii de Bas-Serra in una nicchia a sinistra del portale frontale e a destra di quello settentrionale del San Pantaleo a Dolianova, per avere partecipato «assieme al vescovo raffigurato al suo fianco [nel ritratto del prospetto nord], alla consacrazione della cattedrale nel 1289 (come attesta l’epigrafe absidale)»[66] e per l’invio delle maestranze che avevano portato a compimento la fabbrica. Ha il significato di una nicchia, per lo sfondamento del margine superiore, anche il profondo rincasso del terzo riquadro da sinistra dell’architrave sottostante l’arco di scarico del portale sinistro del S. Michele di Siddi, ancora nel Giudicato di Arborea, opera della stessa maestranza di cultura occidentale e, quindi, della stessa committenza che operò nel ciclo scultoreo esterno a Dolianova[67].

 

Architrave di Mariano II de Bas-Serra giudice di Arborea tra Lucifero, S. Michele, Adamo ed Eva, ultimo quarto xiii secolo, marna arenaria, bassorilievo ed altorilievi, cm 116 x 43 (specchio cm 104 x 34,5), attr. a maestranza di cultura occidentale, Siddi, chiesa campestre di S. Michele, portale sinistro.

 

In questo compare ad altorilievo una figura maschile, intera e frontale, vestita di una corta tunica e in capo, per quanto consumata, una semplice corona ad anello. Gli anni della costruzione della chiesa, indicati dagli storici dell’arte nella seconda metà XIII secolo[68], sono quelli del regno di Mariano II de Bas-Serra che appare, al momento, il più probabile – certo se si considera esatta la cronologia – tra i possibili candidati di questa ipotesi identificativa.

 

Architrave di S. Michele di Siddi, dettaglio del giudice committente Mariano II de Bas Serra, rincasso cm 34,5 x 22.

 

Leggi la seconda parte.
 

 

 


[1] C. Aru, S. Pietro di Zuri, Reggio Emilia 1926, p. 29.

[2] Tra i numerosi interventi si ricordano: C. Aru, S. Pietro di Zuri, cit.; R. Delogu, L’architettura del Medioevo in Sardegna, Roma 1953, pp. 201-207; G. Farris, “Architettura in Sardegna nel periodo giudicale”, in Il mondo della Carta de Logu, Cagliari 1979, pp. 244-246; R. Coroneo, Architettura romanica dalla metà del Mille al primo ‘300, coll. ‘Storia dell’arte in Sardegna’, Nuoro 1993, pp. 252-253, 260; R. Serra, La Sardegna, X, coll. ‘Italia Romanica’, Milano 1989, pp. 379-381; R. Coroneo, R. Serra, Sardegna preromanica e romanica, Milano 2004, pp. 235-241; A.L. Sanna, San Pietro di Zuri. Una chiesa romanica del giudicato di Arborea, pref. di R. Coroneo, Ghilarza 2008, pp. 23-39.

[3] Una anticipazione relativa alla identificazione dei membri della famiglia giudicale arborense è stata data in un articolo a carattere divulgativo, cfr. G.G. Cau, “Ritratto di famiglia. La scoperta dei ritratti in pietra dei Giudici di Arborea Mariano II con N. Saraceno Caldera e Giovanni (o Chiano) con Giacomina della Gherardesca, Sardinia e altri reali”, in Almanacco Gallurese, xx (2012), pp. 48-53.

[4]Per un approfondimento sulla committenza giudicale si segnala il saggio di G. Farris, “Mecenatismo dei giudici sovrani”, in Chiesa, potere politico e cultura in Sardegna dell’età giudicale al Settecento, atti del 2° Convegno internazionale di studi (Oristano, 7-10 Dicembre 2000), a cura di G. Mele, Oristano 2005, pp. 201-220.

[5] Per la bibliografia sull’epigrafe di Zuri si rimanda allo studio di A. Pistuddi, Architetti e muratori nell’Età giudicale in Sardegna. Fonti d’archivio ed evidenze monumentali, fra l’XI ed il XIV secolo, tesi di dottorato di ricerca ‘Fonti scritte della civiltà mediterranea’, ciclo XIX, Università degli Studi di Cagliari, Dipartimento di Studi storici, geografici e artistici, Settore scientifico disciplinare l - art /01, 2008, p. 87, nota 316.

[6] G. Degli Azzi, v. “Anselmo de Cumis’, in Ulrich Thieme e Felix Becker, Allgemeines Lexikon der Bildenden Künstler von der Antike bis zur Gegenwart, Leipzig 1907, i, p. 542; R. Delogu, L’architettura…, cit., pp. 201-207; R. Serra, v. “Anselmo da Como”, in Enciclopedia dell’Arte Medioevale, ii, Roma 1991, p. 55.

[7] L.L. Brook, M.M. Costa (a cura di), v. “Mariano ii de Bas-(Serra)”, “Bas-Serra Giudici di Arborea (1)”, in Genealogie medioevali di Sardegna, a cura di L.L. Brook, F.C. Casula, M.M. Costa, A.M. Oliva, R. Pavoni, M. Tangheroni, Sassari 1984, pp. 136-137, tav. XXXII; p. 383, XXXII, 6.

[8] Nella cronotassi degli arcivescovi di Santa Giusta, il frate Giovanni è al governo della diocesi tra il 1291 e il 1309, cfr. R. Turtas, Storia della Chiesa in Sardegna, dalle origini al Duemila, Roma 1999, p. 841. Pietro Martini, sulla falsariga di Giovan Battista Vico, ne conferma l’identificazione nel prelato che nel 1309 aveva partecipato al sinodo provinciale d’Arborea, celebrato dall’arcivescovo Oddone Sala (30 marzo 1308 - 10 maggio 1312), cfr. P. Martini, “Iscrizione di Zuri”, in Bullettino Archeologico Sardo, III (1857), pp. 173-174.

[9] L.L. Brook, M.M. Costa (a cura di), v. “Pietro II de Bas-(Serra)”, “Bas-Serra Giudici di Arborea (1)”,  pp. 136-137, tav. XXXII; p. 382, XXXII, 4, cit.

[10] Per primo Raffaello Delogu intuì un legame di parentela tra il giudice Mariano e la madre Sardinia, cfr. R. Delogu, L’architettura…, cit., p. 201.

[11] Seppure il nome di Sardigna de Lacon compaia in tutte le trascrizioni dell’epigrafe, ad iniziare da quella del Martini del 1839-1841, la storiografia ufficiale la considera «di un casato sconosciuto», cfr. L.L. Brook, M.M. Costa (a cura di), v. “Pietro II de Bas-(Serra)”, cit.

[12] Per un approfondimento sulla figura di Sardinia, sul ruolo della donna nell’amministrazione dei beni nella corte arborense e sulle mansioni dell’operaiu di chiesa, si rimanda al saggio di G. Farris, “Scultura e architettura, cit., pp. 102, 104-105.

[13] Il termine ‘scribanus’ è forma medioevale dal latino classico ‘scriba’, cfr. M. Diderot, M. Dalembert, v. “labiale”, in Encyclopédie ou dictionnaire raisonné des sciences des arts et des metiers par une socyété de gens de lettres, Losanna-Berna, 1782, XIX, p. 372.

[14] A. Cappelli, Cronologia, cronografia e calendario perpetuo, dal principio dell’era cristiana ai nostri giorni, Milano 2011, VII ediz., pp. 5, 7.

[15]  Lo stile pisano, ricorda ancora l’Aru, «fu largamente adoperato nell’isola ancora per tutto il secolo xiv come risulta da altre consacrazioni: Mulargia (1331), Mores (1387), Tramatza (1388), Milis (1388); ed ancora nel secolo XV: Ploaghe (1442), Sassari (1453)», cfr. C. Aru, S. Pietro di Zuri, cit., p. 61.

[16] R. Serra, v. “Anselmo da Como”, cit.; G. Degli Azzi, v. “Anselmo de Cumis”, cit.

[17] M.G. Scano, Pittura e scultura del ‘600 e del ‘700, coll. ‘Storia dell’arte in Sardegna’ diretta da C. Maltese, Sassari 1991, pp. 99-10, “Sch. 71. Fonte battesimale di Sorradile”.

[18] G.G. Cau, “Architrave gotico-aragonese di Boroneddu”, in Sardegna Antica, XLII (2012), pp. 22-24. Non può essere condivisa la proposta di Giorgio Farris che intravede talune consonanze tra i rilievi di Zuri e quelli dell’architrave del portale del fianco meridionale del S. Serafino di Ghilarza, cfr. G. Farris, “Architettura ”, cit. p. 106.

[19] M.G. Scano, Pittura…, cit., pp. 87-87, “Sch. 61. Architrave di Boroneddu”.

[20] P. Sanvito, Il tardogotico del duomo di Milano. Architettura e decorazione intorno all’anno 1400, Münster [2002?], pp. 180-181.

[21] A. Antilopi, B. Homes, R. Zagnoni, Il romanico appenninico: bolognese, pistoiese e pratese, valli del Reno, Limentre e Setta, Porretta Terme 2000, p. 11.

[22] Il marchio dei maestri comacini è graffito nel fianco orientale sulla prima lesena, su di un concio del terzo filare della decima arcatella; nel fianco occidentale: in un concio del secondo filare della quarta arcatella; nell’abside ve ne sono tre abbozzati su di uno stesso concio, sul terzo filare della semiarcatella nord-ovest.

[23] La data di morte del marito Pietro ii, il 1241, è un valido termine post quem per il noviziato di Sardinia, cfr. L.L. Brook, M.M. Costa (a cura di), v. “Pietro II de Bas-(Serra)”, cit.

[24] Ivi, pp. 136-137, tav. XXXII.

[25] R. Coroneo, Architettura…, cit., p. 272.

[26] A. Arribas Palau, La conquista de Cerdeña por Jaime ii de Aragón, Barcellona 1952, p. 294, nota 52.

[27] G. Spiga, “L’arte giudicale”, in La Provincia di Oristano, l’orma della storia, a cura di F. C. Casula, Cinisello Balsamo 1990, p.145.

[28] R. Serra, La Sardegna, cit., p. 380; R. Delogu, L’architettura …, cit., p. 204.

[29] Ibidem.

[30] Secondo il Delogu il campanile sarebbe databile «non oltre il secolo XV, come dice il profilo delle sagome», ivi, p. 205. Ricorda, invece, l’Aru, che alle vicende dei campanili romani nell’isola dedica ampio spazio, come «questo tipo, abbastanza comune in Francia (‘clocher arcade’), è molto raro in Catalogna (‘campanar espadanya’) e quasi sconosciuto in Lombardia», cfr. C. Aru, S. Pietro di Zuri, cit., pp. 36, 40.

[31] L’uso della cuffia o cucufa sotto la mitria, presto caduta in disuso, è attestato in quello stesso 1291 da parte di Guglielmo di Maire vescovo di Angers, nella Loira, cfr. G. Moroni, v. “mitre de’ vescovi”, in Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da San Pietro sino ai nostri giorni, Venezia 1847, xlv, p. 275.

[32] M.C. Cannas, “Alcuni aspetti della decorazione scultorea dell’ex cattedrale di San Pantaleo in Dolianova: il busto del ‘Giudice’ d’Arborea Mariano ii de Bas-Serra”, in Medioevo: saggi e rassegne, XVI (1991), pp. 219-220.

[33] Nella cronotassi dei vescovi di Dolia indicata da Raimondo Turtas, Gonario dei Milii è in cattedra tra il 1282 e il 1311-1312 circa, cfr. R. Turtas, Storia della Chiesa…, cit., p. 825. Per competenza territoriale, dovrebbe essere lui il vescovo che nel 1289 avrebbe consacrato la chiesa o, comunque, governato la diocesi negli anni del compimento della fabbrica di S. Pantaleo.

[34] Pala di Ottana attr. al Maestro delle tempere francescane, 1339-1344, polittico, tempera su tavola incamottata con fondo d’oro, cm 260 x 237, Ottana, parrocchiale di S. Nicola.

[35] R. Delogu, L’architettura…, cit.,  p. 204.

[36] F.C. Casula, “La scoperta dei busti in pietra dei re o giudici d’Arborea: Mariano IV, Ugone III, Eleonora con Brancaleone Doria”, in Medioevo: saggi e rassegne, IX (1984), pp. 9-28.

[37] La clava del rilievo di Zuri è più simile a quella di un cavernicolo piuttosto che a quella descritta in un passo riportato da padre Gabriele Piras: «Al posto dello scettro, scrive il Codino, il giudice porta quella che il volgo chiama ‘la mazzucca’ d’argento (clava) inaurata, il cui fusto è rivestito di panno rosso, al vertice ha un pomo dorato (nodo, testa) e al centro è cinto di un cingolo parimenti decorato», cfr. G. Piras, Aspetti della Sardegna Bizantina, Cagliari 1966, p. 59 nota 25.

[38] «Le scene di caccia ai leoni fatta da sovrani del passato affermavano la superiorità di questi ultimi su qualsiasi altra potenza», cfr. E. Urech, v. “leone”, in Dizionario …, cit., p. 147.

[39] Ivi, v. “palma”, pp. 188-190.

[40] Ercole il fondatore dall'antichità al Rinascimento, catalogo della mostra omonima, a cura di M. Bona Castellotti e A. Giuliano, Milano 2011.

[41] L.L. Brook, F.C. Casula (a cura di), v. “Barisone ii de Lacon-(Gunale)”, “Casate indigene dei giudici di Torres”, in Genealogie…,  cit., pp. 84-85, tav. VI; p. 199, VI, 2.

[42] Per un approfondimento si rimanda a G.G. Cau, “Il Santo Stefano barbato e il capitello del Trionfo di Cristo sul basilisco del Sant’Antioco di Bisarcio”, in Quaderni bolotanesi,  XXXVIII (2012), pp. 159-178.

[43] Alcuni oggetti consacrati al sovrano «hanno la funzione di legittimarne l’investitura e altri sono destinati a ornarlo in occasione degli avvenimenti più importanti del regno». Son tutti detti ‘regalia’, «che egli usa (trono, scettro, spada, globo) o che indossa (corona, armilla, mantello) durante le cerimonie rituali», cfr. L. Grodecki, F. Mütherich, J. Taralon, F. Wormald, Il secolo dell’Anno Mille, Milano 1974, pp. 266-267 e ss.

[44] R. Coroneo, Architettura romanica…, cit., pp. 252, 260.

[45] M.C. Cannas, “Alcuni aspetti…”, cit., p. 211.

[46] G. Spiga, “L’arte giudicale”, cit., p. 145. Secondo Paolo Gaviano, «pare logico ritenere che la terza scultura, in fondo all’abside, a destra […] raffiguri Mariano iv», che succeduto al fratello Pietro completò la fabbrica e ne fece dono in perpetuo alle Clarisse, e nella quarta sia rappresentata «la consorte di Mariano, la catalana Timborra de Rocaberti», cfr. P. Gaviano, La bifora in dispensa, Oristano 1985, p. 53. L’ipotesi, «per l’insufficienza degli elementi di prova», che non permette una identificazione certa di nessuna di quelle effigi, non è, tuttavia, condivisa dal Casula, cfr. F.C. Casula, “La scoperta dei busti di pietra …”, cit., p. 13, nota 14.

[47] «A. Houssiau, “Il simbolismo nella liturgia cristiana”, in I simboli nelle grandi religioni, a cura di Julien Ries, Milano 1988, pp. 208-209; M. Van Parys, O.S.E., Il simbolismo nella liturgia bizantina, ibidem, pp. 237-238; G. De Champeux, S. Sterckx, I simboli del Medioevo, Milano 1981, pp. 27-50 e ss., 146-149 e ss.», cfr. M.C. Cannas, “Alcuni aspetti …”, cit., p. 212.

[48]  R. Delogu, L’architettura…, cit.,  p. 252.

[49] R. Coroneo, Architettura…, cit. p. 261, “Sch. 145. San Serafino”.

[50] F.C. Casula, “Introduzione”, in Genealogie…, cit., p. 51.

[51] Un termine ancora più preciso pare emergere da una tradizione secondo cui «nel passato si celebrava anche l’anniversario della consacrazione di una chiesa al sessantesimo anno di ciascun secolo», cfr. L. Fadda, S. Serafino di Ghilarza. Storia di una chiesa. Contributo alla conoscenza delle antichità medioevali mediterranee, della storia del cristianesimo in Sardegna e della storiografia giudicale, presentazione di G. Farris; a cura dell’Associazione S. Serafino di Ghilarza, Oristano 1998, p. 60.

[52] Raffaello Delogu intuì la figurazione di alcune figure di dignitari e, per primo, «dello stesso giudice costruttore o patrono dell’edificio», cfr. R. Delogu, L’architettura…, cit.,  p. 227. M.C. Cannas, “Alcuni aspetti ”, cit., p. 211.

[53] LL.Brook – M.M. Costa (a cura di), v. “Mariano IV de Bas-Serra”, “Bas-Serra Giudici di Arborea (2) Cubello m. di Oristano”, in Genealogie…, cit., pp. 138-139, tav. XXXIII; p. 388-389, xxxiii, 3.

[54] G. Farris, “Mecenatismo…”, cit., pp. 210-211; G. Farris, “Scultura e architettura nella curatoria del Gilciber”, in Società e cultura nel giudicato d’Arborea e nella Carta de Logu, atti del Convegno internazionale di studi, Oristano 5-8 dicembre 1992, a cura di G. Mele, Nuoro 1995, pp. 105-106, 108-109. Lo studioso si riferisce ad una immagine da lui scattata nel 1958, nella quale si ha riscontro dei «cinque acini d’uva appartenenti ad un grappolo» (cfr. G. Farris, “Architettura in Sardegna nel periodo giudicale”, in Il mondo della Carta de Logu, Cagliari 1979, pp. 247-253), pubblicata in G. Farris, “Scultura…”, cit., p. 109. La proposta del Farris è condivisa da Lello Fadda, che crede di riconoscere la moglie del giudice, Timbora, nel personaggio all’estrema destra, cfr. L. Fadda, S. Serafino…, cit., p. 70.

[55] G. Farris, “Scultura , cit., p. 105.

[56] M. Vagnoni, “Caesar semper Augustus. Un aspetto dell’iconografia di Federico II di Svevia”, in Mediaeval Sophia, III (2008), p. 147.

[57] LL.Brook – M.M. Costa (a cura di), v. “Mariano iv de Bas-Serra”, “Bas-Serra Giudici di Arborea (2) Cubello m. di Oristano”, cit., pp. 138-139, tav. xxxiii; p. 389, XXXIII, 3. Nella stessa figura il Farris crede di riconoscere il vescovo, cfr. G. Farris, “Architettura ”, cit., p. 252.

[58] LL.Brook – M.M. Costa (a cura di), v. “Mariano IV de Bas-Serra”, cit.; LL. Brook – M.M. Costa (a cura di), v. “Dalmazzo IV de Rocabertì”, “Torroja, Palau, Rocabertì”, in Genealogie…, cit., pp. 144-145, tav. XXXVI; p. 427, XXXVI, 22.

[59] Lello Fadda propone di riconoscere il ritratto di un vescovo nella figura a sinistra dell’Angelo, mentre l’ultima figura a sinistra sarebbe un chierico, cfr. L. Fadda, S. Serafino…, cit., p. 78.

[60] Ivi, pp. 75-78.

[61] Annunciazione, seconda metà del XIV secolo, elementi di polittico scultoreo, marmo, Oristano, cattedrale di S. Maria, cfr. R. Coroneo, “Sch. 28. Retablo del Rimedio”, in R. Serra, Pittura e scultura dall’età Romanica alla fine del ‘500, coll. ‘Storia dell’arte in Sardegna’ dir. da C. Maltese, Sassari 1990.

[62]  Il culto del S. Serafino nei secoli, forse intorno al 1600, si è evoluto nel culto di S. Raffaele che è un arcangelo (secondo ordine della terza gerarchia degli angeli) e non un serafino (terzo ordine della prima gerarchia), cfr. L. Fadda, S. Serafino…, cit., pp. 97, 103-105.

[63] Ivi, p. 76.

[64] Se può costituire un precedente, anche a Dolianova il giudice Mariano II  si accompagna al Vescovo di Dolia nel prospetto nord della basilica, mentre è solo in una nicchia a sinistra del portale frontale, cfr. M.C. Cannas, “Alcuni aspetti …”, cit., p. 212.

[65] L’Agnus Dei è stato riconosciuto da Roberto Coroneo che, tuttavia, confuse la figura del giudice con un secondo serafino (cfr. R. Coroneo, Architettura…, cit. p. 261, “Sch. 145. San Serafino”). Per Maria Cristina Cannas quello che qui si presenta come il sovrano è considerato «una figura (forse femminile) a mani giunte» (cfr. M.C. Cannas, “Alcuni aspetti …”, cit., p. 221, nota 45). Lello Fadda, per ultimo, lo considera «un orante, certamente un vescovo, con zucchetto in testa e cappelli sulla fronte», cfr. L. Fadda, S. Serafino…, cit., p. 76.

[66] M.C. Cannas, “Un pittore di Scuola Bolognese: Simone de’ Crocifissi?”, in L’affresco dell’Arbor Vitae nell’ex cattedrale di San Pantaleo in Dolianova, a cura di M.C. Cannas, L. Siddi, E. Borghi, Cagliari 1994, p. 29.

[67] R. Delogu, L’architettura …, cit., p. 190; M.C. Cannas, “Alcuni aspetti …”, cit., pp. 203-204.

[68] R. Coroneo, Architettura…, cit., p. 246, “Sch. 139. Santissima Trinità di Saccargia”. Per Raffaello Delogu il S. Michele di Siddi è databile agli anni 1280-1300, cfr. R. Delogu, L’architettura…, cit., p. 252. Concorde nel mantenimento della stessa cronologia è Renata Serra, cfr. R. Serra, La Sardegna, cit., p. 377.

STORIA

di Gian Gabriele Cau

 

Il saggio è stato pubblicato in «Sardegna Antica», a. xiv, n. 38, Nuoro,  II sem. 2010, pp.19-20

 

Sulla edificazione dell’ex Cattedrale di S. Antioco di Bisarcio Francesco Amadu nel 1963 pubblicava una dubbia memoria, riferita in «Noticias Antigas» una tarda fonte apografa, dell’Archivio del Capitolo della Cattedrale di Alghero: «Anno ab Incarnassione Domini nostri Jesu Christi 1174 naro milli et quento sesanta bator. Die prima mensis setembris fuit edifficada sa ecclesia de santu antiogu de bisarchiu sa quale edificait Juighe orgodori a onore de deus et dessa birgine maria et de santu antiogu et issa dita ecclesia fuit consegrada dae su cardinale de primis de Italia su quale cardinale consegrait sa ecclesia de santa maria de crasta de oganu et de santu antiogu de bisarchiu et de santu pedru de nurqui et de santu joanne de bonorva et de santu florensu de paules  et de santa maria de coro set de santu miali de furiguesos et isu ditu cardinale»[1].

Il documento sin da subito apparve destinato a suscitare nella storiografia maggiori problemi di quanti si sperava potesse risolverne. In primis, l’anno della costruzione dichiarato in cifre (1174) pareva smentire quello espresso in caratteri (1164); in secondo luogo, in quegli anni non sedeva sul trono di Torres Torchitorio, ma Barisone ii; terzo: tra le chiese consacrate nella stessa circostanza si annovera anche la chiesa di S. Pietro di Nurchi identificata in S. Pietro delle Immagini presso Bulzi, edificata tra il 1110 e il 1120 e la cattedrale di N.S. di Castro, rappresentativa del «prototipo di talune chiese innalzate nel territorio, dal S. Demetrio di Oschiri (consacrata nel 1168) alla N.S. di Otti e alla S. Maria di Coros a Tula, già esistente nel 1176»[2], quindi fondate prima della stessa N.S. di Castro a cui, invece, si sarebbero omologate. Gli elementi del sospetto e dell’inattendibilità c’erano tutti o quasi.

 

 

 

L’epigrafe  consacratoria del S. Antioco di Bisarcio (1164) di Giovanni Thelle vescovo bisarchiense

Una proposta per una possibile risoluzione dell’arcano giunse nel 2003 da parte di Giuseppe Piras autore della scoperta di una epigrafe graffita in un concio all’esterno della parete di fondo della navatella settentrionale della chiesa di S. Antioco, recante in caratteri onciali l’anno 1164 e il nome del vescovo Giovanni (Thelle), allora in carica. Per lo studioso la fonte apografa sarebbe da leggersi «1174», e quel «1164» epigrafico sarebbe relativo ad «un momento dei lavori di ricostruzione della chiesa (probabilmente l’avvio)»[3]. L’odierno riesame della scritta sul paramento esterno con l’inedito, risolutivo rilievo di alcuni caratteri in corpo minore – «finem  [h]abuit» – segna alcuni punti fermi per una revisione cronologica. I due termini sono graficamente posti in croce; all’apice, su una riga superiore, è una «f» ruotata in senso orario di 70 gradi circa; seguono, tra le lettere «ab» e «uit», una «i» ruotata di 110 gradi circa e un segno del sistema brachigrafico medioevale, nella morfologia simile al «3», che è l’abbreviatura di «nem»[4]. Nel disegno che emerge, quasi delle parole crociate ante litteram, è facile vedere un rimando alla croce che di norma accompagna le epigrafi consacratorie, come quella apposta da un altro vescovo di Bisarcio, Donato, sull’antica chiesa di S. Lucia ad Ozieri, nell’ultimo quarto xiv secolo[5]. Nella sua chiarezza lapidaria, l’epigrafe così corretta: «mclxiiii joh[anne]s  ep[iscopu]s  finem  [h]abuit» (‘nel 1164, essendo vescovo  Giovanni [la chiesa] ebbe termine’), smentisce le conclusioni tratte dal Piras e fissa nel 1164 un termine categorico, per il compimento dei lavori del corpo principale della fabbrica, consacrazione inclusa.

 

 

Il sottostante ampio tratto di un arco che insiste su di una linea temporale, definisce uno spatium, un arco di tempo delimitato da un’alfa maiuscola (a) all’estremità inferiore sinistra (inizio) e da un punto ben marcato all’opposto diametrale, dove l’omega (termine) è sottinteso dal sovrastante ‘finem habuit’[6], che graficamente esprime il concetto di un’opera concepita e portata a compimento durante il presulato di Giovanni Thelle, i cui termini, sinora documentalmente fissati tra il 1170 e il 1179[7], devono necessariamente essere anticipati di almeno dieci anni da quel 1164, in un momento appena seguente l’episcopato di Mariano Thelle, suo probabile immediato predecessore e possibile fratello, documentato tra il 1139 e il 1146/47.

Il dato non può invece essere esteso all’altare della galilea, che nell’epigrafe dedicatoria della cappella riporta il nome di un s. Tommaso arcivescovo e martire, nel quale Francesco Amadu nel 2004 ha creduto di riconoscere s. Tommaso Becket arcivescovo di Canterbury, martirizzato nel 1170 e canonizzato nel 1173, tempo quest’ultimo che fissa un altrettanto valido termine post quem per la costruzione del portico sopraelevato, indicato da Raffaello Delogu e da Renata Serra negli anni 1170-90. Il portale laterale destro, infatti, rileva la studiosa, venne accecato in corso d’opera, «generando un’asimmetria poco funzionale e non facilmente giustificabile, se non si ammette che già si prevedesse un portico monumentale»[8].

 

[1] archivio del Capitolo Cattedrale di Alghero, Noticias antiguas, tomo I, 1/1, c. 69r.

[2] R. Serra, La Sardegna [‘Italia romanica’, x], Milano 1989, p. 406.

[3] G. Piras, Le iscrizioni funerarie medioevali nella basilica di S. Gavino: contributi preliminari per una rilettura, in G. Piras (a cura di), ‘Il Regno di Torres 2. Atti di «Atti di Spazio Suono» 1995-1997’, Muros 2003, p. 332.

[4] A. Cappelli, Lexicon abbreviaturarum. Dizionario di abbreviature latine ed italiane, Milano 2001, p. xxxiii.

[5] G. G. Cau, L’epigrafe di Donato vescovo di Bisarcio. In una iscrizione del Trecento la fondazione della chiesa di S. Lucia ad Ozieri,  Voce del Logudoro», a. lix,  Ozieri, 17 gennaio 2010, p. 5 (I parte); 24 gennaio 2010, p. 5 (II parte).

[6] Il disegno presenta elementi di analogia con un arco temporale, nella fattispecie un emiciclo inferiore chiuso, con un’alfa, un’omega crociata e la croce inscritte, sull’esterno dell’architrave del portale d’ingresso della chiesa abbaziale di S. Maria a Arles-sur-Tech (sec. xi), nella Linguadoca-Russiglione, in Francia.

[7] R. Turtas, Storia della Chiesa in Sardegna dalle origini al Duemila, Roma 1999, p. 875.

[8] R. Serra, La Sardegna, cit., p. 268.

STORIA

di Gian Gabriele Cau

 

 

Estratto da: «Quaderni bolotanesi» n. 38 (2012), pp. 159-178.

 

Nella primavera del 2004, nel corso di un intervento di consolidamento del rudere dell’episcopio dell’antica cattedrale di S. Antioco di Bisarcio, in agro di Ozieri (ss), sotto uno spesso strato di terriccio e detriti è stata casualmente rinvenuta una testa litica, tardoromanica, di una figura maschile, poi rivelatasi essere quella di un santo[1]. L’analisi pre-iconografica rivela un capo mutilo dell’intera sezione maxillo-facciale destra, naso incluso, con ampia devastazione del mento, della bocca, dello zigomo e di parte dell’orecchio superstiti. La finitura di alcuni dettagli, non ultimo l’occhio sinistro, sul quale sopravvivono residui di un’iride in piombo come quella riscontrata in rilievi coevi, inducono ragionevolmente a credere che non si sia in presenza di uno scarto di lavorazione, magari in conseguenza di un colpo maldestro vibrato dall’artefice, ma di parte di un’opera compiuta, segnata nel tempo dalle ingiurie della storia. A seguito della distruzione del simulacro, in tempi remoti il frammento sarebbe stato pietosamente rimaneggiato, forse per un reimpiego quale concio di riempimento del muro ‘a sacco’ del palazzo curiale presso il quale è stato rinvenuto, in concomitanza di un possibile suo consolidamento o ampliamento, per la benedizione e la protezione della fabbrica[2].

 

 

 

A sx: S. Stefano imberbe (1505), Ardara, chiesa di S. Maria del Regno; a dx: S. Stefano barbato (post 1173) da Bisarcio, Ozieri, Museo diocesano di Arte sacra.

 

Il capo è un tuttotondo di 37 cm al massimo dell’altezza (solo cranio  30 cm),  per la quale si ipotizza, in proporzione, secondo il ‘canone’ di Policleto[3], una statura della figura intera, eretta, di cm 240 ca. Il volto è finemente incorniciato da un susseguirsi di stilizzate, minute ma corpose ciocche di barba geometrizzanti, come trattenute e modellate da un unguento (per un valore semeiotico di cui si dirà oltre), che hanno origine ben sopra l’arcata sopraccigliare e conferiscono un aspetto ieratico e arcaizzante. Il tentativo di descrivere una sorta – si passi l’espressione – di ‘trattamento balsamico’ è sostenuto dal confronto con la barba liscia e curata del capo maschile coronato, secondo una credibile tradizione il ritratto del giudice di Torres committente della chiesa, del capitello del pilastro cruciforme nord, sul presbiterio dello stesso tempio bisarchiense. La morelliana, perfetta corrispondenza del disegno del padiglione auricolare, in particolare del condotto uditivo esterno, ne autorizza, infatti, l’attribuzione ad un unico maestro, sufficientemente motivato nella diversificazione dei due modelli.

Sulla folta e lunga chioma, al colmo del parietale sinistro della testa ritrovata, emerge, non tanto e non solo in altezza, ma anche e soprattutto perché la sola non pettinata, un’area circolare, come una crosta irregolare, di un diametro di cm 8/9 ca.. Lo spazio esiguo e decentrato di questa emergenza esclude, per ragioni di staticità connesse alla friabilità della pietra, l’ipotesi architettonica di un telamone, quale, per esempio, quello di una transenna interna del duomo di Piacenza (1122). L’impronta di ‘quel qualcosa’ che il santo recava in testa, è troppo piccola e divergente dall’asse longitudinale del cranio, per essere stata una corona o altro copricapo. Impossibile credere che sulla stessa area gravasse il braccio di un probabile martire, in un istintivo gesto di difesa a riparo del volto oltraggiato: la statuaria medioevale è di norma caratterizzata da una rigidità dei corpi, assai lontana dalla plastica dinamica e flessuosa dell’epoca classica e classicista, tra le quali si frappone. Inediti riscontri archivistici e precise corrispondenze iconologiche e iconografiche con modelli coevi, di cui si dirà nel corso della presente trattazione, dimostrano che certamente quel che resta è un frammento del sasso della lapidazione che, come una patata di media misura, poggiato sul capo è l’attributo iconografico di Stefano protomartire, così come figurato anche nella predella del Retablo maggiore di Ardara di Giovanni Muru, la più antica immagine superstite del santo in Sardegna, consacrato il 10 maggio 1505[4].

Le prime, inedite testimonianze di un locale, convalidante culto stefaniano sono negli inventari della visita pastorale del 1539 del vescovo di Alghero Durante De’ Duranti a S. Antioco di Bisarcio, nell’«altar maior j ha dos altres altars sots invocacio de santa barbara j de sanct stena»[5], e del 1549 del suo successore Pietro Vaguer, dalla quale si apprende che nella stessa cattedrale è «un altar en la part dreta de laltar maior sots invocacio de Sanct estena[,] enlo retaule una pintura del cruciffici vella»[6]. Stabilito l’altare di appartenenza, appare improbabile che il capo possa essere parte di una figura intera, perché l’altezza presunta del manufatto, un colosso di cm 240 ca., sommata a quella di un necessario basamento di almeno 10 cm e della mensa sulla quale, si crede, dovette insistere di cm 100 ca., porterebbe il S. Stefano ad una quota improbabile di cm 350 ca., dove supererebbe abbondantemente il limite inferiore della monofora della cappella presbiteriale (cm 296), con un penalizzante effetto occludente e controluce. Ne consegue, quindi, la mezza figura o il mezzo busto, quale possibile soluzione compatibile con il dato spaziale acquisito. Preso atto che il simulacro nel 1539 non è più sull’altare di S. Antioco, si suppone che sia stato rimosso da tempo, non oltre la prima metà del Quattrocento, se rimpiazzato da un retablo con un dipinto del Crocifisso che nel 1549 è già vecchio.

 

 

 

 

A sx: S. Stefano barbato (post 1173), da Bisarcio, Ozieri, Museo diocesano di Arte sacra; a dx: S. Andrea apostolo (1170 ca.), Autun, Museo Rolin

 

Il confronto stilistico più persuasivo del S. Stefano barbato è con il S. Andrea apostolo del gruppo statuario, litico della Tomba mausoleo di Lazzaro della più antica cattedrale di S. Lazzaro ad Autun, in Borgogna, che nel tuttotondo annuncia la sconvolgente evoluzione dal romanico verso il gotico. Smantellata nel 1766, la pregevole e articolata opera plastica è propria del monaco Martino, ricordato nell’epigrafe sepolcrale: «Martinus monachus, lapidum mirabilis arte, hoc opus exculpit Stephano sub Presule magno»[7]. Sull’identità del presule ruota la definizione di una cronologia che ha diviso la critica: secondo alcuni il manufatto sarebbe riconducibile all’episcopato di Stefano di Bâgé (1112-1139), il primo dei due vescovi omonimi che governarono quella diocesi nel xii secolo[8]; secondo altri e in questo senso è l’orientamento degli studi più recenti tra il 1170 e il 1189 durante l’episcopato di Stefano ii[9], tendenzialmente intorno al 1170, agli esordi del mandato. Tra gli elementi di raffronto è la folta e singolare chioma con eguale scriminatura centrale e i cappelli accorpati in fasci solcati, come bagnati (nel S. Andrea anche interlacciati), che sorpassano le orecchie e cadono lunghi sul retrocollo[10]. Il simulacro francese è caratterizzato da una barba liscia e ben pettinata, che nasce appena più bassa, ma mostra iridi parimenti forate.

 

 

 

A sx: Protome di Barisone II giudice di Torres (post 1173), Bisarcio, chiesa di S. Antioco; a dx: S. Andrea apostolo (1170 ca.), Autun, Museo Rolin.

 

Di norma, per una prassi consolidata e assai diffusa, il primo dei protomartiri è rappresentato imberbe, forse perché il brano degli Atti degli Apostoli  che narra della sua strenua predicazione davanti al sinedrio prima del martirio, lo descrive in piena serenità, col volto simile a quello di un angelo e quindi, secondo un altrettanto inderogabile modello, glabro[11]. L’iconografia del s. Stefano barbato nella scultura medioevale ha – per quanto consta – rare occorrenze in Europa, e tutte nel sud della Francia. Essa discende direttamente dalla visione iconologica del martire, tracciata da s. Agostino nella sua Esposizione sul Salmo cxxxii[12] e giustificata da un rinato interesse per le opere del Vescovo di Ippona, a seguito della presa di possesso dei capitoli delle cattedrali del Vecchio continente nell’xi e xii secolo, da parte dei canonici regolari agostiniani[13].

Il Padre e Dottore della Chiesa accenna all’«unguento sulla testa, che scende sulla barba, la barba di Aronne, e cola fin nell’orlo della sua veste»[14], e di qui imbastisce una lectio magistralis che finisce per glorificare e magnificare il sacrificio di Cristo, degli apostoli e del diacono Stefano. Non potendo dire meglio, vale la pena riferire negli stessi termini il testo originale, con poche censure: «Sulla sua testa [di Aronne] c’è dell’unguento poiché, sebbene il Cristo totale comprenda anche la Chiesa, l’unguento fluisce [esclusivamente] dalla testa. La nostra testa, o capo, è Cristo: crocifisso, sepolto e risuscitato, salì al cielo. Dal capo venne lo Spirito Santo. E dove scese? Sulla barba. La quale barba è segno di fortezza, è una prerogativa dei giovani, della gente valorosa, dinamica, decisa al segno che, quando vogliamo raffigurare gente di tal fatta, diciamo: È un uomo con tanto di barba»[15]. Nella cultura locale si trovano ancora oggi precise corrispondenze nella locuzione proverbiale ‘mustazzos de omine bi cherene’, per dire di imprese che richiedono una prestanza virile. «Ebbene – prosegue s. Agostino – quell’unguento scese in primo luogo sugli Apostoli, in coloro che per primi sostennero l’urto delle potenze mondane. In loro scese lo Spirito Santo […] e quando si riversò su di loro la persecuzione, essendo sceso sulla loro barba quell’unguento, subirono sì la persecuzione ma non ne furono vinti. Li aveva infatti preceduti la testa [Cristo] da cui quell’unguento scendeva […]»[16].

A questo punto l’Ipponate porta il diacono quale modello di carità e di fortezza. «Di tal barba faceva parte santo Stefano [martire invitto]. E in questo sta il non essere vinti: far sì che la carità non venga sopraffatta dai nemici. […]. Ma poiché non fu sopraffatta la carità, per questo l’unguento scese sulla barba. Osserva Stefano! […] Osserva che razza di barba! […]. Quando poi cominciarono a cadere su di lui le pietre, – conclude s. Agostino – la sua carità non fu vinta, e questo perché sulla barba era sceso l’unguento scaturito dalla testa, aveva cioè ascoltato dalla bocca del capo le parole: Amate i vostri nemici, e pregate per chi vi perseguita[[17]] […]»[18]. Fuor di metafora, sembrano alludere a quell’unguento che scende dalla barba e «cola fin nell’orlo della sua veste» alcuni tratti che come larghe colature sul collo, sotto l’orecchio – per quel che consta, un unicum nell’iconografia del santo – segnano il capo del martire di Bisarcio.

Tra i pochi esempi noti, solo tre quelli attualmente censiti di questo raro modello iconografico, riscontrato – giova ripeterlo – al momento esclusivamente presso cattedrali francesi del xii-xiii secolo, si registrano talvolta palesi incoerenze, che nella sintassi semeiotica agostiniana trovano giustificazione e fondamento. Nella Lapidazione di S. Stefano di Arles[19], il santo con la stola diagonale e la barba esala la figura di un’anima glabra come quella del protomartire telamone del chiostro annesso; uno Stefano atlante, del portale della basilica di S. Giusto di Valcabrere (xii-xiii secolo), è anch’esso imberbe eppure sostiene uno stupendo capitello policromato del Martirio di S. Stefano, nel quale lo stesso mostra una barba ben fiorita. In un solo caso, nelle Storie di S. Stefano del timpano della cattedrale di S. Stefano di Cahors (1135 ca.), nei Medi Pirenei, il protomartire è costantemente barbato in due momenti distinti, nella Lapidazione e al cospetto del Cristo. Nei primi due brani (Arles e Valcabrere) la barba è riconosciuta al santo solo nel momento del martirio, perchè emblema di strenua coraggiosa resistenza in difesa della Verità appresa dal Capo, dal quale discende figuratamente l’unguento sulla barba. Con la decontestualizzazione dalla vicenda esiziale crollano i presupposti iconologici della sintassi semeiotica agostiniana e il martire è imberbe, nella gloria di Dio.

Nel suo tuttotondo il simulacro bisarchiense, ed è questo un elemento di grande interesse che rimanda al modello di Autun, prelude il fiorire del gotico in tutta Europa (secoli xii-xiv). Il lento ritorno alla statuaria è conseguenza di una ritrovata monumentalità, di un’attenzione per la figura umana, del recupero del senso del volume, negato dal romanico. La scultura non più inglobata in uno spazio architettonico (per restare a Bisarcio, p. es. lo stesso capo del giudice di Torres), è finalmente sull’altare per quanto a ridosso della parete, forse perché ancora latente il retaggio della lotta al paganesimo, che aveva venerato statue a tuttotondo come divinità.

 

 

Ostrica e Teofania di un Cristo benedicente entro un clipeo sorretto da un angelo (post 1173), lato est del capitello.

 

Una comune matrice ultralpina è riscontrabile nella porzione superstite di una Teofania di un Cristo benedicente entro un clipeo sorretto da un angelo, sullo stesso capitello del presbiterio, che mostra – scrive Ferdinanda Poli – «gli stessi occhi a doppia incisione della testa coronata ora esaminata» e «le stesse pupille forate». La figura del Salvatore, «entro un clipeo di cui si è perduta la parte superiore ma che conserva in basso castoni vuoti per intarsi di pietre colorate», prosegue la studiosa, «indossa una tunica dal panneggio elegante che pone in evidenza un ventre leggermente obeso, che richiama stilemi francesi»[20] e, lo si afferma qui, ha il viso incorniciato da una leggera barba, nel disegno e nel rilievo simile a quella della testa coronata. Alla sinistra un angelo sospeso in volo da due ali piumate, regge lo scudo con la mano destra, mentre con la sinistra fa corona allo stesso. Per quanto l’iconografia di figure alate che sostengono clipei con immagini di defunti abbia riscontro nella scultura pagana romana, è indubbio che il clipeo sia traduzione plastica di quello scudo, forza salvifica che è il Signore, che scandisce un consistente numero di salmi[21].

 

 

Capitello del pilastro nord del presbiterio di S. Antioco di Bisarcio. Dall’alto in basso, i lati: ovest, sud, est e nord.

 

L’odierno capitello, di un’altezza media di cm 25 ca. per una lunghezza del perimetro dei rilievi originali residui di cm 360 ca., è l’esito del ridimensionamento della fascia decorativa di uno o forse di due capitelli più antichi, che insistevano su altrettanti pilastri a sezione quadrangolare nel   presbiterio, convertiti in un tempo non definito, forse nella prima metà del Novecento, per ragioni di gusto o di cedimento strutturale, in cruciformi[22]. I segni di reimpiego sono inequivocabili nella rielaborazione della quasi totalità delle facce minori, dove con mano rozza e rilievi a scavo poco profondo, si è cercato di rimediare le lacune conseguenti al frazionamento dell’originaria o delle originarie  tavole capitellari. Qui, piccole rosette e altri motivi fitomorfi hanno spezzato ma non cancellato, l’unitarietà iconologica del manufatto.

Un cespo di foglie angolare stabilisce un nesso tra i lati contigui e attesta l’appartenenza ad uno stesso capitello dei decori della sezione frontale mediana del lato nord  e frontale mediana e destra del lato ovest. Parimenti è da ricondurre ad una stessa unità architettonica, non necessariamente differente dalla precedente, la testa coronata, l’adiacente motivo fitomorfo alla sua sinistra nel lato ovest e i decori della sezione frontale mediana del lato sud. L’insufficienza perimetrale dei rilievi, probabilmente danneggiati nell’opera di rifacimento dei pilastri, avrebbe  –  di ipotesi si tratta – obbligato il restauratore all’adozione di una nuova semplice cornice modanata nel capitello in simmetria.

 

 

Protome di Barisone II, foglia di ruta e basilisco, lato sud del capitello.

 

 

 

 

Dettaglio del Basilisco, lato sud del capitello.

Un attento esame dei rilievi ha rivelato, nella sezione frontale mediana del lato che volge a sud, la figurazione di un basilisco, nel bestiario medioevale la più laida incarnazione del male, emblema della morte e, più in generale, del diavolo e del peccato in molte cattedrali romaniche e gotiche di tutta Europa[23].  L’animale mitologico di Bisarcio ricalca pedissequamente quello descritto da Plinio il Vecchio nella Naturalis historia[24]: è come un piccolo drago con corpo di serpente, due zampe divaricate in posizione errante ed è bicefalo, con capo anteriore sul quale è una sorta di diadema ‘a fiamma’ e volto dai tratti umani, come quello che fronteggia un minotauro armato di una sfera di cristallo[25], in un capitello nella chiesa abbaziale di Sainte-Marie-Madeleine di Vézelay in Borgogna. Del gallo, di cui per tradizione è figlio[26], conserva le ali spiegate, che nel profilo ‘a denti di lupo’ suggeriscono l’idea di qualcosa di irto, pungente, sinistramente ispido, e pare di intuire ­ una testa capovolta con tanto di becco all’estremità della coda, con tenui tracce del profilo della cresta ormai perduta[27], simile, nell’inversione in senso longitudinale, a quella coeva del basilisco del portale della chiesa di San Andrés de Soto de Bureba (1176) nella provincia di Burgos, in Spagna. Con lo sputo, graficamente descritto come due incisioni trasversali sui tronchi, ha corroso e bruciato gli arbusti tra i quali si frappone e rinsecchito, con fiato mortifero, la totalità, o quasi, delle foglie che corrono lungo il perimetro capitellare. La devastazione circoscritta al solo ibrido lascia, invece, intendere l’azione di fedeli iconoclasti, animati da un malinteso sentimento religioso, al pari di quelli che potrebbero avere azzoppato il basilisco del chiostro gotico-aragonese di S. Domenico di Cagliari (prima metà sec. xv secolo), il solo altro rilievo del basilisco noto in Sardegna[28]. Come quello, ma ancora prima di quello, questo bisarchiense è dotato di un bubbolo, una esclusività dell’iconografia del basilisco sardo, in parte consumato ma ancora riconoscibile sotto la zampa anteriore. Il sonaglio, si pensi ai “folli” dal berretto e lo scettro a sonagli e ai campanacci e alle collane a sonagli che altre entità demoniache del folklore sardo quali i mamutones portano indosso numerosi, identificava il portatore del pericolo (p. es. la battola – cliquette – il legno che i lebbrosi portavano legata alla cintura) e allo stesso tempo svolgeva la funzione di protezione apotropaica[29].

 

 

 

 

Dettaglio dell’Ostrica, lato est del capitello.

Alla sinistra della teofania, seppure in parte devastata ai margini superiore e sinistro, precede la valva di un’ostrica con, in origine, una grande perla in pietra colorata o pasta vitrea, di cui non resta che il castone vuoto. La  preziosa secrezione nel Nuovo Testamento simboleggia il Regno di Dio[38], l’incarnazione del Verbo, il Cristo e, nella sua interezza, il nicchio è un preciso simbolo mariano, come affermano i santi Padri Clemente Alessandrino nel iii secolo e Giovanni Damasceno nell’viii[39]. A riguardo della perla, sostiene Michel Feuillet, «la perfezione della sua forma sferica e la purezza del suo colore, come trasparente, ne fanno un simbolo divino, un’immagine del Cristo incarnato, morto e risuscitato dai morti: dopo un soggiorno in una conchiglia rugosa, dagli oscuri abissi dell’oceano, la perla è risalita alla luce»[40]. Un richiamo alla rinascita, all’immortalità e alla risurrezione, dunque, quali valori avversi a quelli rappresentati dal mortifero basilisco. Ulteriore motivo di riflessione è la lettura proposta da Clemente Alessandrino – «“la perla” [è] lo splendente e puro Gesù, l’occhio che contempla Dio in carne umana»[41] – nella quale si coglie una valenza antitetica a quella espressa dagli occhi del basilisco, capaci di uccidere col solo sguardo[42].

 

 

 

 

 

Protome di Barisone II giudice di Torres, angolo sud-ovest del capitello.

 

Al riparo di una fresca foglia di ruta, la sola pianta, secondo la tradizione del xii secolo, capace di far morire il basilisco[43], si colloca il capo coronato e severo della figura maschile, di cui si è detto in precedenza. Della serie di decori che scandivano e impreziosivano la corona regale – necessariamente di un judike, non trovandosi ragione di una committenza régia, extraisolana[44] – avanza, nella sezione sovrastante lo stesso orecchio, un castone rettangolare, identico a quelli del clipeo ma parzialmente occluso da una malta posticcia. L’ipotesi del riconoscimento in questo del giudice di Torres, piuttosto che di un qualsiasi altro monarca – oltre che da esempi similari, seppure seriori, nel Giudicato di Arborea[45] – è certamente autorizzata dall’essere il S. Antioco la cattedrale della Diocesi di Bisarcio, di cui era parte Ardara capitale, in quegli stessi anni, del Giudicato di Torres. Nella necessità di dotare la prossima sede episcopale di un nuovo rappresentativo tempio, a seguito dell’incendio della fabbrica della cattedrale (ante 1090)[46], che aveva obbligato al temporaneo trasferimento della cattedra ad Ardara, si ritroverebbe la ragione di una comunque consueta committenza giudicale[47], forse su sollecito di un Ardarensis episcopus[48].

La cronologia delle due opere scultoree, il S. Stefano e il capitello, segue quella della vicenda costruttiva del S. Antioco di Bisarcio, epigraficamente individuata, per quanto riguarda il corpo principale della chiesa, nel 1164[49]. Alla luce delle nuove risultanze documentali, si propone per i due manufatti il 1173 quale termine post quem[50], in un’epoca pressoché coeva all’esempio autuniano (post 1170) e in concomitanza con la costruzione del portico sopraelevato, in linea con un modello architettonico riconducibile, secondo Raffaello Delogu[51], alle galilées di talune chiese francesi del xii secolo, quali Notre-Dame de Châtel-Montagne in Alvernia e Saint-Benoît-sur-Loire nel Centro, entrambe al confine con la Borgogna, e Sainte-Marie-Madeleine a Vézelay nella stessa Borgogna. Per Renata Serra si deve ammettere a Bisarcio «un sincretismo fra modi pisani e stilemi borgognoni», e riconoscere nella facciata della chiesa la norma toscana applicata in Sardegna nella prima metà del xii secolo e nell’atrio una soluzione strutturale francese e ornati di derivazione pisana[52]. L’ipotesi è condivisibile perchè concilia il prevalente romanico pisano dei decori esterni, comunque non estranei, secondo Ferdinanda Poli, a «suggestioni francesizzanti»[53] e la ricezione di nuove istanze francesi negli arredi interni.

Non si può, infatti, tacere che il simulacro bisarchiense è stretto da un doppio vincolo alla scultura francese del xii secolo: e per l’eredità iconologica agostiniana del s. Stefano barbato e per quella iconografica, rappresentata da più riprese dal modello autuniano, quali l’avanguardistico tuttotondo, i dettagli della chioma e le iridi forate e, nel capo del giudice coronato, la barba che ricalca i tratti somatici del volto in una fisionomia sorprendentemente realistica, con la fronte accigliata, le palpebre ben disegnate, il naso affilato asimmetrico sulle labbra sottili, i capelli ben curati, con due vezzose treccine dietro l’orecchio sinistro[54], che palesano un’inedita indagine introspettiva. Nel sermone di Onorio di Autun – giova ricordarlo – trova, infine, fondamento l’impianto iconologico che percorre l’intero capitello.

Identificato l’ambito culturale di riferimento, è possibile che il S. Stefano e i rilievi capitellari possano finanche essere opera di un seguace del monaco Martino, ingaggiato con le maestranze borgognoni dal giudice di Torres, al servizio del vescovo di Bisarcio Giovanni Thelle (ante 1154 ca. – post 1179)[55]. Seppure la valenza estetica sia compromessa da vistose devastazioni del volto del protomartire, resta invariato l’elevato valore storico-artistico, perché rappresentativo di una ricerca volumetrica ed espressiva che prelude al gotico, di un’iconologia agostiniana a tratti inedita (si vedano le colature dell’unguento sul collo), e di un allineamento culturale con le avanguardie europee, che a Cluny e nelle stesse Autun e Vézelay mostrano precoci segnali di ripresa della scultura monumentale.

L’appartenenza ad una architettura, il capitello di un pilastro presbiteriale, – coeva, perché francesizzante, alla struttura della galilea – segna un preciso termine post quem per l’identificazione del giudice che, in quanto raffigurato sul presbiterio non può ragionevolmente essere che colui che finanziò la costruzione del corpo principale della chiesa consacrata nel 1164 ma anche l’annesso portico sopraelevato (post 1173). Si assume, infatti, che il sovrano abbia colto l’opportunità della disponibilità di maestranze più capaci, per fare o rifare i capitelli dei pilastri, con nuovi ornamenti in linea con le tendenze giunte d’oltralpe, in uno dei quali avrebbe posto il suo ritratto.

All’epoca della riedificazione del tempio sedeva sul trono di Torres Barisone ii de Lacon(-Gunale), regnante tra il 1152/53 e il 1190 circa, ma associato al padre Gonario già dal 1147[56]. Dal 1170 lo stesso condivide il potere con il figlio Costantino ii, che gli è accanto fin dal 1164 e sarà giudice unico solo dopo il 1190[57]. L’età avanzata, segnata nel capo litico da poche rughe che animano la fronte, simili a quelle del S. Pietro apostolo del gruppo di Autun, convince dell’identificazione nel maturo Barisone ii piuttosto che in Costantino ii, giovanissimo in quel lontano 1164. Si scarta l’ipotesi che possa essere Gonario perché ritiratosi nel 1153, nel convento di Clairvaux nella Champagne-Ardenne, al confine con la Borgogna, dove sarebbe morto in concetto di santità, forse ancor prima che la chiesa giungesse a pieno compimento. Sull’esempio di S. Gavino martire di S. Gavino Monreale e  di S. Chiara di Oristano, non si esclude, tuttavia, la raffigurazione di Costantino ii o di sua madre Preziosa de Orrù, in simmetria sul probabile capitello perduto del pilastro gemello[58]. Potrebbe, invece, il volontario esilio di Gonario a Ville-sous-la-Ferté, così prossima a Vézelay (poco più di un centinaio di chilometri) dove è la cattedrale di Sainte-Marie-Madeleine, uno dei modelli al quale si conforma la galilea del S. Antioco di Bisarcio, essere l’occasione per la quale Barisone ii, in un probabile viaggio di circostanza al seguito o in visita al padre, si accosta alle architetture francesi e ne resta affascinato.

 


[1] Frammento del capo di S. Stefano barbato, post 1173, vulcanite grigia chiara, altezza massima 37 cm, larghezza massima 19,5 cm, profondità massima 24,5 cm, Ozieri, Museo diocesano di Arte sacra.

[2] Elemento similare, che farebbe propendere per questa ipotesi, è una pietra piana, con un incasso centrale, probabilmente quanto resta di una pietra consacrata d’altare, una sorta di reliquia ex contactu, ancora oggi murata sulla recinzione a nord della chiesa, in prossimità del rudere della torretta.

[3] Il ‘canone’ di Policleto considera che il capo sia pari ad un ottavo dell’altezza, cfr. G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Milano [2003], pp. 283-285.

[4] Per una ridefinizione della cronologia del Retablo maggiore di Ardara, cfr. G. G. Cau, «Non si può errare essere liberale inverso gli uomini grati». La Madonna della Misericordia di Giovanni da Gaeta: le ragioni della committenza, «Theologica & Historica. Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna», n. xix (2010), p. 240 nota 3.

[5] Archivio Storico Diocesano di Alghero (= asdalghero, Registro delle visite pastorali 1539-1550, Visita di Durante De Duranti a Bisarcio del 12 maggio 1539, f. 10v.

[6] asdalghero, Registro delle visite pastorali 1539-1550, Visita pastorale del vescovo di Alghero e Unioni Pietro Vaguer a Bisarcio del 29 maggio 1549, f. [121v].

[7] J. Sébastien, A. Devoucoux, Autun archéologique, Autun 1848, p. 169. Tra gli elementi superstiti e frammentari sono: Cristo, Maria Maddalena, Marta di Betania, S. Pietro (l’unico al Louvre, i restanti al Museo Rolin di Autun) e S. Andrea; quest’ultimo presenta caratteri differenti, riferibili ad un maestro più capace, convenzionalmente noto come ‘Maestro di sant’Andrea’, cfr. P. Verdier, The bulletin of the Cleveland Museum of Art, vol. 68, Cleveland 1981, p. 72; N. Stratford, Le Mausolée de saint Lazare à Autun, in ‘Le Tombeau  de Saint Lazare et la sculpture romane a Autun après Gislebertus’, Autun 1985, pp. 11-38.

[8] L. Seidel, Legends in limestone: Lazarus, Gislebertus, and the Cathedral of Autun, Chicago 1999, p. 42.

[9] H. Laurens, L’art français, Moyen âge, Renaissance, vol. 1, Parigi 1923, p. 83; M. Aubert, Sculptures du Moyen âge: Musée du Louvre, Parigi 1948, p. 5. W. Berry, Les fouilles archéologiques du choeur de la cathédrale Saint-Lazare d’Autun, in ‘Sanctuaires et chevets à l’époque romane. Culte des reliques, celebrations et architecture’, «Revue d’Auvergne» publication de l’Alliance Universitaire d’Auvergne – Société des Amis des Universitès de Clermont-Ferrand,  2000 – 557 – n. 4 – tomo 114, pp. 115-125. Si ringrazia il sindaco di Autun e la direttrice del Museo Rolin Brigitte Maurice-Clabart per il sostegno nella ricerca della bibliografia più aggiornata.

[10] Uguale dettaglio si riscontra nei capelli (più corti) del martire nella Lapidazione di S. Stefano del portale della chiesa di S. Trofimo di Arles, in Provenza (fine xii secolo).

[11] Atti degli Apostoli, vi, 15.

[12] G. Pagano, La vita monastica in Sant’Agostino. Commento al Salmo 132, Roma 2008.

[13] In Francia l’abbazia di S. Vittore a Parigi fu fondata nel 1108 dai canonici regolari di s. Agostino e ben presto divenne un importante centro culturale e di formazione per numerose personalità della Chiesa francese, cfr. L. Hertling, A. Bulla La penetrazione dello spazio umano ad opera del cristianesimo, Roma 2001, pp. 202-204.

[14] G. Pagano, La vita monastica in Sant’Agostino, cit., p. 131.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] Mt v, 44.

[18] G. Pagano, La vita monastica in Sant’Agostino, cit., p. 115.

[19] Op. cit.

[20] F. Poli, La decorazione pittorica del Sant’Antioco di Bisarcio. Nuovi dati per vecchie attribuzioni, «Sacer» n. 6, Sassari 1999, p. 193.

[21] Salmi iii, 4, 13; vii, 11; xvii,  3, 31, 36; xxvii, 7; xxxi, 20; xxxiv, 2; lviii, 12; lxxv, 4; lxxxiii, 10,12; lxxxviii, 19; xc, 4; cxiiib, 9, 10, 11; cxviii, 114; cxliii, 2.

[22] Le facce minori del capitello non mostrano alcun residuo del fumo depositatosi a seguito dell’incendio dell’ancona dell’altare maggiore, alla fine del Settecento e persistente negli interstizi più reconditi del rilievo originale (cfr. G. Spano, Chiesa Cattedrale dell’antica Bisarcio, «Bollettino Archeologico Sardo», a. vi, n. 6, Cagliari 1866, p. 289 nota 1). Può, a ragion veduta, considerasi questo un certo termine post quem per la cronologia della ripresa del manufatto. Un altrettanto valido termine ante quem si deduce dal rilievo dell’edificio di Guido Crudeli del 1951, nel quale i pilastri hanno già sezione cruciforme, cfr. A. Ingegno, Storia del restauro dei monumenti in Sardegna dal 1892 al 1953, Oristano 1993, p. 353.

[23] In Francia, «il basilisco, metà gallo e metà serpente, non è presente solamente nelle sculture delle grandi cattedrali come quelle di Le Mans, Amiens, di Sens, di Poitiers, o presso le abbazie come quella di Vézelay; ritroviamo il basilisco anche in numerosissime chiese rurali, a riprova che un tempo il simbolismo del basilisco era estremamente diffuso», cfr. L. Carbonneau-Lassay, Il Bestiario del Cristo, Roma 1994, p. 243.

[24] Il basilisco «è un drago che ha sulla testa una corona d’oro, grandi ali spinose, una coda di serpente, che termina con la testa di un gallo. Il suo fiato avvizzisce la frutta. Il suo sputo brucia e corrode. Il suo sguardo spacca le pietre. L’odore della donnola lo uccide», cfr.  Plinio il Vecchio, Naturalis historia, viii, par. 78-79.

[25] «Secondo le credenze l’unico modo per proteggersi da questo mostro era l’uso di uno specchio o di una campana di cristallo», cfr. R. Giorgi, Angeli e demoni, Milano 2003, p. 101.

[26] Il monaco benedettino Teofilo (inizi del xii secolo) nel suo  De diversis artibus o Schedula diversarum artium, accenna all’allevamento del basilisco per finalità alchemiche, quale la sintesi dell’oro spagnolo, indicando nell’accoppiamento di due galli la nascita dell’uovo del basilisco, poi covato da dei rospi, cfr. Teofilo, Sulle diverse arti, a cura di Michelino Grandieri, traduzione e note di Antonella Tantalo, [Bari] 2005.

[27] Non si esclude che la testa caudale possa essere letta, al dritto, come quella di un animale mostruoso dalla mandibola prominente. Tuttavia, la complessiva fedeltà al racconto pliniano, spinta sino all’estremo della figurazione dello sputo corrosivo, indurrebbe ad avallare l’ipotesi della testa di un gallo e respingere la seconda, caratterizzata, peraltro, da un occhio forse posticcio, appena abbozzato (l’altro in capo è forato a trapano) per mano di fedeli incapaci di leggere l’antica iconografia. Inopinabile, qualunque sia l’interpretazione, è la rappresentazione di un animale bicefalo.

[28] M. C. Cannas, G. Pisano, Il nido del basilisco. Scultura architettonica del braccio ovest del chiostro di San Domenico di Villanova in Cagliari, Cagliari 2002. Si ringrazia il prof. Roberto Coroneo per l’indicazione di questa monografia.

[29] Ivi, pp. 15-16.

[30] «11.  Poiché egli comanderà ai suoi Angeli di custodirti in tutte le tue vie. 12. Essi ti porteranno nelle loro mani, perché il tuo piede non inciampi in alcuna pietra. 13. Tu camminerai sul leone e sull’aspide, calpesterai il leoncello e il dragone», cfr. Salmo xci.

[31] Numerosi sermoni dello Speculum Ecclesiae sono rappresentati in una vetrata della cattedrale di Lione. L’influsso della stessa opera si avvrerte anche nelle quattro vetrate simboliche che si trovano a Bourges, a Chartres, a Le Mans e a Tours.

[32] Onorio D’Autun, Speculum Ecclesiae, (Dominica in Palmis), pl clxxii, coll. 913-916; E. Mâle, Le origini del Gotico, Milano 1986, pp. 59-60, 76 note 60-61, cfr. G. Pisano, Il re dei rettili, in M. C. Cannas, G. Pisano, Il nido del basilisco, cit., p. 14.

[33] Gli stessi versetti sono riportati nel Vangelo di Matteo e di Luca: «Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio e gli disse: ‘Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede’», cfr. Mt iv, 5-6. «Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul pinnacolo del tempio e gli disse: ‘Se tu sei Figlio di Dio, buttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordine per te, perché essi ti custodiscano; e anche: essi ti sosterranno con le mani, perché il tuo piede non inciampi in una pietra’», cfr. Mt iv, 5-6, Lc iv, 9-11.

[34] E. Urech, Dizionario dei Simboli Cristiani, Roma 2004, p. 37.

[35] L. Carbonneau-Lassay, Il Bestiario del Cristo, cit., p. 465; per un approfondimento sul basilisco, M. C. Cannas, G. Pisano, Il nido del basilisco, cit.

[36] G. Pisano, Il re dei rettili, in M. C. Cannas, G. Pisano, Il nido del basilisco, cit., p. 15.

[37] Esempi analoghi, ma non uguali, sono attestati  in tempi coevi e più antichi. «Sotto i piedi del Cristo del portale centrale della cattedrale di Amiens (1220 ca), sono scolpiti l’aspide e il leone, poco più in basso, sullo zoccolo, il basilisco e il drago. Questo Cristo è comunemente chiamato Ammaestrante, come sottolinea Emile Mâle; è il vincitore sul demonio, sul peccato, sulla morte. Il tema, più antico, era rappresentato nella statua bronzea collocata davanti al palazzo imperiale di Costantinopoli, ed è presente nei mosaici di Ravenna: in Sant’Apollinare Nuovo nel timpano della porta di città, nella lunetta dietro l’altare della cappellla di Sant’Andrea (metà del V sec.) e nel sarcofago detto dei Pignatta, custodito nell’edicola di Braccioforte; e nel sarcofago protocristiano della chiesa di San Felice a Gerona, proveniente da Roma, e dove il basilisco è raffigurato con testa di gallo», ivi, p. 14.

[38] Mt xiii, 45-46.

[39] “L’immagine della pietra preziosa-Logos divino era già stata usata da Clemente Alessandrino: «La perla preziosissima… nasce in un’ostrica simile alle pinne, la sua grandezza è quella di un occhio di pesce abbastanza grande… (La) pietra santa (è) Logos di Dio, che la scrittura chiama “perla”, lo splendente e puro Gesù, l’occhio che contempla Dio in carne umana, il Logos visibile, per il quale la carne preziosa è rigenerata nell’acqua. Quell’ostrica infatti che si forma nell’acqua riveste la carne, e da questa poi si trasforma in perla»”, cfr. Origene, Commento al Vangelo di Matteo, vol. 1, Roma 2005, p. 95, nota 11. Nella Quarta omelia sulla Natività Giovanni Damasceno afferma: «Si  rallegri in alto il cielo e gioisca quaggiù la terra, frema il mare del mondo. Vi è nata infatti una conchiglia che, per opera della luce celeste della divinità, concepirà nel seno e partorirà una perla preziosissima: il Cristo», cfr. M. Spinelli, Omelie cristologiche e mariane, Roma 1993, p. 126.

[40] M. Feuillet, Lessico dei simboli cristiani, Roma 2004, p. 86, voce ‘perla’, n. 2.

[41] Vedi nota  39.

[42] «Il suo sguardo spacca le pietre», dunque uccide, cfr.  Plinio il Vecchio, Naturalis historia, viii, par. 78-79.

[43] La ruta è «una delle nove erbe magiche. Matteo Plateario (metà del xii sec.), della scuola medica salernitana, nel suo Liber semplici medicina, noto come Circa instans e nelle rielaborazioni Tractatus de herbis, afferma che la pianta portata fresca può uccidere il basilisco», cfr. G. Pisano, Il re dei rettili, cit., pp. 12-13. Per un approfondimento sulle virtù della ruta, ibidem. Il riconoscimento della ruta nel rilievo in esame è più filologico che botanico: le foglie qui rappresentate sono in scala maggiore di quella naturale, ma a quell’erba, comunque, rimandano l’anarchia e l’asimmetria del disegno delle stesse.

[44] Si esclude che quel cinge che la testa di Bisarcio possa essere il gallone di un’originaria mitria episcopale, scalpellata con la barba al momento del rifacimento del capitello e, di conseguenza, che quello sia il ritratto del vescovo Giovanni Thelle, che negli anni dell’edificazione della chiesa sedeva su questa cattedra. Le mitrie furono adottate dalla Chiesa solo nel x secolo e le più antiche avevano forma di cono, quindi con linee convergenti all’apice, come la coeva cappa del camino in foggia di mitria dell’aula capitolare dello stesso tempio bisarchiense, con un angolo di inclinazione del solo gallone trasversale di – 6,5 gradi ca.. Inversamente, la corona spesso si caratterizza per le linee più o meno marcatamente divergenti verso l’alto, come un tronco di cono capovolto – nella fattispecie con un angolo di + 12,5 gradi  ca. – o parallele, come un basso cilindro. Parimenti è irricevibile, perché ridondante, l’ipotesi che il ritratto possa essere del Cristo, già raffigurato entro un clipeo sull’altro lato del capitello. Un santo coronato, con una croce in pugno, è raffigurato alla destra della Vergine col Bambino, sul portale di ingresso della chiesa di S. Pietro extra muros di Bosa: è S. Costantino imperatore, omonimo del vescovo di Castro che nel 1163 fece edificare quel tempio.

[45] Tra i modelli superstiti di rappresentazione del giudice committente, si ricordano i ritratti di Mariano iv e dei figli Ugone iii ed Eleonora con Brancaleone Doria suo marito, sulle mensole dei costoloni della volta absidale della chiesa di S. Gavino martire a S. Gavino Monreale, edificata tra il 1347 e il 1388 come cappella palatina del non distante castello di S. Gavino, residenza estiva dei sovrani arborensi (cfr.  F. C. Casula, La scoperta dei busti in pietra dei re o giudici d’Arborea: Mariano iv, Ugone iii, Eleonora con Brancaleone Doria, Pisa, 1984; G. Spiga, L’arte giudicale in ‘La provincia di Oristano l’orma della storia’, Cinisello Balsamo 1990, p. 145). Parimenti, sulla parete dell’arco trionfale della chiesa di S. Chiara di Oristano, vera e propria cappella palatina della famiglia regnante dei Bas-Serra, sorta grazie alla munificità dei giudici di Arborea, in un affresco, in cornu evangelii come oggi a Bisarcio, è ritratto lo stesso Mariano iv nell’atto di affidare il figlio Ugone alla santa patrona (ivi, p. 148), mentre «nei peducci dell’abside gotica, [sono] le effigi di quattro personaggi laici, due dei quali, a ridosso dell’arco trionfale, potrebbero essere quelle di Pietro iii di Bas-Serra, che volle la costruzione, e di sua moglie Costanza di Saluzzo» (ivi, p. 145). Anche la chiesa di S. Pietro di Zuri (1291), voluta da Mariano ii di Arborea quando era abbadessa Sardinia de Lacon, sicuramente sua madre, la rappresenta «in atto devozionale, nell’architrave del portale» (ivi, p. 144). Sarebbe Mariano iv di Arborea l’ultimo devoto a destra, ritratto nell’architrave del portale laterale della chiesa di S. Serafino, in agro di Ghilarza (ivi, p. 117, did. 83). Nel prospetto frontale della chiesa di S. Pantaleo a Dolianova  «l’immagine a mezzo busto e posta a destra del portale, raffigura il giudice d’Arborea Mariano ii de Bas-Serra, il quale partecipò assieme al vescovo raffigurato al suo fianco, alla consacrazione della cattedrale nel 1289 (come attesta l’epigrafe absidale) e al quale si deve l’invio delle maestranze che conclusero i lavori di edificazione dell’edificio», cfr. M.C. Cannas, Un pittore di Scuola Bolognese: Simone de’ Crocifissi?, in  M. C. Cannas, L. Siddi, E. Borghi (a cura di), L’affresco dell’Arbor Vitae nell’ex Cattedrale di San Pantaleo in Dolianova, Cagliari 1994, p. 29.

[46] R. Serra, La Sardegna, [‘Italia romanica’, x], Milano 1989,  p. 267.

[47] Seppure non sia sopravvissuto alcun ritratto, è noto quanto «l’attività edilizia dei giudici turritani nel sec. xi fu molto intensa. Gonario i Comita dava inizio intorno al 1030-40 alla basilica di San Gavino a Porto Torres, ultimata dopo la sua morte dal figlio Barisone i Torchitorio († 1066?); Giorgia, sorella di Gonario, gettava le fondazioni intorno al 1050 della chiesa protoromanica di Santa Maria del Regno di Ardara; Mariano i (not. 1065-82), figlio del giudice Andrea Tanca († ante 1065?), costruiva (o ricostruiva), nella seconda metà del secolo xi, il monastero di San Michele di Plaiano a Sassari e la Santa Maria di Castro a Oschiri (forse restaurò anche il San Michele di Salvenero a  Ploaghe); Costantino i († ante 1127) erigeva la basilica di Saccargia consacrata nel 1116, ma ovviamente cominciata almeno un decennio prima, e poco più tardi era nuovamente costretto a mettere nuovamente mano alla chiesa ardarese di cui, per probabili dissesti statici, fu necessario restaurare la navatella destra e ricostruire la facciata» (cfr. F. Poli, La  pittorica del Sant’Antioco di Bisarcio, cit. p. 171). Lo stesso Gonario ii di Torres, padre del Barisone ii effigiato a Bisarcio, di ritorno da un pellegrinaggio in Terrasanta «incontrò Bernardo di Chiaravalle e a lui chiese l’invio di monaci per una fondazione cistercense nella ricca curtis di Cabu Abbas, dove sorse S. Maria di Corte» e dove è attestata «l’attività d’una maestranza indubitabilmente borgognona», cfr. R. Serra, La Sardegna, cit., p. 414.

[48] Nel 1139 si ha menzione di Marianus Ardarensis episcopus, cfr. P. Tola (a cura di), Codex Diplomaticus Sardiniae, I, Torino 1861, p. 213, n. L.

[49] Un’epigrafe graffita su di un concio all’esterno della parete di fondo della navatella settentrionale della chiesa di S. Antioco, «mclxiiii joh[anne]s  ep[iscopu]s  finem  [h]abuit» (‘nel 1164, essendo vescovo  Giovanni [Thelle, la chiesa] ebbe termine’), solo di recente decifrata nella sua interezza, fissa nel 1164 un termine preciso per il compimento dei lavori del corpo principale della fabbrica. Il sottostante ampio tratto di un arco con una alfa maiuscola all’estremità inferiore sinistra, e una lunga corda che la unisce all’opposto diametrale, al di sotto di quel «finem  [h]abuit», esprime graficamente il concetto di un’opera concepita e portata a compimento durante il presulato di Giovanni Thelle, i cui termini, sinora documentalmente fissati tra il 1170 e il 1179, devono necessariamente essere anticipati di almeno dieci anni da quel 1164 (cfr. G. G. Cau, L’epigrafe consacratoria di Sant’Antioco di Bisarcio (1164), [di] Giovanni Thelle vescovo, «Sardegna Antica» Nuoro 2010, a. xiv n. 38, pp. 19-20). Un analogo arco temporale si riscontra nell’architrave timpanata del portale della chiesa abbaziale di Sainte-Marie de Arles-sur-Tech (sec. xi), nella Linguadoca-Rossiglione, in Francia. In questo precedente l’arco è invertito in senso longitudinale e allude all’eternità del Cristo, emblematicamente rappresentata da una croce tra una alfa maiuscola e una omega crociata, incluse nel semicerchio.

[50] Nell’epigrafe dedicatoria della cappella della galilea compare il nome di un s. Tommaso arcivescovo e martire, nel quale Francesco Amadu ha creduto di riconoscere s. Tommaso Becket arcivescovo di Canterbury, martirizzato nel 1170 e canonizzato nel 1173 (cfr. M. Farina, Il passato: un patrimonio da rivisitare, «La Nuova Sardegna», 31 dicembre 2004, sez. Sassari, p. 33), tempo quest’ultimo che fissa un altrettanto valido termine post quem per la costruzione del portico sopraelevato, indicato da Renata Serra negli anni 1170-90, cfr. R. Serra, La Sardegna, cit.,  p. 267.

[51] R. Delogu, L’architettura del Medioevo in Sardegna, Roma 1953, pp. 152-155.

[52] R. Serra, La Sardegna, cit., p. 270.

[53] F. Poli, La decorazione pittorica del Sant’Antioco di Bisarcio, cit., p. 195.

[54] La singolarità della acconciatura maschile merita l’attenzione dell’etnografo. Per trovare dei precedenti in terra sarda, occorre retrocedere in epoca nuragica, quando sono documentati alcuni bronzetti e numerosissimi arcieri tra i Giganti di Monti Prama, con una o due trecce per lato (cfr. G. Lilliu, La Grande statuaria nella Sardegna nuragica, in ‘Atti della Accademia nazionale dei Lincei. Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Memorie’, Roma 1997, p. 304). In tempi molto più recenti, l’uso di trecce maschili è attestato ancora a metà Ottocento in Sardegna (cfr. A. Bresciani, Dei costumi dell’isola di Sardegna comparati cogli antichissimi popoli orientali, Napoli 1850, pp. 26-27, 42-43, 64). Parrebbe, questa di Bisarcio, la sola testimonianza della persistenza del dato etnografico nell’Evo Medio.

[55] Per la ridefinizione del periodo dell’episcopato di Giovanni Thelle, cfr. G. G. Cau, L’epigrafe consacratoria di Sant’Antioco di Bisarcio (1164), [di] Giovanni Thelle vescovo, cit., p. 20.

[56] M. G. Sanna, La cronotassi dei giudici di Torres, in ‘La civiltà giudicale in Sardegna nei secoli xi-xiii. Fonti e documenti scritti’, a cura dell’Associazione ‘Condaghe di S. Pietro in Silki’, Sassari 2002, pp. 103-111.

[57] R. Serra, La Sardegna, cit., p. 414.

[58] Vedi nota n. 45.

STORIA

di Gian Gabriele Cau

 

Leggi la prima parte.

 

 

 

Particolare interesse suscita la tecnica scultorea riscontrabile in alcune sezioni del reperto bisarcense. Il turbante e le due parti del drappo che serrano la tunica “a siparietto”  sono contornati da uno spesso cordolo, consumato in taluni tratti. È ormai certo che gli incavi fossero in origine destinati a ospitare una cromia, secondo un modello importato dall’oreficeria cloisonée, altrimenti detta “lustro di Bisanzio”, ben rappresentata dalla produzione longobarda, la più raffinata dell’Alto Medioevo[62]. Per lo spesso perimetro degli alveoli della corona e forse del turbante si ipotizza un tono giallo, simile a quello delle margherite alveolate del pannello frontale del noto altare longobardo di Cividale del Friuli, ricavato da un’ocra gialla finemente macinata, allo scopo di conferire luminosità e brillantezza non distanti dal nobile metallo. In Sardegna, la maniera di descrivere forme scultoree attraverso celle “singolarmente simili ai motivi dell’oreficeria alveolata” di tradizione mediterranea ha un solo riscontro in un frammento di un Pluteo con decoro geometrico in marmo bianco, con motivo a losanga clipeata, rinvenuto presso la basilica di San Saturnino a Cagliari e datato da Roberto Coroneo al VII secolo[63].

 

 

Schema della struttura modulare della Formella longobarda del S. Antioco decollato.

L’immagine del S. Antioco longobardo (mnop, v. foto), sistematicamente deformata secondo i principî dell’ornamentazione geometrica, è concepita come una figura perfetta, le cui dimensioni ruotano intorno alla geometria del cerchio. Il parametro di riferimento è il volto del santo (ac) tracciato a compasso, strumento principe di ogni bottega artigiana. Il raggio del tondo facciale (ab) è la misura di un modulo di base di cm 8,96, pari a circa 2,5 once longobarde ( = cm 9,11)[64], che informa, con un impianto di nove moduli in asse, il disegno del rilievo. La somma di due moduli, si è detto, è la misura del capo tra apice e base del collo (ac); tre moduli determinano l’altezza del busto dalla base del collo alle mani oranti, perfettamente inquadrate in un cerchio, a metà della struttura modulare (cf); altri tre fissano la dimensione della mezza figura inferiore (fi), dalle mani al margine superiore del suppedaneo. Un modulo, infine, è l’altezza tra il limite più alto dello sgabello e la base della lastra (il). Si sospetta che la corona non sia stata considerata nella stesura del disegno preparatorio. Questo induce a credere la sua marginalità al limite estremo del concio e il minimo slancio delle cuspidi, per uno spazio forse non calcolato nel momento dello sbozzo della pietra.

Per l’adozione del piede Liutprando, in una Sardegna dominata da sistemi metrici romani e bizantini[65] – e sarebbe questo, ove convalidato, un ulteriore dato di sicuro interesse – si avrebbe finalmente conferma della formazione culturale longobarda del lapicida e un preciso termine post quem individuato nel regno di Liutprando (712-744), quando fu introdotto il nuovo sistema di computo. Se può essere indice di un possibile “grado di longobardità” dell’anonimo attivo a Bisarcio, neppure l’artefice che opera a Cividale del Friuli, prima capitale della Langobardia major, si è ancora aggiornato sul nuovo parametro, ma costruisce l’Altare di Ratchis su rapporti aritmetici e su di un modulo “che oscilla entro i valori del piede bizantino” di 32 cm[66]. Il condizionale è d’obbligo e la prudenza più che mai necessaria perché le misurazioni sono state effettuate sulla sola riproduzione fotografica, talvolta imprecisa e fuorviante a causa delle distorsioni ottiche determinate dagli obiettivi fotografici.

Andrea Pala osserva come la totalità dei frammenti liturgici medievali isolani sia, come nel caso in esame, fuori contesto e derivi da complessi smembrati e dispersi nell’integrità[67]. Di qui la difficoltà di stabilire anche la sola appartenenza dell’arredo liturgico alla decorazione esterna, piuttosto che a quella interna[68]. L’impossibilità di sondare la profondità di questo concio, perché incassato nel paramento, non ne agevola l’analisi e lo studio. Tuttavia, per i danni rilevabili alla base del manufatto, si può presumere una fragilità e una vulnerabilità compatibile più con una lastra che con un pilastrino. Ai margini del suppedaneo furono, infatti, operati importanti interventi di riadattamento, forse al fine di sanare talune probabili lesioni, maturate nella complessa vicenda storica del manufatto, presumibilmente a seguito del crollo della galilea della fabbrica romanica (post 1585)[69]. La finitura lineare del margine superiore e inferiore lascia intendere che lo stesso abbia comunque conservato la misura originaria di 83,2 cm, pari a circa 1 piede e 11 once longobardi (= cm 83,89). Stesse conclusioni, nonostante l’irregolarità del profilo dei fianchi (max 37 - min 26 cm circa), per la larghezza della lastra. Nel margine destro, sopravvive un tratto integro del listello del bordo, che in origine inquadrava tutto il rilievo. Qui la larghezza è di circa 37 cm, pari a circa 10 once longobarde (= cm 36,48). Il dato nella fattispecie è esente da distorsioni ottiche perchè direttamente rilevato sul manufatto. Ma anche questo che potrebbe essere il riscontro dirimente di una formazione culturale longobarda è contaminato dalla compatibilità dei dati metrici con il piede bizantino, che deriva anch’esso dal piede romano. L’equivalenza metro/piede bizantino produrrebbe in tal caso un’altezza di circa 2 piedi e 8 once (= cm 83,72) per una larghezza di circa 1 piede e 2 once (= cm 36,64).

 

 

Formella longobarda del San Michele pesatore di anime (IX-X secolo), particolare del Trono Reale, Monte Sant’Angelo, santuario di San Michele.

 

 

Formella del S. Giorgio che uccide il drago (1010), Petrella Tifernina, antica chiesa di San Giorgio martire.

 

Alla luce di queste acquisizioni, che restituiscono il quadro di un’opera lacunosa ma sufficientemente integra, si crede di riconoscere nel rilievo superstite una formella simile a quella del più volte ricordato San Michele pesatore di anime di Monte Sant’Angelo e del San Giorgio che uccide il drago di Petrella Tifernina (databile al 1010)[70]. Nel primo, ritenuto tra i più antichi esempi del tema iconografico dell’Angelo che uccide il drago, la figura del San Michele, più strutturata ma meno geometrizzata e stilizzata, quindi più tarda, mostra significative, sorprendenti convergenze col S. Antioco, qui compendiate nella postura frontale, nel tondo del volto, nel rigido panneggio della tunica (con analoga chiusura “a siparietto”) e nella sproporzione degli arti superiori. Nel secondo, l’immagine del santo è scavata e genera quasi un sottosquadro per certi tratti molto simile a quello del rilievo di Bisarcio. Si attesta così la dipendenza da uno stesso ambito culturale e la persistenza, in tempi più o meno seriori – nel caso del San Michele forse addirittura quasi coevi al S. Antioco (IX secolo, se passasse l’ipotesi del Rotili e della Magni)[71] – di forme e modi longobardi, in quelli che già  furono i possedimenti dei Ducati di Spoleto e di Benevento, nella Langobardia minor, che convalidano definitivamente l’ipotesi sin qui sostenuta.

 

 

Formella romanica della rivelazione del martirio in croce di San Pietro, Bulzi, chiesa di San Pietro delle Immagini, (primo ventennio XII – ultimo quarto XII sec.).

 

In epoca bassomedievale, inedite invenzioni scultoree – conformi a queste non tanto sul piano stilistico, quanto su quello funzionale della celebrazione del santo eponimo o del Cristo o di entrambi in facciata –  si riscontrano in Sardegna in tre chiese romaniche: nel San Pietro delle Immagini, in agro di Bulzi (primo ventennio XII sec. – ultimo quarto XII sec.), nella Nostra Signora di Cabu Abbas presso Torralba (1160-1180) e nel San Giovanni Battista di Orotelli (ante 1139)[72]. La prima formella insiste nella lunetta sull’architrave del portale principale e ritrae il primo Vescovo di Roma con una mitra in capo, una cintura ai fianchi e le braccia al cielo, tra due figure in scala minore. Si tratta di una libera trasposizione plastica della Rivelazione di Gesù sul martirio in croce di Pietro, ricordata dall’evangelista Giovanni: “Quando eri giovane ti cingevi e andavi dove volevi, ma quando sarai vecchio stenderai le braccia e un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vorrai. Disse questo per indicare con qual genere di morte avrebbe glorificato Dio”[73]. L’ipotesi è sostenuta, oltre che dal riscontro della cintura (Pietro è l’unico a portarla), anche dalla postura delle mani appena voltate all’esterno, in linea con un ideale patibulum, piuttosto che verso l’alto come quelle di un orante.

 

 

 

Cristo guerriero trionfa sulla morte e sugli inferi, Torralba, chiesa di Santa Maria di Cabu Abbas (XII-XIII secolo).

Nella Nostra Signora di Cabu Abbas, l’altorilievo è al centro del timpano, in uno spazio architettonico corrispondente a quello di Bisarcio. L’antropomorfo che vi compare, sinora considerato l’immagine di una divinità precristiana[74], è cinto ai fianchi da un corto gonnellino, ritmicamente scandito dalle pieghe di un rigido panneggio, simile a quello del San Giorgio di Petrella Tifernina. L’inusuale attributo richiama i pterigi dell’uniforme dei soldati romani e ha il suo archetipo nel musivo Cristo guerriero calpesta un leone e un serpente (V-VI secolo), della cappella arcivescovile, bizantina di Ravenna[75]. Con la mano destra appena levata, ma ormai perduta, stringeva uno stretto cilindro, di cui avanza la parte apicale sulla spalla destra. Potrebbe benissimo essere questo il rotolo della Legge, che accompagna l’iconografia del Cristo nella tradizione bizantina altomedievale. Lo sovrasta un altro concio triangolare della stessa pietra lavica, ben distinto dall’antropomorfo dallo spesso margine del blocco lapideo, nel quale lo stesso è scolpito. Respinta l’ipotesi identificativa in una mitra simile a quella in capo al San Pietro di Bulzi[76], si ha ragione di riconoscere nel triangolo con il vertice volto verso l’alto il “simbolo del mondo celeste che trionfa sulla morte e sull’inferno”[77]. L’immagine che ne deriva ha il suo riscontro in una miniatura del preziosissimo Salterio Chludov, redatto subito dopo l’815[78] e sopravvissuto alle lotte iconoclaste, nella quale il Cristo ha l’attributo del rotolo ed è circoscritto da un alone trinitario[79]. Il riconoscimento sembra trovare conferma in una piccola epigrafe corrotta, forse posticcia, inscritta nell’archetto sul quale la formella insiste, dubitativamente interpretata come ‘Iesu’[80]. È probabile – per il riscontro di opere coeve (XII sec.) in altre chiese romaniche sarde, di cui si dirà oltre – che possa essere questa odierna l’originaria collocazione del manufatto, posto in opera in un tempo prossimo al 1160-80, quando sarebbe giunta a termine la fabbrica[81]. Non deriverebbe, quindi, da un preesistente tempio di cui avanza un concio dell’altare nella stessa pietra lavica, oggi alla base del paramento del fianco meridionale, qui riconosciuto per il sepolcreto di consacrazione, con residue tracce di piombo della capsella all’interno.

Il terzo, interessantissimo esempio di confronto è rappresentato da un inedito gruppo scultoreo, sul campanile a vela della chiesa romanica di San Giovanni Battista di Orotelli, già cattedrale della diocesi di Ortillen dal 1116 al 1139[82]. Si tratta di un complesso sistema di più formelle ad alto rilievo, riconducibili a una stessa unitarietà concettuale, tesa alla esaltazione della figura del Battista quale precursore del Salvatore, coprotagonista dell’articolato fregio. Non si esclude che la sola figura del Cristo, in uno stato di maggiore degrado, forse per un vissuto differente (è monco degli arti superiori, dei piedi e di gran parte della lancia), fosse in origine allocata in altro spazio architettonico, forse nel timpano della chiesa. L’ipotesi nasce da una affinità di forme e di modi che intercorre tra il Cristo guerriero di Torralba e quello di Orotelli. Il capo piriforme col vertice volto al basso, le labbra sottili e la bocca larga (qui nella cornice di una corta barbetta), il corto gonnellino in pterigi (nella fattispecie stretto con una sorta di cingolo), la postura perfettamente frontale e rigida, e la maggiore stilizzazione della figura sono riconducibili a uno stesso ambito culturale, denso di tarde persistenze bizantine, e a un medesimo tempo, individuato per la convergenza di più dati cronologici nel XII secolo[83].

In epoca remota, probabilmente nel XIV secolo, intorno alla figura del Cristo guerriero di Orotelli, recuperato e riadattato all’occorrenza, avrebbe preso forma, sul campanile che in quel tempo giungeva a compimento, un nuovo gruppo di altorilievi[84]. Tra gli elementi di novità, nel fianco nord est del pilastro settentrionale, si espone uno squamato e pinnato Drago che attenta ad un neonato in una naturalissima posizione fetale, con le mani sul volto. È la trasposizione plastica del passo dell’Apocalisse in cui si narra del drago che “si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato”[85].

 

 

Drago che attenta al bambino, Orotelli, chiesa di San Giovanni Battista (secc. XII-XIV).

 

 

 

San Giovanni Battista, Orotelli, chiesa di San Giovanni Battista (secc. XII-XIV).

 

 

 

Cristo guerriero trafigge il serpente, Orotelli, chiesa di San Giovanni Battista (secc. XII-XIV).

Nel fianco opposto del pilastro, sono due rare iconografie del San Giovanni Battista e del cennato Cristo guerriero. L’anonimo lapicida rivela tutto il suo sorprendente estro nell’invenzione straordinaria – un unicum nella vicenda iconografica battistiana – di un agile, umanissimo San Giovanni con lunga capigliatura che, nudo per l’innocenza adamitica ritrovata nell’anastasi[86], afferra con entrambe le due mani, quasi fosse una grossa scopa, l’elaborata palma del martirio, per un uso a dir poco improprio. Secondo modi più prossimi a una cultura pagana che consoni a un modello di santità, flette le gambe e compie una potente torsione sul proprio asse come un tennista; quindi si carica di slancio per castigare una volpe, che evoca i rimproveri mossi a Erode[87]. Il selvatico, nelle antiche iconografie di norma a lui sottomesso[88], qui caccia una lepre, il cui valore è solo di corroborare l’identificazione della predatrice. Per l’improbabile collocazione della coppia zoomorfica all’altezza della palma, si deve ammettere un colpo di palma già ben assestato, che li ha proiettati in aria. L’ipotesi è confermata dagli arti posteriori della volpe, come atrofizzati per una botta ormai incassata. Il Battista ha un collo taurino, segnato da parte a parte da un solco profondo che, sull’esempio del S. Antioco decollato, ne evoca il martirio. A una quota inferiore, la figura del Cristo guerriero trafigge il serpente ai suoi piedi con una lancia, di cui avanza solo un tratto dell’asta all’altezza dell’orecchio destro[89], secondo un modello che ricalca, in parte, l’omologo soggetto del Salterio di Stoccarda.

Il cinto, antico simbolo di fedeltà coniugale[90], assume qui un significato più esteso che rimanda all’idea di un Dio fedele, secondo la profezia di Isaia “cintura dei suoi fianchi la fedeltà”[91]. In questo contesto dualistico di eterna lotta tra il bene e il male, che pervade la cultura medievale (il drago che attenta al Cristo neonato è lo stesso Satana trafitto e vinto dal Cristo), si colloca il Battista-battitore, a cavallo delle età sub lege e sub gratia: l’ultimo dei profeti e il primo dei martiri della cristianità.

Qualunque sia stata l’originaria collocazione architettonica della formella longobarda di Bisarcio, non si è lontani dal vero se vi si riconosce una pertinenza dell’antica chiesa arsa “non oltre il nono decennio del secolo XI”[92], cattedrale da un tempo non definito[93] ma ragionevolmente, per questo rilievo in facciata, già intitolata a S. Antioco tra il 750 e l’850. Di certo si può dire che il recupero del manufatto per un valore “antiquario” e “sacrale” dimostra una profonda, solida affezione verso questa immagine, maturata in più secoli di devozione[94]. L’assunto è suffragato dal ricollocamento del rilievo in un prospetto di facciata, nel quale il santo era già rappresentato dalla Protome romanica del S. Antioco sulcitano[95] a metà della cornice marcapiano, tra girali di foglie di acanto e dentelli in parte scalpellati in occasione di un “restauro”.

 

 

Protome romanica del S. Antioco sulcitano (1170-1190 circa), Ozieri, Bisarcio, chiesa di S. Antioco

 

 

 

S. Antioco sulcitano di Sebastiano Cau e Pietro Giovanni Pintus (1618), Assemini, chiesa di San Pietro (foto di M. Salis).

 

 

L’identificazione del secondo rilievo del protomartire sardo, un manufatto riconducibile a maestranze toscane e francesi, che tra il 1170 e il 1190 operarono fianco a fianco per la costruzione della galilea dell’ex cattedrale bisarcense, ancora una volta è per l’attributo di un turbante a torciglione, privo di fez come quello del S. Antioco longobardo. Il copricapo nella fattispecie è caratterizzato da una improbabile bordatura, non dissimile dalla corona regale che cinge il capo di uno dei committenti della stessa fabbrica, Costantino II de Lacon (Gunale), al centro della lunetta dell’archivolto della bifora accecata[96]. La ragione di questa insolita e improbabile finitura, che nasconde interamente la chioma, sarebbe da ricercarsi nell’intenzione del lapicida, comunque poco avvezzo a “mode orientaleggianti”, di definire meglio un copricapo che rischiava l’equivoco di una capigliatura ad ampie ciocche, tirate indietro a sinistra. L’insolito tratto iconografico del “turbante-berretto” ha un solo confronto nell’iconografia antiochiana, individuato nel bassorilievo a figura intera, commissionato nel 1618 ai picapredres Sebastiano Cau e Pietro Giovanni Pintus, per la gemma pendula della crociera della cappella di S. Antioco della parrocchiale di San Pietro di Assemini[97].

 

 

 

In alto a sx: capo del Simulacro ligneo del S. Antioco (1596), Ozieri, Museo diocesano di Arte sacra; a dx:. Protome romanica del S. Antioco, Ozieri, Bisarcio, chiesa di S. Antioco; In basso: Simulacro ligneo del S. Antioco (sec. XVII), Iglesias, cattedrale di Santa Chiara.

 

Anche in assenza della codificazione una “vera effigie del santo”, non si possono non cogliere talune corrispondenze fisionomiche tra il volto ovale, regolare e ben levigato del modello romanico e quello del più antico simulacro ligneo del protomartire, anch’esso di pertinenza dell’ex cattedrale di Bisarcio, datato 1596[98]. Quest’ultimo è privo del tipico copricapo orientale, ma sorge il sospetto – per la strettissima corrispondenza del disegno delle pieghe del turbante della protome romanica e quello delle ciocche della capigliatura del legno cinquecentesco – che lo scultore possa avere, se non proprio travisato la natura del più comune dei suoi attributi agiografici, almeno tratto da questo ispirazione per una acconciatura con scriminatura centrale a piccole ciocche piatte, ugualmente tirate indietro.

Per una antica tradizione orale raccolta da Francesco Amadu[99], nella stessa si riconoscerebbe “quella statua che era stata nella chiesa del Santo”, donata dalla Collegiata sulcitana quasi a risarcire la Collegiata bisarcense della perdita dell’ancona dell’ex cattedrale, arsa in un incendio alla fine del XVIII secolo. L’ipotesi potrebbe anche non ritenersi infondata per la prossimità dei tratti somatici che si riscontrano nel S. Antioco della cattedrale di Santa Chiara di Iglesias, databi­le al XVII secolo, dove furono traslate le spoglie mortali del santo dopo l’inventio del 1615. A prescindere da una tradizione non più verificabile, è molto probabile che tra fine Cinquecento e primo Seicento, in un’epoca in cui, nello spirito della Controriforma, è vivissimo il culto dei martiri locali[100], si sia cercato di conformarsi, a Bisarcio e a Iglesias o, se si vuole, a Sant’Antioco e Iglesias, a un modello iconografico comune che nella protome romanica – tra le due qui in esame quella con tratti fisionomici più realistici e, per la minore altezza dal suolo, più facile da riprodurre  –  sembra avere il suo archetipo.

 

 

 

 

 

Ozieri, Bisarcio, probabile absidiola della chiesa dello Spirito Santo (ante 1539) e chiesa di S. Antioco  (ante 1090 -1170/90).

 

Se il S. Antioco longobardo e il S. Antioco romanico destano interesse per l’attestazione di una continuità cultuale antiochiana in ambito regionale, il loro riconoscimento non è da meno per l’evoluzione della vicenda devozionale del santo a Bisarcio. Nei registri degli inventari dei beni censiti all’interno della chiesa, in occasione delle visite pastorali della prima metà del Cinquecento dei vescovi di Alghero e Unioni, – tra i quali alcuni paramenti sacri derivanti da una inedita chiesa sotto il titolo dello Spirito Santo (iglesia del Sanct Sperit)[101], forse quella stessa di cui avanzano i ruderi nel prossimo villaggio di Bisarcio[102] e che attesta la recezione e la persistenza di un culto bizantino – non si trova, infatti, alcuna figurazione e neppure un altare intitolato al santo. In concomittanza della visita pastorale del 1539[103], presso l’altare maggiore, presumibilmente nelle testate delle navatelle, erano due altari: a destra uno intitolato a Santo Stefano (da cui deriva un raro rilievo litico di un Santo Stefano barbato della fine del XII secolo, oggi al Museo diocesano di Arte sacra di Ozieri[104]) e a sinistra uno in onore di Santa Barbara. Non distante dal coro era la cappella di San Nicola con un retablo. Nell’aula: una cappella alla Santissima Vergine e due altari sotto il titolo di San Salvatore e della Maddalena. Il portico della galilea ospitava una cappella sotto l’invocazione di San Sebastiano, dotata di un retablo. Al primo piano, nella cappella episcopale, era un altare sotto il titolo di San Giacomo[105], per il quale in quell’anno è stato commissionato un retablo in una bottega di Sassari. Nell’inventario della visita del 1549, si registra una vecchia Crocifissione nell’altare di Santo Stefano, un altare di San Giovanni nel coro e una cappella della Confraternita di Nostra Signora delle Raccomandate (forse quella stessa genericamente dedicata alla Vergine della visita precedente) con un retablo di buona fattura; quindi, un altare della Maddalena con un retablo piccolo e vecchio, un altro piccolo retablo nell’altare di San Nicola e, infine, un piccolo retablo, credibilmente quello di bottega sassarese, nella cappella di San Giacomo[106].

Si apprende così che in occasione della stessa visita pastorale effettuata da don Giovanni Francesco Rocca per conto del vescovo di Alghero Durante De Duranti il 12 maggio 1539, nel S. Antioco di Bisarcio sono in corso dei lavori per il rifacimento di un altare maggiore. All’epoca il retablo è già dotato di due scomparti (l’Annunciazione e la Natività), del simulacro della Vergine con il Bambinello e di alcune tavole della predella non dipinte né messe in opera[107]. Del polittico non resta che la scarna memoria di un viaggiatore inglese, John Warre Tyndale, che nel 1843, durante un viaggio nell’isola, ancora prima del canonico Giovanni Spano attesta: “Anticamente, attorno all’altare maggiore [di S. Antioco di Bisarcio] stava un fondale dipinto di stile uguale, ma più pregevole, a quello della chiesa sorella [Ardara] che, sfortunatamente, finì bruciato da una lampada che vi stava sospesa”[108].

Dalle scarne note del 1539 e dalla testimonianza di Warre Tyndale, si evince che quello descritto è il trittico inferiore di un polittico strutturato, impostato forse sulle storie della Vergine, sul modello a triplo trittico del noto Retablo di Santa Maria del Regno di Ardara[109]. Se l’adozione di un tale soggetto è una ovvietà per il polittico dell’antica cappella palatina dei giudici di Torres intitolata alla Mater Dei, potrebbe apparire una incoerenza nel S. Antioco, sapendo che della chiesa di Bisarcio è patrono il martire sulcitano. Il fatto potrebbe trovare giustificazione in una antica fonte documentale, una tarda trascrizione di una nota della fine del XII secolo, dalla quale si apprende che l’ex cattedrale è consacrata a onore de deus et dessa birgine maria et de santu antiogu[110] il 1 settembre 1164 durante l’episcopato di Giovanni Thelle, come confermato nell’epigrafe consacratoria recentemente rinvenuta[111]. Alla luce di questi eventi, è più che probabile che l’antico altare con gli arredi conformati al santo eponimo, non sia stato censito perché già smantellato in quel 1539. Si troverebbe così la ragione di una chiesa ricca di più pale d’altare, anche di buona fattura, ma sorprendentemente priva di una immagine del patrono, il cui culto sarebbe stato “surrogato” dalla formella longobarda e dalla protome romanica, almeno fin tanto che – e sembra questa l’ipotesi più realistica – nel 1596 non fu commissionato a una bottega sarda quel simulacro ligneo che, nella ripresa del corrispondente tratto fisionomico, ne rinsaldava l’antica devozione.

 

 



[63] R. Coroneo, Scultura altomedievale in Sardegna: status quaestionis e ricerca nel territorio, «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari», liii (1998), pp. 74-75. R. Coroneo, La cultura artistica, in Ai confini dell’impero. Storia, arte e archeologia della Sardegna bizantina, Cagliari 2002, p. 262, fig. 22, Pluteo con decoro geometrico.

[64] “Piede longobardo (Pes Liutprandi regis/pes cubitalis/pes publicus). Il piede longobardo deriva da un piede bizantino più cinque unciae romane: 31,42 + 5 x 2,47 =  43,77 cm. Il piede longobardo deriva di conseguenza da un piede romano più un digitus, più cinque unciae: 29,57 + 1,85 + 2,47 =  43,77 cm. In conclusione si evidenzia che il piede longobardo è la somma di tre tipologie di unità di misura romana. […] Il piede di Liutprando contiene l’unità di misura di riferimento che consente sia il calcolo delle superfici che delle lunghezze. Consente di derivare tutte le misure di superficie e lunghezza (multipli e sottomultipli) attraverso l’uso del sistema duodecimale più semplice da utilizzare del sistema decimale:  sistema xii – 2, 3, 4, 6; sistema x – 2, 5” (cfr. A. Ciarrocchi – G. Ciarrocchi, Storia architettonica e edilizia della pieve di San Basso alla Civita, FederArcheo, iii Convegno nazionale Nocera Umbra, pp. 9-10; il saggio è disponibile al seguente indirizzo (consultato il 22 settembre 2014): http://www.federarcheo.it/wp-content/uploads/Storia-architettonica-e-edilizia-della-pieve-di-San-Basso-alla-Civita-Cupra-Marittima-Ap..pdf ).

[65] Tra i rari manufatti superstiti della Sardegna altomedievale, integri in altezza, si ricordano un Pluteo con leonessa  (metà X sec.) da Maracalagonis, alto cm 62 = 2 piedi bizantini; un Pluteo con figure animali (seconda metà X sec.) dall’isola di San Macario presso Pula, alto cm 58 = 2 piedi romani; due frammenti di pluteo (primi decenni XI sec.) da Sant’Antioco: il primo con equino o bovino, alto cm 43 = circa 1 piede + 2 palmi romani, il secondo con  leonessa, alto cm 68 = circa 2 piedi + 1 palmo romano (cfr. Coroneo, La cultura artistica, in Ai confini dell’impero. Storia, arte e archeologia della Sardegna bizantina, cit., p. 269, fig. 32a; p. 274, figg. 41- 46b/c).

[66] Per il calcolo del modulo dell’Altare di Ratchis si veda lo studio di L. Chinellato,  L’Altare di Ratchis. La ricerca e le policromie: il saggio è disponibile al seguente indirizzo (consultato il 22 settembre 2014): http://www.archeofriuli.it/files/l%20altare%20di%20ratchis,%20ricerca%20e%20policromie.pdf.

[67] A. Pala, Arredo liturgico medievale. La documentazione scritta e materiale in Sardegna fra iv e xiv secolo, Cagliari 2011, p. 32.

[68] R. Coroneo, Capitelli e mensole in Sardegna fra vi e vii secolo, «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari», nuova serie xxi, vol. lviii (1998), pp. 121-122.

[69] Un possibile termine post quem è stato proposto dallo scrivente nel 1585 per la figurazione nella tavola Crocifissione del Retablo di Sant’Elena del Maestro di Ozieri (olio su tavola trasportato su tela,  145 x 149 cm, Benetutti, chiesa di Sant’Elena), dell’ex cattedrale con le due grandi bifore del piano terra ancora aperte (cfr. G.G. Cau, Il retablo di S. Elena di Benetutti (1585) del pittore Andrea Sanna detto il Maestro di Ozieri, «Quaderni Bolotanesi», xxix (2003), pp. 214-215).

[70] San Giorgio che uccide il drago, databile al 1010, bassorilievo, Petrella Tifernina, chiesa di San Giorgio martire, paramento esterno del fianco meridionale (cfr. B. Incollingo, La scultura romanica nel Molise, Roma 1991, p. 141. Medioevo in Molise. Il cantiere della chiesa di S. Giorgio martire a Petrella Tifernina, a cura di F. Gandolfo, M. Gianandrea, W. Angelelli, F. Pomarici, Roma 2012). L’ipotesi cronologica sembra trovare riscontro nel rilievo della lunetta del portale principale della chiesa, che illustra l’episodio di Giona e la pistrice, e l’Agnus Dei. Nella parte inferiore sono scolpite le lettere “mdecimo”, interpretate quale parte ultima di un improbabile “ad (mxxcv)mdecimo”, sciolto in “Anno Domini milledimoduecentesimoundecimo”. Più realisticamente, il linea con il dato stilistico, si crede qui di poter tradurre in un “millesimodecimo”. Per una cronologia ante XI secolo e per una paternità longobarda dell’antica chiesa di san Giorgio e dei rilievi, si segnala l’intervento di F. Valente, Si chiamava Alferid ed era longobardo il costruttore della prima chiesa di S. Giorgio a Petrella Tifernina, al sito istituzionale del comune molisano http://www.comune.petrellatifernina.cb.it/include/mostra_foto_allegato.php?servizio_egov=sa&idtesto=82    

(consultato il 6 febbraio 2015).

[71] Per una sintesi delle differenti ipotesi cronologiche si veda la nota 39.

[72] Nell’epoca romanica il santo patrono è rappresentato in numerose chiese romaniche sarde, spesso nelle architravi, nelle  arcatelle, sul campanile o nelle basi delle paraste. Nel San Pietro extra muros di Bosa (ultimo quarto XIII sec.), ad esempio, il successore di Cristo è in nicchia, all’estremità destra dell’architrave del portale principale. Nel San Pietro di Zuri (1291) lo stesso è nell’architrave del portale principale e sul campanile. A Santa Maria di Uta (seconda metà XII sec.), nel quarto peduccio del secondo ordine di arcatelle della facciata, l’Ancilla Domini sostiene il suo più costante attributo, il libro aperto; accanto, su di una formella in leggero aggetto è un piccolo Angelo annunziante, di cui avanzano solo gli arti inferiori. Al santo martire Lussorio è dedicata parte di un intero ciclo scultoreo in massima parte rappresentato in alcune basi delle paraste, nel santuario di Fordongianus (si veda la nota 83).

[73] Gv 21, 18-19. Allo stesso soggetto sembra alludere una formella attribuita a uno scultore lombardo, attivo a Verona   nell’XI secolo; il rilievo è oggi a Firenze, nel Cenacolo di Santo Spirito, Fondazione Salvatore Romano. L’immagine è visionabile all’indirizzo: https://www.flickr.com/photos/25831000@N08/2535021494/in/photostream/ (consultato il 6 novembre 2014).

[74] M. Botteri, Guida alla Chiese medioevali di Sardegna, Sassari 1977, p. 159.

[75] A. Lorizzo, I mosaici di Ravenna, Ravenna 1975.

[76] M. Botteri, Guida alla Chiese medioevali di Sardegna, cit., p. 58. Sulla stessa linea interpretativa si muove Renata Serra (cfr. R. Serra, Sardegna Romanica in R. Coroneo R. Serra, Sardegna preromanica e romanica, coll. “Patrimonio artistico italiano”, Milano 2004, p. 208).

[77] I. Schwarz  Winkihofer – B. Biedermann, Il libro dei segni e dei simboli, Milano 1974, p. 91. Alla stessa pagina gli autori pubblicano il “Dettaglio da una incisione-emblema di Cristoforo da Sichem per H. Hugo S.J.: Pia Desideria Emblematis Elegiis et affectibus S.S. Patrum Illustrata 1628”, con un benedicente Cristo in maestà, che sovrasta gli inferi sotto un radioso triangolo di luce.

[78] Mosca, Gosudarstvennyi Istoritscheskij Muz., Cod. 129, c. 63r.

[79] J. Zervou Tognazzi – M. Mihályi, Enciclopedia dell’Arte Medievale (1991), v. ‘Anastasi’, a cura di J. Zervou Tognazzi,  http://www.treccani.it/enciclopedia/anastasi_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Medievale%29/ (consultato il 2 marzo 2015).

[80] Non si esclude un’altra lettura della stessa epigrafe, il cui esito produrrebbe un “1891” del tutto estraneo alla vicenda del rilievo, forse relativo a un rifacimento del tetto.

[81] La cronologia è così indicata da Renata Serra (cfr. R. Serra, Sardegna Romanica in R. Coroneo R. Serra, Sardegna preromanica e romanica, cit., p. 278).

[82] Per Renata Serra i rilievi sono “di incerta interpretazione” (ibidem).

[83] La proposta cronologica è sostenuta da un terzo antropomorfo, con simile capo piriforme e vertice volto al basso ma sprovvisto del gonnellino in pterigi. È scolpito nel primo rocchio sopra la base semicircolare della semicolonna sinistra, dell’abside del santuario di San Lussorio di Fordongianus, per il quale si è suggerita una cronologia tra il 1100 e il 1120, al tempo della penetrazione dei Vittorini nel Giudicato di Arborea (ibi, p. 252). Il rilievo è il primo di un insieme “di sculture figurate, aliene da ogni intento di organicità classica”, del quale non si era sinora colto “il tema e lo stile del ciclo, al di là di generici riferimenti a sculture protoromaniche” (ibi, pp. 251-252). Il soggetto – nel quale si riconosce qui il Dio vetero testamentario – ha il braccio sinistro levato e dialoga con le figure di un secondo rilievo, in sequenza sul basso plinto della semicolonna destra. A fronte dell’Altissimo, molto consumato e vuoto, è il possente, monumentale trono promesso da Dio al re Davide. Il biblico re è come assiso a destra del trono, con genitali  ipertrofici in evidenza, perché il Signore gli ha giurato: “Il frutto delle tue viscere io metterò sul tuo trono!” (Sal 132, 11). Segue un’alternanza di personaggi maschili (in massima parte assisi su di un trono ideale, spesso oranti) e femminili (in piedi e vestiti di una lunga gonna), di una dimensione molto inferiore all’Essere divino. È una simbolica rappresentanza dell’infinita stirpe davidica, che ha il suo destino nel Cristo “radice della stirpe di Davide” (Ap 22, 16), celebrato all’opposto diametrale del primo re della tribù di Giuda da una croce greca con quattro lettere in caratteri vagamente onciali, oggi sbrecciate, abbozzate in altrettanti quadranti (“i – e”  a sinistra, “s – u” in quelli di destra), ricomposte in “iesu”. Così ridisegnato, il gruppo scultoreo si propone quale episodio della Consacrazione della stirpe di Davide, con puntuali riscontri nella promessa del Signore, ricordata in alcuni versi del Salmo 88: “Ho stretto un’alleanza con il mio eletto, ho giurato a Davide mio servo (v. 4): stabilirò per sempre la tua discendenza, ti darò un trono che duri nei secoli” (v. 5); “Ho trovato Davide, mio servo, con il mio olio l’ho consacrato” (v. 21); “La mia mano è il suo sostegno, il mio braccio la sua forza” (v. 22). “In eterno durerà la sua discendenza il suo trono davanti a me quanto il sole” (v. 37). Quasi a metà del rilievo è interposto un betile, allusivo a quel Dio “roccia della mia salvezza” (v. 27) invocato da Davide.

Il ciclo completo si articola in nove episodi (otto i superstiti), tutti figurati sul paramento esterno della chiesa, su basi troncopiramidali istoriate, di paraste in gran parte perdute. L’intera rappresentazione è tesa all’esaltazione del Cristo e del suo servo il santo martire Lussorio, attraverso l’illustrazione di alcuni passi biblici, di verità dottrinali cristiane e di taluni episodi della fabula agiografica, tramandata nella medievale Passio sancti Luxurii. Con la riserva di un prossimo approfondimento, si ritiene sufficiente anticipare in questa sede almeno i soggetti e l’impianto del più antico ciclo scultoreo ‘romanico’ della Sardegna, unico nelle architetture vittorine isolane. Al Dio Padre dell’abside (l’Altissimo che benedice la stirpe di Davide) conseguono i due rilievi dei fianchi. Qui sono protagonisti il Figlio e lo Spirito Santo, per i quali si completa un quadro trinitario, sul quale si innestano gli altri episodi del prospetto di facciata. La Nascita di Gesù secondo Matteo (Mt 1, 18-21) è celebrata nella fronte di una base forse erratica, per esclusione in antico pertinente al fianco meridionale. Ne sono protagonisti (da sx a dx): il Cristo germoglio e virgulto della radice di Iesse, la colomba dello Spirito Santo, un san Giuseppe orante, la Vergine e il Bambino e, forse, un angelo (oggi perduto). Il concio, asportato da ignoti già prima del 1977, è a destra del portale volto a sud, in una foto (n. 8444) dell’Archivio fotografico della Soprintendenza per i b.a.p.s.a.e. di Cagliari. Lo Spirito Santo-Sorgente di acqua viva  è figurato, nei termini espressi dal Vangelo di Giovanni (4, 5-14), nella fronte e nella faccia destra, della base della seconda parasta, del fianco nord. Nella sezione superiore, tra potenti onde e flutti, è la bocca di una sorgente da cui sgorga un fiotto di acqua. Nella sezione inferiore frontale è un’ampia, spettacolare teoria di piccole sorgenti zampillanti, che dalla maggiore discendono su più righe in leggero declivio. Nella faccia sinistra della stessa base è un’epigrafe illeggibile, inscritta in una griglia modulare. Il Symbolum Nicænum Costantinopolitanum è nella faccia sinistra della base di una perduta parasta, a sinistra del portale principale d’ingresso. Qui, due fasce parallele, al margine superiore e inferiore della formella, richiamano l’opera di “un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili”. Gesù è l’Unto del Signore (il “Cristo”) e “Unigenito Figlio di Dio” “per opera dello Spirito Santo” adesso figurato nella inusuale forma antropomorfica del Dito della mano di Dio. Sul polso di questa, entro due riquadri, i rilievi di un’alfa e un omega alludono al concetto di filiazione divina, perché il Messia è “nato dal Padre prima di tutti i secoli”. Il Figlio è “Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato della stessa sostanza del Padre” di un cono di luce, di una semiraggiera solare a destra del rilievo, che ne illumina il volto circolare come una particola Eucaristica. Alla destra di questa (la sinistra del riguardante), nella volta celeste, il Salvatore esibisce sul capo tre, forse quattro chiodi, perchè “per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo” e, maggiormente, perché “fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture, è salito al cielo, siede alla destra del Padre”. Chiude la trasposizione plastica del Symbolum uno dei raggi della Luce divina che si salda al mignolo della mano come a trasmettere un’energia, perché lo “Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, procede dal Padre e dal Figlio”. Frontale, nella stessa base, è l’Agnus Dei qui tollit peccata mundi, con croce commissa in spalla. L’Emmanuele è tra due oranti, mentre a sinistra un cinghiale, emblema del peccato, è scacciato, schiacciato dalla mano di Dio. Presso l’Agnus Dei, identica nel disegno, la cennata bocca della sorgente qui richiama quel “fiume d’acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello” (Ap 22, 1). Nella parte superiore destra, un disco solare raggiante allude a un passaggio del Cantico di Zaccaria, dove sia afferma: “verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte” (Lc 1, 78-79 Sulla faccia destra è la Conversione e catecumenato di Lussorio che come un novello Costantino, rigetta la daga e sale cavallo con il vessillo della croce. In simmetria, nella  faccia sinistra della base di una perduta parasta a destra del portale, è il Battesimo di Lussorio figurato tra il Chrismon e un pesce allusivo all’acqua lustrale (a sx), e un grappolo di uva, simbolo della Chiesa di Fordongianus nella quale fa ingresso (a dx). Frontale è la Persecuzione e vittoria del martire Lussorio, che a cavallo, armato di lancia e della palma del martirio, affronta e vince un cavaliere metaforicamente disarmato dal suo fermo credo in Cristo. Nella faccia destra, per ultimo, è un San Lussorio in gloria Domini. L’episodio richiama la promessa del Cristo apocalittico a Giovanni, rivelata nella Lettera alla Chiesa di Laodicea: “il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono” (Ap 2, 21). Lussorio, in trono con una probabile palma alle spalle, sostiene e guarda negli occhi un serpente eretto, con le fauci spalancate. Come il serpente innalzato su una pertica da Mosè salvava quelli che lo guardavano (Nu 21, 7-9), così il Cristo immolato sulla croce assicura la vita eterna a quanti, come Lussorio, volgono lo sguardo su di Lui, ossia hanno fatto totale affidamento sul suo messaggio (Gv 3, 14). Il trono promesso dal Cristo è quel “trono di Davide suo padre(Lc 1, 32), annunciato dall’Altissimo in apertura di questo ciclo scultoreo. Si realizza così, intorno al trono del Cristo, una rinnovata, sorprendente coincidenza dell’Alfa e dell’Omega.

[84] Il sospetto di un rimaneggiamento dell’opera è sostenuto da un’ampia lacuna e dal conseguente reintegro litico, al margine inferiore destro del concio del Cristo.

[85] Ap 12, 4

[86] L’anastasi “venne codificata in ambito bizantino tra il 5° e il 6°secolo. Di norma al centro della composizione compare il Cristo che spesso tiene con la sinistra la croce del martirio mentre con la destra innalza Adamo. […]. A destra e a sinistra sono rappresentate tombe aperte, dalle quali vengono liberati Eva, Davide, Salomone, i giusti e s. Giovanni Battista”, cfr. J. Zervou Tognazzi, M. Mihályi, Enciclopedia dell’Arte Medievale (1991), cit.

[87] E.Urech, Dizionario dei simboli cristiani, Roma 1995, pp. 121-122, v. “Giovanni Battista”. L’associazione Erode-volpe nasce dall’epiteto rivoltogli dallo stesso Cristo (Lc 13, 32). L’associazione della palma a episodi di ‘resistenza’ martiriale ha, nella scultura romanica sarda, un precedente nell’episodio della Persecuzione e vittoria del martire Lussorio dell’omonima chiesa di Fordongianus (di cui si dirà oltre), nel quale il santo impugna la palma e imbraccia la lancia, in un duello a cavallo contro il persecutore romano. In quel caso il profilo della palma, differente da quella ben più realistica alle spalle dello stesso martire in gloria Domini del successivo rilievo, richiama quello di una mazza medioevale, che difende Lussorio e lo proclama vincitore ad un tempo.

[88] Ibidem.

[89] “A partire dal V secolo gli artisti cristiani che vogliono rappresentare la vittoria di Cristo sul peccato mettono a punto il proprio simbolo mostrando Cristo in persona che trafigge con la lancia un serpente che si inarca ai suoi piedi” (ibi, pp. 227-228, v. “serpente”).

[90] J. Hall, v. “cintola”, in Dizionario dei soggetti e dei simboli dell’arte, cit., p. 104. Lo stesso attributo cinge i fianchi di Lussorio nel Battesimo di Lussorio e del San Giuseppe nella Nascita di Gesù, del cennato Ciclo scultoreo del San Lussorio di Fordongianus.

[91] Is 11, 5.

[92] La proposta cronologica sull’incendio dell’antica chiesa di Bisarcio è di Raffaello Delogu (cfr. R. Delogu, L’architettura del Medioevo in Sardegna, cit., p. 76).

[93] F. Amadu, La Diocesi medievale di Bisarcio, a cura di G. Meloni, rist. Sassari 2003, pp. 11-13. Giuseppe Meloni ritiene possibile che la diocesi di Bisarcio esistesse già in età bizantina (cfr. G. Meloni, Mediterraneo e Sardegna nel Basso Medioevo, Cagliari 1988, p. 32).

[94] Negli inventari delle visite pastorali del XVI secolo, non si trova alcun riferimento a qualsiasi arredo liturgico dedicato al santo patrono.

[95] In bibliografia si registra solo l’intervento di Fernanda Poli che la considera una “rozza testa umana”, riferibile a “un tempo più tardo, e cioè quello della ricostruzione dello stesso portico” (cfr. F. Poli, La decorazione scultorea del Sant’Antioco di Bisarcio… , cit., p. 188).

[96] G.G. Cau, «Fabricata est haec ecclesia et consacrata sub tempore iudicis…». Il ritratto litico del giudice committente in talune chiese dell’Arborea e di Torres, tra XII e XIV secolo, «Theologica & Historica Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna», xxiii (2013), pp. 289-290.

[97] M. Salis, La chiesa parrocchiale di San Pietro in Assemini. Note per una cronologia, «ArcheoArte. Rivista elettronica di Archeologia e Arte»,  i (2010), cit., pp. 186-187, 194, tav. 4.

[98] Come altro esempio di invenzione e diffusione di una effigie non autentica di un santo martire in Sardegna, si porta il caso del simulacro di San Pantaleo di Dorgali (bottega sarda, XVIII sec. circa, Dorgali, chiesa di San Pantaleo) straordinariamente simile all’omonimo del Retablo di San Pantaleo (anonimo, ante 1503, doppio trittico mancante di predella, tempera su tavola con fondo d’oro, Dolianova, chiesa di San Pantaleo (cfr. G.G. Cau, Dorgali. Due campane per San Pantelénon martire, cit., pp. 12-13).

[99] F. Amadu, Storia della Diocesi di Ozieri. Il periodo algherese (1503-1803), Sassari 2003, p. 83.

[100] Per una sintesi sullo spirito controriformistico che sulla fine del Cinquecento aveva rilanciato il culto dei martiri e la ricerca delle spoglie mortali anche in Sardegna, si veda: Relazione sulla ‘inventio’ dell’illustre martire e apostolo della Sardegna, Sant’Antioco nella propria chiesa di Sulci, a cura di R. Lai, Monastir 2010, pp. 12-14.

[101] Archivio storico diocesano di Alghero (qui di seguito = Asdalghero), Registro delle visite pastorali, iii, Visita pastorale di Pietro Vaguer del 1549, f. 121v.

[102] La chiesa dello Spirito Santo qui individuata potrebbe, per esclusione (nel recentissimo rilievo dell’assetto urbanistico del villaggio di Bisarcio non sono stati censiti altri edifici di culto), essere quella di cui avanzano l’absidiola e poche vestigia, a nord dell’ex cattedrale (gps: N 40° 38’ 45.5” – E 8° 53’ 32.0”). Potrebbe coincidere con quell’oratorio che Giovanni Spano, senza indicarne la fonte, descrive come “dedicato a Santa Croce, parimenti distrutto”, forse “posteriore [alla cattedrale], perché formato coi materiali della vicina Canonica” (cfr. G. Spano, Chiesa cattedrale dell’antica Bisarchio, «Bullettino Archeologico Sardo», vi (1860), pp. 87-88). In realtà l’absidiola potrebbe essere romanica e, insieme con quel che resta del paramento dell’aula, essere identificata in quella dello Spirito Santo. In epoca successiva, dopo una fase di abbandono (forse antecedente al 1549), sarebbe stata ricostruita sulla stessa base, con conci di risulta della canonica, sotto il nuovo titolo di Santa Croce. 

[103] Asdalghero, Registro delle visite pastorali, iii, Visita di Durante De Duranti a Bisarcio, ff. 10/r -11r.

[104] Il Santo Stefano barbato e il capitello del Trionfo del Cristo sul basilisco del Sant’Antioco di Bisarcio, «Quaderni Bolotanesi», xxxviii (2012), pp. 159-178.

[105] San Giacomo apostolo è il primo dei quattro santi (San Tommaso di Canterbury, San Martino e Santa Cecilia, gli altri) menzionati nell’epigrafe consacratoria dell’altare, che corre sul paramento sinistro della cappella (cfr. V. Della Marmora, Itinerario dell’isola di Sardegna, iii, a cura di M.G. Longhi, (rist.) Nuoro 1997, pp. 69-70).

[106] Asdalghero, Registro delle visite pastorali di Durante De Duranti e Pietro Vaguer 1539-1550, Visita di Pietro Vaguer a Bisarcio, ff. 121-122.

[107] L’altare posat en bona forma contenint ensi lo peu del altar ab tot complime(nt)s e n(ost)ra S(enyo)ra ab son Jesus de bulto i dos quadros dela nuciacio y nativytat de aq(ue)ll [,] lo restant a complime(nt)s de d(i)t altar esta en divierses pesses de lenyam no pintat ny messa en obra (Asdalghero, Registro delle visite pastorali, iii, Visita pastorale di Durante De Duranti del 1539, f. 10r). Dieci anni dopo, il 29 maggio 1549, l’altare è censito un retaule nou gran lo qual no es acabat [,] encabat encara (ibi, Visita pastorale di Pietro Vaguer del 1549, f. 121v).

[108] J. Warre Tyndale, The island of Sardinia: including pictures of the manners and customs of the Sardinians, and notes on the antiquities and modern objects of interest in the island, to which is added some account of the house of Savoy, II, London 1849, p. 125. Lo Warre Tyndale scrive prima di Giovanni Spano, che pure raccoglie una testimonianza antica di quasi un secolo: “da tutti quelli che le conobbero si giudicavano della stessa mano delle pitture di Ardara” (cfr. G. Spano, Chiesa cattedrale dell’antica Bisarchio, «Bullettino Archeologico Sardo», vi (1860), p. 83, nota 1).

[109] Giovanni Muru e aiuti, Retablo di Santa Maria del Regno (1505), polittico, tempera su tavola con fondo oro,  10 x 6 m circa, Ardara, basilica di Nostra Signora del Regno. Per un approfondimento sulla cronologia dell’opera si rimanda al saggio di G.G. Cau, Non si può errare essere liberale inverso gli uomini grati. La Madonna della  Misericordia di Giovanni da Gaeta: le ragioni della committenza, «Theologica & Historica. Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna», xix (2010), pp. 239-255. Non si può escludere, ma l’ipotesi appare meno probabile per mancanza di riscontri, un triplo trittico con un primo ordine in onore della Vergine e immagini di altri santi negli ordini superiori. Nell’Ancona del Crocifisso attribuito a Bartolomeo Castagnola (primo decennio XVII sec., doppio trittico con cimasa, olio su tavola,  350 x 257 cm, Quartucciu, chiesa di San Giorgio), un S. Antioco e un San Giovanni Battista  sovrastano una Annunciazione e una Adorazione dei Magi al primo ordine. In ogni caso, di norma, per una sorta di “cortesia agiografica”, nella quasi totalità dei retabli isolani del Cinquecento, il patrono della chiesa trova collocazione nello scomparto inferiore a destra della Vergine (la sinistra del riguardante), ove questa è rappresentata.

[110] Asdalghero, Noticias antigas, cit.

[111] G.G. Cau, L’epigrafe consacratoria di Sant’Antioco di Bisarcio (1164) [di] Giovanni Thelle vescovo, «Sardegna Antica», xxxviii (2010), pp.19-20.

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